82. I programmi sui Gypsy mentono
La camicia bianca si è spiegazzata in valigia. Non so come sia accaduto, ma è così. Mi guardo allo specchio del bagno e non riesco a far finta di niente davanti a quella piega infame che parte dall'ombelico e forma un orecchio al lato destro della camicia.
"Ti vuoi dare una mossa?" sento brontolare fuori dalla porta.
Serafina si è svegliata di pessimo umore. Ieri sera si è addormentata quasi alle tre, dopo aver bevuto tutto l'alcol acquistato e aver visto una maratona di episodi di Friends. Si è vestita con poca cura, eppure prima di chiudermi in clausura nel bagno, le ho lanciato uno sguardo e mi è sembrata splendida, come al solito. Puntualmente le mie solite paranoie sono tornate a trovarmi, ma poi ho trovato la piega e ho avuto altro di cui preoccuparmi.
"Sì, arrivo".
"Spero bene. Dobbiamo essere in chiesa prima degli altri, mia nipote vorrà vedermi" la odo ringhiare a bassa voce, prima di aggiungere: "Già non ci sono stata nella preparazione al battesimo. Una madrina! Ma perché ha preteso me? Bah".
"Sef" le rispondo, aprendo di scatto la porta. "Andrà tutto bene".
Lei, in un bellissimo abito verde, ricambia il mio sguardo rimanendo sulla difensiva. Sembra che debba calcare qualche passerella di moda, mi viene quasi da ridere al pensiero che quello che ci aspetta è, in realtà, un battesimo.
Gypsy.
"Non sei un po' troppo... discreta?" tento di scherzare, disperato.
Una delle sue perfette sopracciglia si alza lentamente. "Che vuoi dire?".
Ecco, mi sono come al solito infilato in un vicolo cieco.
"Niente, lascia perdere" taglio corto. "Devo chiamare Anthea".
"Chiamala pure" mi risponde lei e io sono felice che non voglia approfondire le mie ignoranti credenze sul suo popolo.
Recupero il mio cellulare ed esco sulla terrazza, che ormai è divenuta casa mia. Compongo il numero di Anthea, sapendo che in New Jersey è mattino tardo. Risponde immediatamente.
"Ciao, Jess! Era ora che chiamassi!" esclama con la voce squillante, dall'altra parte della linea. Sono felice di notare che non sembra stanca, ma mi sento anche in colpa per averle fatto attendere così tanto.
"Sì, hai ragione. Ieri sera siamo arrivati ad un orario decente, ma sono successe delle cose con il cognato di Serafina e...".
"Ah, okay. Capisco. Problemi con i parenti" mi interrompe lei e c'è un sorriso nella sua voce. "Nessun problema".
"Non sei arrabbiata?".
"No, per niente".
"Ora vado al battesimo".
"Stai lontano dalle risse".
"Ci proverò, anche se ho già conosciuto un tizio che...".
"Sembra farti fiorire i cazzotti sulle mani?" ride lei. Rido anche io: "Esatto".
"Buona fortuna, Jess. Fai il bravo".
Vorrei dirle che non c'è alcun bisogno di dirmi di fare il bravo, ma preferisco tacere, affondando nel senso di colpa per le preoccupazioni della sera prima. Che diritto ho di innervosirmi? Quello che ieri sera ha dovuto bloccare dei pensierini sul suo capo sono io. Che imbarazzo.
"Certo" rispondo deciso.
"Jess". La testa di Serafina sbuca dalla porta-finestra. "Andiamo?".
"Arrivo. Ciao, Thea".
"Divertiti" mi dice lei e io spero con tutto me stesso che l'imperativo faccia il suo effetto.
***
Non so bene come mi ero figurato la casa della famiglia Celli, ma sono più che certo che anche il pensiero più sconnesso non si avvicini alla realtà. Mi ero immaginato una casa estremamente trash, magari un piccolo palazzo circondato da giochi d'acqua e un giardino di siepi potate a forma di persone o animali rampanti. Una casa il cui interno fosse letteralmente tappezzato da preziosi tessuti rosa shocking e leopardato, un po' come avevo visto nei programmi che Ruben non può fare a meno di guardare su TLC.
