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81. Alcolisti all'InterContinental

Il bar è affondato in una caligine ambrata, prodotto di fumo di sigaro, luci e alcol. È bello, intimo e stranamente piacevole, anche se l'alto sgabello su cui siedo non ha lo schienale e sono costretto ad appoggiarmi, ingobbendo, al bancone. Davanti a me c'è una piccola gradinata illuminata da luci nascoste nelle mensole, che fanno brillare le bottiglie di liquore, come se fossero statuette di premi o idoli pagani. 

Ho un accenno di nausea, il forte desiderio di dormire e nel fondo del cervello una quieta disperazione, un sentimento strano, rabbioso, da ubriaco triste e incattivito. Tra le mie mani stringo ancora il bicchiere ormai vuoto del mio Singapore Sling e sulla lingua persiste il dolciastro e stomachevole retrogusto della ciliegia.

Non avevo mai bevuto una roba del genere. Mai in vita mia. Non sono neanche sicuro del perché l'abbia ordinata: ho semplicemente trovato accattivante il nome esotico sulla lista dei drink.

Come questa carta dei drink mi sia arrivata in mano, è un'altra questione. Io volevo solo essere empatico verso Serafina, tutto qui. Mi ha detto: "Ho bisogno di bere" e io l'ho semplicemente accompagnata. Non so bene come, nel giro di mezz'ora, io stesso sia finito a scolarmi un dannato Singapore Sling - che nome idiota per giunta - dal sapore di amarena sintetica. Sta di fatto che ora ho in corpo un mix di angostura, gin, liquore alla frutta e granatina. E mi viene da vomitare. 

"A me fa schifo la ciliegia" dico ad alta voce. 

Serafina, che è seduta sullo sgabello al mio fianco, volta il viso verso di me. Faccio lo stesso. Lei ha lo chigno sconvolto, eppure sembra appena uscita da un quadro neoclassicista. Potrebbe essere la raffigurazione di una Giunone esausta, un'Era alla fine del bagno. Ha il mascara leggermente colato a causa delle lacrime roventi che ha versato poco prima e due larghi cerchi neri sotto gli occhi. Eppure rimane bellissima. Sconvolto dai fumi del cocktail bevuto a stomaco vuoto, riesco solo a pensare a quanto sia bella. 

"Perché l'hai bevuto, allora?" mi domanda aggrottando la fronte. Lei ha appena terminato un Tequila Sunrise e continua a giocherellare con il pennacchio di lucida plastica rossa dello stuzzicadenti. Emette un fruscio fastidioso, ma non glielo dico.

"Aveva un bel nome".

Serafina smette di interessarsi a me. Storta la bocca in un'espressione disgustata e fa un cenno al barista. L'uomo, venticinque anni e la bandolina lucida sui capelli scuri, si avvicina sorridendo. Forse non si rende conto che sta giocando con il fuoco. 

"Posso ordinare un drink da portare in camera?" chiede.

"No, signora. Però può ordinarlo da lì chiamando il numero che trova sul comodino" risponde lui, sorridendo come se stesse offrendo nel servizio anche se stesso. 

"Okay" risponde lei, secca. Si alza, si aggiusta un ricciolo e mi guarda. 

"Tu cosa fai?".

"Ti seguo. Sono stanco".

"Ho delle pasticche per il jet lag. Dobbiamo dormire".

Afferra il trolley e io faccio lo stesso. Non siamo neanche saliti in camera, dopo aver fatto il check-in: abbiamo subito fatto tappa al bar e basta. Siamo qui da quasi un'ora.

Ci dirigiamo al grande e splendido ascensore incorniciato da luci dorate. Abbiamo una camera al quinto piano, in questo hotel di lusso. 

Appena saliamo, Serafina chiude gli occhi e si appoggia alla parete a specchio. Alza il viso, prende un ampio respiro. 

"Non sarei mai dovuta venire qui" commenta con un filo di voce. "Sono una deficiente".

Rimango in silenzio. Questa volta non so cosa dire. Ho paura di peggiorare solo la situazione.  

"Avrei dovuto ricordarmi di quello schifoso. Invece non ci ho neanche pensato. Sono una deficiente".

"Sef" oso sussurrare, "basta".

