69. La misura della preoccupazione
Vorrei dire che la serata non è andata tanto male, se si evita di rammentare la sgradevole scoperta sulla salute di Anthea, ma sarebbe una menzogna. Nel senso, non è andata davvero tanto male: una volta rientrati i nostri amici, ci siamo rimessi a giocare, Sam e Ruben hanno fanno più baccano del solito per mantenere la nostra attenzione su di loro. E ci sono riusciti, eccome. Ma... vi è mai capitato, da bambini, di far arrabbiare i vostri genitori in pubblico? A me succedeva spesso, soprattutto con mio padre, che era il più severo tra i due. Quando combinavo qualcosa, lui mi guardava e mi faceva un cenno inconfondibile che solo io sapevo interpretare, per non destra sospetti con gli ospiti: dopo facciamo i conti.
La mia ansia fa proprio lo stesso identico gesto, poco prima che Ruben proponga di ballare la stessa canzone di Katy Perry, giurando di raggiungere le cinque stelline al primo colpo: dopo facciamo i conti.
E li facciamo. Li facciamo davvero, una volta tornati a casa.
Saluto il mio buon coinquilino, metto a letto Anthea. Dopo la scoperta del suo cuore difettoso, non abbiamo molto parlato: quasi tutto il viaggio di ritorno è stato occupato dalle chiacchiere di Bub e sembra che a entrambi la cosa sia andata bene.
Mi chiudo in bagno e ci rimango per quasi venti minuti, passati per lo più seduto sul gabinetto con la tavoletta abbassata a riflettere sulla questione. O meglio: a spaventarmi da solo, perché in realtà la questione è molto, molto chiara e non c'è nulla che io possa fare per cambiarla.
Passo tutto il tempo a rivedere nella mia testa gli indizi e i sospetti che ho palesemente sottovalutato per tutto questo tempo e mi rimprovero di aver sottovalutato la questione. Stupido di un Jess, come potevi credere che fosse semplice stanchezza? E a dire che da giovane ne hai viste di puntate di Grey's Anatomy.
Tiro fuori il cellulare e mi metto a cercare la malattia dal nome lunghissimo citata da Anthea, ben sapendo che Google mi terrorizzerà. Scopro che è davvero una malattia congenita, che può essere più o meno grave - a quanto pare quella di Thea non è la forma più terribile - e che può essere controllata, se si prende in tempo e se si mette un bypass.
Con rabbia stritolo il telefono quando mi ricordo le parole di Anthea riguardo suo padre. È ricco da far schifo e non solo spedisce la figlia in una università misconosciuta nonostante sappia delle sue capacità, ma addirittura non le permette un'operazione che, per quanto costosa sia, potrebbe fare la differenza tra la vita e la morte.
Mi alzo di scatto, furente, decidendo di tornare in camera. Spero che Anthea si sia già addormentata, era molto stanca quando l'ho lasciata sola. Mi muovo lentamente, cercando di fare meno rumore possibile, ma quando richiudo delicatamente la mia porta e mi volto, incrocio i suoi occhi chiari. Svegli. Decisamente indagatori.
"Perché sei stato in bagno così tanto?" Mi domanda, sembrando parecchio infastidita dalla mia assenza. "Hai per caso cercato su internet se è il caso di lasciarmi o meno?"
È sulla difensiva. Vorrei dirle che è mio diritto indagare, ma capisco che sarebbe solo l'ennesima crudeltà. Posso capire perché sia così nervosa e per questo lascio la porta e le vado vicino, sedendomi sul mio lato del letto. Le faccio un sorriso, che non la rilassa nemmeno un poco.
"Non ti si può nascondere niente." Commento. Anthea si irrigidisce. Se ci fosse accesa una luce, la vedrei probabilmente diventare pallidissima.
"Beh?" Chiede, a testa alta, come se mi stesse sfidando. "Sentiamo. Quanto sei spaventato ora."
"Molto." Rispondo, decidendo di stare al gioco. "Sono davvero molto spaventato."
"Spero almeno che tu abbia capito che non è contagioso."
"Non c'è mai la certezza su queste cose."
"Quindi domani mattina faccio la valigia? Torno a casa?"
Lo chiede con sarcasmo, ma capto il velo di lacrime che sottintende. Forse sto esagerando.
"Tu non vai da nessuna parte." Le comunico, molto tranquillamente. "E non so se offendermi o meno per questa tua poca fiducia nei miei confronti. Pensi davvero che io sia così maniaco della mia salute?"
"Non lo so." Risponde lei, che è rimasta nella stessa posizione di difesa di prima. "In fondo ci conosciamo da poco tempo."
