68. Un cuore in frantumi
Da bambino ero soggetto a ogni tipo di malanno: se nella mia scuola si presentava l'influenza, si poteva star certi che me la sarei presa. Il medico aveva detto ai miei genitori che non era un problema di sistema immunitario ma di cura della propria persona: dal momento che passavo tutto il mio tempo libero in giro con quelli che erano ancora i miei amici maschi, incurante del freddo, del vento e dei patogeni, puntualmente mi ammalavo.
Penso che ormai mia madre ci avesse fatto l'abitudine. Quello a cui di certo non era divenuta avvezza era la mia tendenza a svenire. Avevo iniziato a farlo a cinque anni e avevo continuato fino ai nove, quando all'improvviso i mancamenti scomparvero come se non fossero mai esistiti.
Ovviamente non era la sola a spaventarsi: la spiacevole sensazione di vedere improvvisamente tutto nero e risvegliarsi circondati da tante, troppe facce, era talmente divenuta abituale che anche ora ne conservo il ricordo. Un ricordo molto brutto.
Per questo motivo il mio normale grado di angoscia raggiunge picchi impressionanti mentre Anthea rimane a occhi chiusi, pallidissima, sdraiata sul divano fiorato di Christine. Picchi probabilmente da infarto.
"Chiamo il 911?" Chiedo, non riuscendo a stare calmo. Sam, che è scomparsa per cercare qualcosa in una delle stanze, urla: "Tu sei fuori! È solo svenuta!"
"Tranquillo, Jess." Mi dice dolce Chris, mentre tiene d'occhio Anthea. "Non sarà niente di strano."
Scambio uno sguardo involontario con Ruben e quello che vedo nei suoi occhi mi atterrisce: sembra preoccupato, ma nella sua maniera grave. Fa finta di guardarsi attorno, però io so che è così. Lo conosco.
Sam torna di corsa con una fiala di sali. La stappa e la sistema sotto il naso di Anthea, che dopo due inalazioni dell'odore acre apre gli occhi e tossisce, cercando di allontanarla da sé con una manata.
"Bentrovata." Dice la nostra amica con un sorriso, ma Thea si mette seduta di scatto, una mano premuta in modo convulso sul petto e il viso sconvolto dal terrore. Per un attimo credo sul serio che stia per morire e mi pento amaramente di non aver fatto di testa mia e chiamato i soccorsi.
Fortunatamente sto esagerando come al solito.
"Sto... Sto bene." Dice in un soffio, guardandoci uno a uno. Penso che Sam si metterà a ridere e le dirà una qualche battuta, ma qualcosa ha messo in allarme anche lei come Ruben: fissa i suoi occhi scuri la mano che Anthea ha ancora agganciata alla camicetta.
Senza chiedere il permesso, allunga una delle proprie e appoggia due dita contro la sua gola. Anthea si irrigidisce, ma Sam rimane in quella posizione solo una manciata di secondi, dopodiché si posa le mani sulle ginocchia e si dà la spinta per alzarsi.
"Soffri di tachicardia." Le fa presente, lanciando uno sguardo a Ruben.
"Sì." Risponde lei, ma è impossibile non notare il pallore di natura ben diversa che ora la sua pelle ha assunto. Non so perché, ma vengo percorso da un brivido di paura grezza. Ti prego, Signore, fa che non sia questo che voleva dirmi. O meglio: fa che sia solo questo.
"Semplici aritmie?" Indaga Sam. È difficile tentare di mentirle: il suo sguardo è granitico. Pretende la verità, ora e subito.
"Sì." Risponde ancora Anthea.
Sam sospira, come se avesse a che fare con una bambina testarda.
"Anthea, ascolta: ho fatto studi medici prima di entrare in un laboratorio del dipartimento di biologia. Sai in cosa mi sono specializzata? Il muscolo cardiaco."
Guardo il viso calmo di Sam, poi sposto lo sguardo sulla mia ragazza. Ora sì che la paura è palese, chiara e luminescente come una stella che pulsa.
Lei e Sam continuano a fissarsi per quasi un minuto, poi è Thea a distogliere lo sguardo. Lo abbassa, così come abbassa la mano dalla maglietta. Rialza il volto per guardarmi.
"Mi dispiace." Dice, con tutta la sincerità di cui è capace. "Te lo avrei detto..."
"Che cosa?"
Ho la voce stridula. Orribile. Sembro un pappagallo strozzato. Anthea abbassa di nuovo gli occhi. Prende fiato, come se avesse fame d'aria, poi finalmente spiega: "Ho una malattia."
Nessuno di noi parla: so che l'attenzione di Sam, Ruben e Chris è tutta per me. Questa cosa mi fa sentire doppiamente a disagio.
"È una malattia genetica." Precisa Anthea, iniziando inevitabilmente a balbettare, perché mi guarda e vede la mia espressione orripilata. "Si chiama... si chiama cardiomiopatia del ventricolo sinistro non compattato."
Non ho assolutamente mai sentito quel nome lunghissimo, ma sono comunque terrorizzato.
"È grave?" Pigolo.
Anthea fa per dire qualcosa, ma alla fine preferisce guardare Sam. È lei che prende la parola.