"Domani sarà un inferno. Cristo, Jess. In cosa ti ho trascinato?".

"In niente" dico secco, irritato dal sapore orribile della ciliegia che ormai vira verso lo sgradevole aroma dello sciroppo per bambini e dalla stanchezza. "È solo una giornata. Sarà come partecipare ad un matrimonio orribile".

"Un battesimo".

"È uguale. Ci saranno scarpe scomode, parenti rompipalle e domande fastidiose. Fine. Se ti sentirai troppo a disagio, possiamo sempre andarcene in hotel".

Questo pensiero sembra coglierla di sorpresa, perché spalanca gli occhi e si ritrova a farsi bruciare le retine dai faretti del soffitto. All'improvviso diventa seria e risponde: "Hai ragione. Posso sempre scappare".

"Sì. Scapperemo assieme".

"Come le fughe d'amore che fanno i ragazzi romanichal".

"Eh?".

Non so perché questa cosa la diverta, ma si mette a ridacchiare. Forse è l'alcol.

"Quando le famiglie non sono d'accordo, i ragazzi prendono e scappano".

"E perché?".

"Per mettere in dubbio la verginità della ragazza. Così i suoi genitori saranno costretti a farla sposare all'uomo che probabilmente gliel'ha strappata".

Scoppia a ridere in maniera canina, un latrato senza gioia. La guardo costernato, ma tutto sembra troppo irreale per essere vero. Cosa ci faccio a Los Angeles? Chi sono le persone che incontrerò? Perché siamo qui in questa sorta di limbo, di universo parallelo che gioca con regole proprie? Né lei né io gli apparteniamo. 

Dispero e, anche se so che è colpa di quel cocktail terribile, non posso fare a meno di crogiolarmi nella sofferenza. Mi ricordo perfino che non ho chiamato Anthea. Potrei farlo ora, ma sono troppo stanco. In più il senso di colpa per essermi dimenticato di lei sopprime le mie ultime forze. È come un ciclo vizioso: mi sento una persona orribile e non ho voglia di sistemare la situazione. Desidero solo buttarmi sul letto e dormire, o almeno provarci. 

Quando le porte dell'ascensore si spalancano, quelli che mettono piede sulla profumata moquette del piano sembrano due alcolizzati. Traballiamo e ci appoggiamo alle valigie, trascinandoci fino alla porta numero 502.

Condividere la stanza non era stata nei miei piani, all'inizio. Poi Serafina mi aveva detto che non ci sarebbe stata una seconda singola e che avrei dovuto pagare molto di più. Il mio portafoglio infelice aveva fatto il resto. 

Serafina infila una mano nella borsa, rovista per qualche istante e ne estrae una specie di carta di credito dai riflessi bronzei con il nome dell'albergo in bella vista, a caratteri cubitali neri. La passa nel lettore e la porta si apre, dopo un bip di conferma. La spalanca con un ginocchio e infila la carta nel lettore, per accendere le luci. 

"Bene bene" dice, guardandosi attorno.

La stanza è molto graziosa: sulla parete di destra, tinta di nero, sono appoggiate le testate di due letti gemelli con in mezzo un comodino. Una lampada a luce gialla illumina una piccola scrivania di legno chiaro provvista di minibar, sedia e cassettini. La cosa più bella è l'ampia finestra che dà su un minuscolo balconcino: le luci di Los Angeles, costellazioni di gialli, arancioni e viola, sfavillano nella notte buia. Mi fermo a guardare quel particolare spettacolo e per un secondo dimentico di sentirmi uno straccio. Mi sento sollevato da ogni forma di malessere, perfino il disgustoso sapore del Singapore come-si-chiama viene dimenticato. 

Mi ricordo, con un brivido, la prima sera con Anthea. Erano ben altre luci quelle che osservavamo da uno dei più alti palazzi di New York, ma pur sempre luci erano. Per un secondo mi sento bene, mi si scalda il cuore. Penso che potrei chiamare Anthea, mandarle un messaggio, anche solo per dirle che le voglio bene. 

"Tu vuoi qualcosa?".

Vengo distratto dai miei ricordi dalla domanda secca di Serafina. Volto il viso e la vedo seduta su uno dei due letti, con in mano la cornetta nera del telefono. Sta già componendo il numero del servizio in camera. 