"Anthea" esalo, questa volta sinceramente preoccupato, "stavo scherzando. Cioè, sì, è vero che ho cercato su internet la tua malattia, ma neanche una volta ho pensato di scaricarti. Mi concederai di ammettere che sia stato uno spavento? Se fosse accaduto a me, tu non ti saresti preoccupata? Io non avevo mai sentito quel nome, mi è sembrato peggio di un tumore."
Finalmente il suo viso tirato si addolcice un poco, la tensione si stempera in quello che sembra senso di colpa. Si porta una mano al viso e si asciuga una piccola lacrima che non avevo notato.
"Te l'ho detto, avevo paura."
"E lo capisco benissimo. Ma io mi sono fidato di te, perché tu non l'hai fatto?"
"Non è così. Ti ho detto anche questo: la tua non è una malattia."
"Nessuno se la prenderebbe con te per essere malata. Non è una decisione che hai preso tu." Le ricordo. "Quello che ho io, invece, assomiglia solo a un capriccio agli occhi di molti."
"Ma non lo è. E comunque non ho paura che la gente se la prenda con me."
"Qual è il problema allora?"
"La compassione."
Lo dice come se fosse un insulto. Mi fissa, come a sfidarmi a contraddirla. Sospiro.
"Sei orgogliosa."
"Vivere con questa cosa ti chiude un sacco di porte. Certo, sono chiuse con gentilezza da persone sorridenti, che pensano di darti una mano. Ma le porte vengono chiuse e sbarrate lo stesso! Non puoi fare questo, Anthea! Non puoi giocare con gli altri bambini! Non puoi nuotare in piscina! Meglio se eviti di andare in gita, meglio se eviti l'aereo! Devi fare pochi sforzi, Anthea!"
La sua voce si alza e solo per una mia occhiata allarmata torna ad abbassarsi. Mi guarda truce e continua: "Non è vita, questa."
"Vai davvero a camminare come mi hai detto? Per tutte quelle miglia?"
"Certo. E sai cosa? Continuerò a farlo."
Sì, ora è proprio una sfida. Mi sta facendo capire che avermi rivelato il suo segreto non mi dà il permesso di mettere becco nelle sue decisioni.
"Potrò almeno preoccuparmi per te?" Domando dolcemente, tendendomi verso di lei. Anthea mi squadra come se stesse valutando la mia sincerità, ma alla fine passo l'esame, perché scivola sdraiata e mi afferra un braccio, costringendomi a fare lo stesso. Ci ritroviamo stesi vicini, senza toccarci, il nostro viso a pochi centimetri di distanza. Sono contento di vedere che non piange più.
"Potrai." Dice a bassa voce. "Ma solo un pochino."
"Pochino quanto?"
"Proprio proprio pochino."
"Pochino così?"
Alzo due dita, indice e pollice a tre centimetri di distanza. Anthea solleva una mano e avvicina l'indice, fino a lasciare pochi millimetri.
"Così."
"Davvero poco. Non penso di essere capace."
"Basta che ti fidi di me."
"Mi fido. Non mi fido del tuo cuore."
"Il mio cuore zoppica, ma combatte. Proprio come me."
Non rispondo, la guardo. Guardo gli aloni scuri che si notano comunque, anche senza luce, sotto i suoi occhi. Mi chiedo quanto durerà, ma qualcosa dentro di me, una vocina sottile sottile, forse appena nata, che non ha il coraggio di combattere contro i colossi di ansia e angoscia, sussurra ricordandomi di darle fiducia.
"È tutto?" Le domando.
"Cosa?"
"Tutto qui quello che dovevi dirmi?"
Lei rimane a ricambiare il mio sguardo, impassibile. Poi sorride e in quel suo sorrisetto volpino ritrovo la mia bellissima ragazza, l'immagine che avevo di lei prima di questa sgradita novità. Ci spero davvero: tornerà tutto come prima. Non me ne farò una malattia.
"Forse no." Dice. "Domani mi porti dai vecchietti?"
"Per forza." Le rispondo, aggrottando la fronte. "Domani è domenica."
"Visto che mi porterai dai vecchietti, io ti racconterò qualcosa in più, in cambio."
"Ti piacciono così tanto?"
"Sì. Sono proprio come me: vivono la vita alla grande."
"Cosa mi racconterai?"
Anthea continua a sorridere, anche se più amaramente di prima.
"Vedrai."
"Non ti riguarda direttamente se è una brutta cosa, vero?"
"Tranquillo."
Non ha chiarito se sia una cosa bella e se sia sua: mi aspetta una nottata di angoscia. Più o meno come al solito.
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