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6. Fiore

"Hey, ciao." Dico e so che mio padre aveva ragione da vendere. La ragazza sobbalza e alza gli occhi su di me. Ha il viso da bambina: guance piene, bocca piccola, occhi grandi. Alla luce intermittente che ogni tanto spezza il buio non capisco se sono pallidi e limpidi come sembrano o se è solo una mia impressione. Quello che vedo con chiarezza è l'infinito numero di efelidi che scuriscono la sua pelle su tutto il viso e, per quanto riesco a vedere, sulle braccia. Sembra un fazzoletto bianco picchiettato di minuscole gocce di caffè. Indossa una composta camicetta di viscosa su cui ricadono i capelli, lunghi, lisci e castani. Capisco subito perché Ruben non ha tentato di fare tripletta: è bella, ma di una bellezza timida, sommessa.

Mi congelo sul posto quando mi rendo conto che mi sta fissando come una cerva davanti ai fari di un'auto. Ci mette qualche secondo di troppo per rispondere al mio saluto, con una voce timida, più simile a un sospiro.

"Ciao."

"Posso sedermi?"

Lo chiedo il più gentilmente possibile e le sorrido. La ragazza corrisponde, seppur timidamente e, ne sono quasi sicuro, arrossendo.

"Sì."

Circumnavigo il tavolino e mi siedo sul divano, a un braccio di distanza da lei. Non voglio che lei pensi male di me. Intreccio le mani e le guardo. Spero che la ragazza dica qualcosa, ma sta in silenzio. Io in silenzio maledico Ruben.

"Temo che il mio amico ti abbia portato via la tua compagnia." Dico, non sopportando più la situazione. Piego la testa un poco, per guardarla di sguincio. Si sta torturando le dita della mano sinistra.

"Sì..."

"Mi spiace. Non ho ancora imparato a gestirlo del tutto. L'allevatore mi aveva detto che avrebbe fatto il bravo, ma..."

Questa volta la ragazza sorride. Smette di strapazzare le dita e incastra entrambe le mani tra le ginocchia. Indossa un paio di pantaloni neri e leggeri.

"Non fa niente."

Decido di tentare di stemperare l'imbarazzo. Mi volto e le tendo una mano.

"Io sono Jess."

Lei, dopo un lungo istante di esitazione, me la stringe. Ha il palmo caldo e asciutto.

"Anthea." Sussurra. Ora che sono più vicino mi rendo conto che ha davvero gli occhi più limpidi che abbia mai visto. E che porta un nome bellissimo.

"Piacere, Fiore."

Anthea mi fissa e vedo cambiare qualcosa dietro quelle iridi pallide. Qualcosa come il fantasma di colore lasciato da una punta di pennello immersa in acqua.

"Sì. È quello che vuole dire. Come lo sai?" Mi chiede curiosa.

"Ho fatto studi classici, anche se sono laureato in letteratura inglese."

"Letteratura inglese." Ripete.

"Con una tesi su Joyce." Confermo, trovando buffo il modo in cui mi sto presentando, come se stessi cercando di farmi assumere.

Anche lei sembra notare la stranezza della situazione, perché si porta una mano alla bocca e soffoca un piccolo sorriso.

"E tu, invece?" Le chiedo. Probabilmente solo una persona come me potrebbe iniziare a dialogare una persona parlando delle proprie qualifiche scolastiche. 

"Io? Io studio ancora."

"Quanti anni hai?"

"Ventidue."

Non vorrei estorcerle le parole di bocca, ma sembra patologicamente timida.

"E cosa studi?"

"Lettere classiche. Vorrei fare il dottorato in filologia latina."

"È una cosa molto rara."

Lei arrossisce un pochino, ma non dice niente. All'improvviso mi sento nella posizione di uno scomodo molestatore. Un nodo mi stringe la gola mentre rivedo con orrore crescente quei pochi istanti di chiacchiere. Chissà come mi vede, questa poveretta. Avrà notato che provengo dai divanetti presso cui si sono sistemate le sue due prodighe amiche? Ma soprattutto, avrà visto il cinque che Ruben mi ha dato prima di venire da lei?

Impacciato, dico: "Prendo da bere. Tu vuoi qualcosa?"

"Un rossini, per favore." È la sua sospirata risposta.

Mi alzo, sollevato dall'occasione offertami per pensare, e mi avvio al bar. Al barista acrobata chiedo sottotono un metropolitan e un rossini e intanto tento di trovare una scappatoia a questa situazione. Perché mi sono fatto trascinare da Ruben? Perché ho accettato non solo di venire a questa dannata festa, ma addirittura di attaccar bottone con una persona che ha tutti i motivi per cui non essere interessata? Guardo il barista mentre cerca di fare il suo lavoro di attrazione senza neanche vederlo. Mi dispiace non apparire entusiasta, ma so che prima o poi finirà e io dovrò tornare a dare fastidio a quella poverina. Mi giro e lancio uno sguardo a Ruben: sta già mettendo in atto il suo diabolico piano di gelosia e selfie. Sorride all'obiettivo della fotocamera del suo cellulare abbracciato alle amiche di Anthea. All'improvviso lo invidio per la sua faccia tosta. Di sicuro si sente meglio di me.