"No, Sef. E anche tu dovresti evitare".

"Io non voglio evitare niente. Io voglio bere".

"Sei un'alcolizzata".

"Sono un'infelice. È molto diverso".

Mi zittisco, mentre lei aspetta in linea. Pochi secondi dopo una voce maschile le risponde gentilmente. 

"Una bottiglia di rosso e un Long Island senza ghiaccio" chiede. "Metta tutto in conto a Celli".

Non appena chiude la chiamata, si alza e, senza alcun preavviso, si sbottona la camicia e la getta con noncuranza sul letto. Rimane in reggiseno - nero, di pizzo, che dà su un generoso davanzale - e io per poco non mi sento male. 

"Cosa fai?" chiedo in allarme, diventando rosso e abbassando subito lo sguardo.

"Ho caldo" mi risponde lei, venendomi incontro. Per un secondo la mia mente si getta a capofitto in un ginepraio di pensieri, tra lo spavento e la meraviglia - per questi ultimi vorrei uccidermi - ma fortunatamente mi supera, si inginocchia di fianco alla sua valigia e la apre, probabilmente cercando la camicetta del pigiama. 

Chiudo gli occhi e tento di dimenticare quello che ho visto, ma la sua immagine stenta a sbiadire. Vorrei darmi dei colpetti in fronte per velocizzare il processo, ma più mi impunto, più dettagli ricordo. È una cosa stupida eppure gravissima! 

Mi sono sempre sentito a disagio davanti a immagini di donne in biancheria intima, ho sempre odiato farci pensieri impuri. Lo psicologo diceva che avevo istinti sessuali repressi e non penso di potergli dare torto.  

Però non posso. Non ora. Non sul mio capo. Non ora che sono impegnato. No, no: in realtà questi pensieri non dovrei farli mai, su nessuno. Ma soprattutto non su Serafina. 

Improvvisamente ho un gran caldo. 

"Prendo una boccata d'aria" le dico, letteralmente slanciandomi verso la finestra. La apro e vado a sporgermi, cercando di riempirmi gli occhi con le luci della città.  

Cos'è tutto questo, Jess? mi dico. Da quando ti fai questi problemi? Hai bevuto troppo. Chissà cosa c'era dentro davvero quel drink. Non ti sei imbarazzato così nemmeno quando Anthea ha tentato di spogliarti.

Sento bussare, poi delle voci. Deve essere arrivata la consegna di alcol. Spero che Serafina sia quantomeno vestita, perché al tizio potrebbe venire un infarto. 

"Devo rimanere lucido" mi dico, tra i denti. "Mi sto lasciando prendere dal panico solo perché questa situazione sembra un sogno. Un incubo. Sì. Non c'è altra spiegazione. Ho caldo, ho bevuto troppo, sono esausto e in compagnia di una donna bellissima".

Mi ritorna in mente Anthea, con i suoi occhi temporaleschi.

Dovrei essere preoccupata?

"No. Te lo giuro".

Me lo diresti altrimenti, no?

"Non c'è niente da dire" brontolo a me stesso. "Proprio niente".

"Jess? Hai finito di parlare da solo? Vuoi un bicchiere di vino?".

Do un'occhiata alle mie spalle e tiro un sospiro di sollievo quando noto la maglietta azzurra del pigiama. Serafina ha sciolto i capelli e mi fissa come se stessi ammattendo, con una ruga che le taglia la fronte. 

"Arrivo. Ma non bevo".

"Come vuoi. Ce n'è di più per me".

Richiude la finestra e io torno a guardare le luci di Los Angeles. Penso ad Anthea e all'assurda situazione in cui mi sono cacciato. Ritrovo la lucidità e quasi rido di me stesso: quante scene per essermi imbarazzato davanti a un décolleté.

"Si vede che non ne vedo molti" mi dico divertito, anche se sento serpeggiare una vena di paura, mentre rientro.


***


Ciao,  carucci!

Dopo più di un mese, a causa degli esami di fine sessione, sono tornata! Mi scuso con tutti i lettori affezionati per non aver avvisato in maniera più chiara, ma volevo che fosse un po' una sorpresa, questo ritorno improvviso. 

Sì, lo so, sono una disgraziata.

Ve ne ama, babies. ♡ 

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