Di certo non ho mai pensato ad una specie di roulotte.
"Benvenuto nella mia magione" scherza trucemente Serafina.
C'è da dire che non è una vera roulotte. Diciamo che ci somiglia molto. È una casa bassa, con un tetto che pare fatto di lamiera e pareti di legno che una volta doveva essere bianco, ma il cui colore, ormai, è totalmente scrostato. Ha una porta a zanzariera a cui manca più di un pezzo, sopra uno scalino di calcestruzzo grigio. Dietro le finestre si intravedono tendine di pizzo, ma la casa e lo spiazzo in cui si trova - un quadrato brullo, sconnesso, dove crescono erbacce e si nota della spazzatura, non sono di certo il massimo. Sull'altro lato della costruzione noto dei bancali con alcuni sacchi.
"Che lavoro fanno i tuoi?" domando, cercando di nascondere quanto in realtà sia turbato.
"Fa schifo, vero?".
"Non volevo dire questo".
"Te lo si legge in faccia, Jess. E comunque hai ragione: è tutto una merda. Pensa: sono cresciuta proprio qui. Comunque mio padre e i miei fratelli sono asfaltatori".
"Ah" dico, in preda allo sgomento e alla confusione. "E tua madre?".
Serafina mi fissa e io improvvisamente mi sento stupido.
"Sì, scusa. Le donne gypsy non lavorano".
"Non usare quella parola qui" mi sgrida lei. "Non piace. Porta con sé la paura dei gorger nei nostri confronti".
"Gorger sarei io?".
"Ovviamente".
"Quindi come vi devo chiamare? Rom?".
Lei storce ancora il naso e scuote la testa. "Rom significa solo 'uomo'. Non dice niente sulla comunità. Una donna è una Romni, non una Rom".
"Sai che queste cose avresti dovuto spiegarmele prima?".
"È tutto salute".
"Quindi?".
"Quindi Romanichal andrà benissimo".
Avanza nello spiazzo e la vedo che prende un bel fiato prima di salire lo scalino e bussare alla porta con la zanzariera. Dentro la casa si sente un momento di baccano, poi la porticina si spalanca e la madre di Serafina spunta sulla soglia. Non è ancora vestita con gli abiti della festa e sembra che fosse a metà di un intenso lavoro sui propri capelli, ma si illumina non appena nota la figlia.
"Sei arrivata" squittisce, allungando le braccia e stringendosi contro Serafina.
"Già" le risponde lei, fredda. "Non sei ancora pronta? Dov'è Kisha?".
"A casa sua. Doveva aiutare Angel con la bambina".
"Ah già" risponde sprezzante il mio capo, rivolgendomi uno sguardo. La signora Celli segue il suo sguardo e il suo sorriso traballa leggermente quando incrocia i miei occhi. Imbarazzato, faccio un passo avanti e cerco di sorridere in maniera convincente.
"Buongiorno, signora Celli" gracchio, insicuro.
"Buongiorno" risponde lei, confusa. Torna a guardare Serafina e lei anticipa le sue domande: "È uno dei ragazzi che lavora per me. Mio buon amico. Spero che non sia un problema che lui sia qui".
Non è un tentativo sincero di assicurarsi che i suoi parenti saranno contenti di avermi attorno: sembra molto di più una minaccia.
"No... no" risponde sua madre, riprendendosi leggermente. Mi sorride e si indica. "Io sono Jeta".
"Molto piacere. Jess" rispondo. Non sembra intenzionata a stringermi la mano, così rimango dove sono. In un certo senso questa signora mi sta simpatica: si vede che adora avere la possibilità di rivedere sua figlia. In più Serafina ha dimostrato un certo rispetto per lei. Sono certo che sia okay, per quanto okay possa essere una madre in una famiglia che tenta di tarpare le ali alla propria figlia primogenita.
