53. Sei malato mentale, tu?
Cosa non darei per non trovarmi in questa situazione. A pensarci così su due piedi, darei in dono un pezzo di fegato per evitare la chiacchierata che mi aspetta. Vuol dire che sono messo male con la coscienza, forse. Non saprei. A volte non mi capisco, anche se in questo caso ho ben chiara la mia paura.
Dopo aver preso il caffè, mi dirigo nel mio ufficio con Silas alle calcagna: non so cosa dirgli e lui non sembra avere intenzione di parlare, almeno finché non saremo in un luogo sicuro. Vorrei allungare all'infinito l'attesa sull'ascensore, ma purtroppo il vegliardo oggi sembra voler funzionare bene e nel giro di due minuti chiudo la porta della mia piccola stanza. Mi giro e indico a Silas la sedia.
"Prego."
Silas si siede subito, stringendosi la cartelletta al petto. Non sembra affatto nervoso: è tranquillo e con l'aspetto di chi non ha nulla da temere. Questa cosa forse dovrebbe rincuorarmi, dovrebbe farmi sentire a mio agio, ma in realtà la condizione è ben peggiore. Se mostrasse un poco di umana preoccupazione, io non mi sentirei così a disagio.
Mi siedo davanti a lui, mi tendo in avanti come fanno gli agenti di assicurazioni - forse è un modo di intimidirlo, no? Incombendo su di lui - e lo fisso.
"Non ti torna qualcosa del processo di editing?" Domando. Sono un cazzaro, uno che prova senza vergogna a vendersi. Sto bluffando e lo so perfettamente, tanto che non mi stupisco affatto quando lui scuote leggermente la testa e accenna un sorriso.
"No, nessun problema su questo. È che ho riflettuto a lungo su una cosa e sono qui per un confronto."
"Quale cosa?"
"Quello che mi hai detto."
"Abbiamo parlato di molte cose."
"La faccenda del tuo... problema."
Rimango in silenzio per un attimo, fissandolo. Non so se stia scherzando o cosa. Non so neanche dove voglia andare a parare, dando per scontato che sia serio.
"E cosa vorresti chiedermi?"
"Se hai mai visto uno psichiatra."
Il respiro che sto rilasciando mi si pianta in gola come se qualcuno mi avesse appena tirato una manata in pieno viso. Non posso descrivere le emozioni che provo nella frazione di secondo: forse c'è della rabbia, una punta di indignazione, un po' di delusione... ma sotto tutto domina un oceano in tempesta di paura che mi congela fino al midollo. Improvvisamente il caldo di luglio ha subito un'inversione degna dell'escursione termica di un deserto e congelo dall'interno. Le punte delle dita si raffreddano, i muscoli dell'addome si contraggono e so per certo che a breve mi verrà un mal di testa da premiazione. Non male, per una giornata che è iniziata con una notte insonne e un dramma mentale.
"Uno... psichiatra?"
Nella mia testa c'è un subbuglio di sentimenti, ma risulto piacevolmente confuso con un certo grado di delizioso sconcerto. Sono contento di me stesso, sembro una persona matura che sta per affrontare un problema. In realtà mi sento più come un surfista davanti all'onda di un maremoto.
Silas annuisce come nulla fosse. "Per il tuo problema."
"Ho seguito uno psicologo per molti anni. Ma non capisco perché questo tuo interesse."
"Beh" dice lui pacifico, prima di sganciare la bomba, "è una malattia mentale la tua, o sbaglio?"
Ora l'agitato oceano di tristezza ha cominciato a ribollire, come ricordando qualcosa che ha radici profonde nel mio passato. Senza che io possa minimamente farci qualcosa, davanti ai miei occhi salgono e poi scoppiano come bolle una collezione di visi, umani che ho incrociato nei miei ventotto anni di vita. Hanno tutti l'espressione di Silas, chi più divertito, chi più preoccupato, dicono tutti la stessa cosa: sei malato mentale, no?
Per così tanti anni ho pensato la stessa cosa e non sopporto più che qualcuno me lo ripeta.
"Non è una normale malattia mentale. Si chiama disforia." Chiarisco, parlando molto lentamente per impedire che la mia voce tremi. "Non è come la schizofrenia o la depressione."
"A me non sembrano cose diverse. Un depresso si sente sempre triste anche quando dovrebbe essere felice, no? Tu ti senti sempre sbagliato nel tuo corpo, se non ho capito male. E i depressi vedono lo psichiatra, no?"
Il mare di tristezza ribolle. Come fa un ragazzo così giovane a non capire? Posso scusare un anziano conservatore, ma non lui. Ha vent'anni, maledizione. Ha vent'anni e tutto ciò che gli si chiede è un po' di elasticità mentale, di immaginazione e, perché no, di empatia.