"Pronti." dice il ragazzo che mi ha servito, in modo abbastanza secco da farmi capire che non ha apprezzato la mia mancanza di attenzioni. Gli sorrido, sperando che capisca che mi spiace, e prendo i miei due drink. Faccio un ampio respiro e cerco di inventarmi qualcosa da dire. Qualcosa tipo Scusa se ti sto disturbando, è che sono un sociopatico patologico e non voglio stare con il mio amico traditore e le tue amiche brille. Me ne vado subito? Forse troppo diretto. Quindi vuoi fare il dottorato in filologia latina? E dove? Tornerei il fastidioso di prima. Mi accorgo che le mie mani si stanno lentamente congelando a causa del ghiaccio nei bicchieri così, mentre tento di staccare il mignolo intirizzito dal vetro, capisco che non posso rimanere lì per sempre.

Torno dalla mia ospite. Ha ancora le mani tra le ginocchia e sembra pensierosa.

"Ecco qui." Dico, appoggiando il suo bicchiere sul tavolino davanti a lei, e poi mi butto: "Anthea, so che io non..." Ma lei mi interrompe timidamente e ribatte: "Ti vorrei chiedere scusa. E grazie, per il drink."

"Scusa?" Ripeto confusamente. Lei mi fa un mezzo sorriso e si sistema una ciocca dietro l'orecchio.

"Non volevo essere così scortese. È solo che... Non sono molto brava a socializzare."

Arrossisco. "Neanche io, in realtà. Però se vuoi che me ne vada..."

"No, no!" Risponde lei e poi, impacciata, aggiunge: "Rimani."

Faccio come mi dice: mi risiedo a poca distanza da lei, dalla parte opposta del divanetto in cui ero seduto prima. Le sorrido e lei ricambia.

"Comunque prima non sei stata scortese. Immagino che avrei reagito allo stesso modo se uno sconosciuto si fosse seduto vicino a me nel tentativo di fare conversazione."

"Però sei scappato a prendere i drink perché ti ho messo a disagio."

"Un poco. Siamo pari in quanto a imbarazzo?"

Il suo sorriso si allarga di un centimetro in più. Questa volta sembra proprio divertita. Fa un cenno col viso al punto in cui è in atto un servizio fotografico tra i nostri amici e dice: "Mi spiace per l'inconveniente."

"Figurati. Non avrei comunque tollerato Ruben per tutta la sera."

"Ruben." Ripete lei. "Nome biblico. Come il tuo."

"Vero, Fiore."

Si allunga a prendere il bicchiere di rossini posato sul tavolino e poi mi chiede: "Dove hai studiato?"

"Alla EMU. In Michigan."

"Studi qui ora?"

"No... Ho smesso dopo la laurea. Ora lavoro per l'università. Correggo articoli accademici per un giornale specializzato."

"Come si chiama?"

"La lanterna di Aristotele."

Per un secondo temo che il sorso di drink che ha appena preso le vada di traverso, ma non accade nulla del genere. Anthea deglutisce e poi esclama, con la sua strana voce vellutata: "Lo conosco! Lo leggo tutti i mesi. Mi piacciono gli articoli sulla mitologia."

So che da qualche parte Serafina sta sorridendo come una volpe. Lo so per certo.

"Sono quelli del mio capo."

"È davvero bravissima."

"Ma studi qui?"

"No. Alla Rutgers. New Jersey. Abito lì."

"Come mai sei in città?"

"Sono ospite di Jenny e Pam. Sono mie amiche di scuola. Ora vivono qui." Anthea rivolge uno sguardo nostalgico alle due ragazze che ridono con Ruben, a una decina di metri da noi. "Ma sono un po' cambiate da come me le ricordavo."

"È l'effetto della Grande Città."

"Penso di sì."

Torna a sorseggiare il suo drink. Assaggio il mio e sono contento di notare che il barista non si è offeso tanto da rovinarmi il metropolitan.

"Sai" Dico due sorsi, colto da un'improvvisa scarica di positività, probabilmente causata dalla botta improvvisa di alcol. "Questa serata non sta andando male come mi aspettavo."

Anthea mi guarda e sorride. Il liquido freddo le ha arrossato le labbra. Ora sembra direttamente uscita da una fiaba.

"È vero."

Come se qualcuno da Lassù mi avesse fatto un furbo occhiolino, il ritmo tamarro viene a sorpresa sostituito da una musica non solo orecchiabile, ma anche ballabile. Io non sono un bravo ballerino, normalmente pratico questa arte solo in sacre occasioni come le serate Just Dance a casa di Sam e Christine - chiunque si sentirebbe un Roberto Bolle vedendo Ruben ballare - ma questa, a quanto pare, risulta essere una sacra occasione.

"Anthea, ti va di ballare?"

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