Jeta Celli torna a guardare Sef. Si allontana di un passo e i suoi occhi letteralmente brillano, probabilmente velati di lacrime, osservando il suo vestito.
"Sei così bella" mormora a mezza voce. Si guarda intorno, poi all'interno di casa sua. "Vuoi... volete entrare?".
"No" risponde Sef secca. "Visto che non sei ancora pronta, ci vediamo dopo".
"Ma...".
"Dove sono gli altri?".
La signora deglutisce e indugia per un lungo istante. Strano: la prima impressione che ho avuto di lei è stata quella di una cicala, incapace di stare zitta. La donna che ora guarda sua figlia commossa non sembra neanche lei.
"Cutter e Hunter sono dalle loro famiglie. Tuo padre si sta preparando".
"Ecco. Visto che è qui, è meglio se ce ne andiamo".
"Non dire così, Seraph".
"Mamma" ribatte velenosa lei, "Ti ho già detto che non mi chiamo più così. Da un pezzo".
"Va bene" risponde sua madre a bassa voce, forse offesa, forse triste. "Serafina".
"Ecco, molto meglio. Ci vediamo dopo. Ora vado da Kisha. Abita ancora in quel buco di culo in cui l'ha portata River?".
Si vede che la signora Celli vorrebbe dirle qualcosa, ma deglutisce di nuovo e annuisce. Mi guarda quasi implorante, ma io non posso fare niente per lei. Non ho alcun potere in questo luogo. Posso solo farmi trascinare avanti e indietro dal mio capo e sperare di non morirci, nel frattempo.
Lasciamo la ex casa di Sef senza parlare. Chiamiamo un taxi e appena ci troviamo al sicuro sui suoi sedili scuri, Serafina prende un altro ampio respiro e accenna un sorriso. La cosa mi terrorizza, perché non ha niente di allegro. Sembra solo feroce.
"Perché sorridi?".
"Sai che una romni che ha appena partorito viene considerata impura?".
"Okay. Quindi?".
"Lei e il bambino non possono entrare nella comunità fino a quando il battesimo non sarà completato. Altrimenti gli spiriti maligni potrebbero sfruttare il canale impuro del neonato per diffondere malattie e maledizioni nelle altre famiglie".
Noto che il tassista ci lancia un'occhiata preoccupata e io vorrei dirgli che non è l'unico a sentirsi a disagio.
"Ho capito. Questo cosa comporta per noi?".
"Che andremo a casa di mia nipote e non troverò nessun cagacazzo a parte mia sorella. Non mi dovrò nemmeno sorbire il marito della ragazza".
"Quindi nemmeno tuo cognato?".
"Nemmeno quella merda su due gambe".
"Ottimo" dico rinfrancato. "È un'ottima notizia, ma... se è impura, perché noi possiamo avvicinarci e gli altri no?".
Serafina mi rivolge un'occhiata divertita. Subito dopo le sue labbra si tirano in un ghigno di sfida.
"Non sapevo fossi un Romanichal praticante di vecchie e infondate tradizioni".
Rimango in silenzio, poi scuoto lentamente la testa.
"Sef, non piacerà agli altri che non ti comporti secondo le tradizioni".
"Ho smesso di farlo andando avanti con gli studi, Jess. Ho quasi quarant'anni, sono una donna sola che ha avuto ben più di un rapporto sessuale fuori dal matrimonio, vivo con un cane e dirigo un giornale specializzato in letteratura e folklore. Pensi davvero che si scandalizzeranno solo per questa ultima cosa?".
"No" rispondo, imbarazzatissimo. È sempre stata molto discreta a riguardo delle sue relazioni. Nella mia testa, Serafina è una specie di Atena gypsy. Mi turba sapere che abbia avuto relazioni. In questo momento mi sento un po' come i bambini che scoprono che il fratellino non è stato portato dalla cicogna. Ecco. "Davvero, no".
"Perfetto. Allora andiamo a vedere la marmocchia per cui sarò madrina. È mio diritto, no?".
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