"Dipende." Ci va con i piedi di piombo. Male. "Quando ti è stata diagnosticata?"
"Da bambina. Attorno ai cinque anni."
"Aritmie?"
"Sì."
"Altro?"
"Solo quelle."
Sam torna a guardarmi. "Abbastanza. Ma penso che tu lo sappia, Anthea."
Lei annuisce e io improvvisamente provo il desiderio terribile di darmi un pizzicotto, perché questa cosa deve assolutamente essere un incubo. Non può essere vero! Fino a dieci minuti fa ci stavamo divertendo e Anthea aveva due semplici occhiaie causate dalla carenza di sonno per la tesi, non stava rischiando di morire per un infarto!
Sento il bisogno di sedermi, così lo faccio, al suo fianco. Lei si raddrizza, sposta le gambe, mi si fa vicino. Ho quasi paura a toccarla: non riesco a non pensare al suo cuore.
"Prendi delle medicine?" Chiede ancora Sam.
"Sì. Il Verapamil. Tre volte al giorno."
Sam annuisce di nuovo e l'interrogatorio sembra essere terminato. Eppure nella mia testa ci sono decine e decine di domande, oltre che grossi campanelli d'allarme che gridano, brillando rossi e arancioni.
Anthea ha un cuore che non funziona bene nel petto. Anthea non me l'aveva detto.
"Era questo che volevi dirmi?" Le chiedo, senza guardarla.
I nostri amici captano l'attimo di tensione tra noi e immediatamente decidono di concederci un minuto. Sam prende per i gomiti Christine e Ruben e dice loro che vuole uscire a prendere una boccata d'aria sul balcone, perché fa davvero molto caldo in salotto. Avrebbe ragione, se solo ora io non stessi tremando per l'agitazione.
Anthea attende che loro siano scomparsi, oltre le grandi vetrate del terrazzo, prima di lanciarmi un timoroso sguardo e annuire.
"Mi dispiace." Sussurra. "Avevo paura."
"Paura di cosa?"
"Che volessi chiudere con me. Perché sono malata."
Faccio per dirle che si sbaglia, ma non posso negare che le sue parole abbiano senso. Anche io avrei voluto aspettare.
"Non è simile a quello che è successo a me? Eppure io ti avevo detto subito la verità." Le faccio presente, ma lei scuote leggermente la testa e abbassa gli occhi.
"Tu non hai nulla che non vada." Mormora. "La mia invece è una malattia. Una malattia grave. Vivo sapendo che un giorno i farmaci antiaritmici potrebbero tradirmi all'improvviso e l'ennesimo battito sbagliato mi faccia avere un arresto cardiaco."
"Non ci credo che non ci sia nemmeno un modo per curarla!" Sbotto. Anthea trasalisce così violentemente che io mi sento proprio un idiota. Le circondo le spalle con un braccio, per tentare di farle capire che non sono arrabbiato. Non ho alcun diritto a esserlo: capisco la sua paura. La capisco.
"Mi dispiace." Le dico. "Scusa."
"C'è un modo per tenerla controllata." Abbozza lei. "Tramite un bypass. Hai presente? Quello che di solito mettono alle persone anziane."
"Perché non ce l'hai?"
Non mi aspetto di certo di vedere l'Anthea esotica, sconosciuta e adulta comparire dietro le sue iridi, come un fantasma di donna che passeggi davanti a grandi vetrate che danno su un giardino. Non me la aspetto eppure eccola lì, immediata e sconvolgente, che ricambia il mio sguardo con ironia, quasi disprezzo, ma non per me. No.
"È un'operazione che costa molto." Mi dice semplicemente.
Non ci credo. Non può essere vero. Un padre non può essere come Anthea sta descrivendo il suo. Nemmeno il mio, con il quale non parlo più da anni, è mai stato così mostruoso con me. Non volontariamente.
"Io..." Soffoco nella mia stessa rabbia, ma Anthea allunga le mani, le posa sulle mie guance e tocca la mia fronte con la propria. Mi guarda negli occhi e l'Anthea che mi spaventa è scomparsa di nuovo, sostituita dalla bella, vivace creatura di cui mi sono innamorato subito e senza deciderlo.
"Capisci perché corro?" Bisbiglia, appena udibile, con una strana emozione nella voce. "Non so quanto durerà. Non posso pensare di sprecare ogni momento. Voglio conoscere tutto, voglio assaggiare tutto, voglio baciare, amare, voglio correre e nuotare e viaggiare. Voglio andare in Italia, voglio andare in Grecia, voglio toccare con mano ciò che è morto e non morirà mai più, perché è ormai parte dell'eternità. Ho voluto dirti subito che mi ero innamorata di te, volevo baciarti e l'ho fatto; voglio trascorrere con te la maggior parte del tempo. Con te, con Ruben, con Sam e Chris, con i tuoi amici. Nel tuo mondo. Perché non so quanto tempo avrò, se saranno cinquant'anni o ventiquattro ore."
Sono annichilito. Non so cosa dirle. Ho sentito un rumore nel mio petto: credo che non solo il suo cuore sia rotto, ora.
In frantumi.
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