"Mi dispiace, Silas. Non penso che tu capisca la mia situazione."
"Certo che la capisco, è solo che tu probabilmente sei stato vittima di un lungo indottrinamento e credi che sia normale che..."
Dal mare si eleva un vulcano. La tristezza evapora in rabbia. Sono sempre stato una persona ansiosa, un po' codarda, facile all'ipocondria. Ma c'è un limite alla minaccia della mia dignità.
"La conversazione si chiude qui." Taglio corto, più duro di quanto io non voglia essere. "Ti prego di andartene."
Il ragazzo si zittisce e finalmente esprime un po' di umanità quando sgrana gli occhi e appare sorpreso. Troppo tardi.
"Scusa, Jess, ma io sono venuto qui per parlarti perché sono preoccupato per te..."
"Ti ringrazio. Ma sto benissimo così come sono."
"Ma, Jessica..."
Qualcosa dentro di me erutta.
"MI CHIAMO JESS." Esclamo, quasi urlo. "E ora: buona giornata, Silas."
Alzo imperiosamente un dito, indicando la porta. Silas mi guarda a occhi sgranati, probabilmente scioccato dalla mia reazione. Anche io forse sono un po' stupito di me stesso, ma non posso dire di essere pentito.
"Beh... come vuoi." Accenna, alzandosi lentamente. "Magari adesso sei un po' scosso per le mie parole. Va bene. Ne possiamo parlare quando vuoi."
"Grazie per il pensiero." Rispondo, palesemente sarcastico. "Ma temo che andrà bene così. Sto bene così come sto."
Silas mi rivolge uno sguardo in cui si palesa l'ombra dell'incredulità. Fortunatamente per i miei nervi non si sente in dovere di berciare altre stronzate e si chiude la porta alle spalle. Non appena sono sicuro che sia ben chiusa, mi prendo la testa tra le mani e cerco di calmare i battiti del mio cuore. Cosa dicevo sulla mia bella giornata?
"Al diavolo." Sibilo rivolto a me stesso, cancellando il viso di Silas dai miei pensieri come è già successo tante volte nella mia vita, con davvero tante, troppe persone.
***
"Che faccia, Jess. Sembra che ti abbiano ucciso il gatto."
Sentire la calda voce di Ben è come ritrovarsi in bocca il sapore amorevole della birra: sa di casa, è confortevole, con un retrogusto buono e giusto. Sono invaso da un sentimento di affetto nei suoi confronti non appena entro nella sua calda tana irlandese, che come al solito non ha molti clienti. D'altronde è estate per tutti: è la stagione fredda che attira le torme di affezionati al locale, questi rappresentano solo il suo zoccolo duro.
"Ciao, Ben." Dico con un sospiro di sollievo, dopo aver posato il violoncello nel mio spazietto personale ed essere tornato al bancone. Stasera c'è anche Stella, che ha finalmente tagliato la frangia - si nota che è stata opera di suo padre, perché sembra un taglio alla Lady Gaga - e che è impegnata in un disegno complesso, per cui ha buttato matite colorate ovunque. "Ciao, piccola. Che fai?"
"Disegno." È la sua risposta secca, senza che neanche alzi gli occhi su di me.
"Che cosa?"
"Stephanie."
"Hai visto la puntata di venerdì?"
"Certo che l'abbiamo vista."
Anche Ben si avvicina, dopo che ha servito un boccale di birra a un cliente. Ha le guance arrossate dal caldo, le maniche della camicia rimboccate e la faccia di uno che ha corso tutto il giorno. Però sorride.
"Allora? Cos'è quel muso lungo? Dai dai, spiegamelo che poi ti tiro su il morale."
"Ho avuto un piccolo scontro con un tipo alla redazione." Rispondo, sedendomi di colpo su uno sgabello, proprio davanti a Stella. "Per il mio solito problema."
"Un altro? Alla redazione? Chi, Quentin?"
"No, Quentin è a posto. Uno stagista."
"Ti ha rotto?"
"Un po'. Ma, tranquillo, il solito discorso sui problemi mentali et cetera."
"Cos'è successo?" Chiede subito la bimba, all'improvviso più interessata alle nostre chiacchiere che al suo capolavoro. "Ti hanno fatto arrabbiare, Jess?"
"Un pochino, Stellie."
Lei contrae le labbra e corruga la fronte. Cerco di negarlo, ma assomiglia dannatamente a sua madre. E questo non è affatto un bene.
"Dovevi dargli un pugno!"
"Stella!" La rimprovera Ben, subito in allarme per il commento della figlia. "Ti sei già dimenticata il nostro discorsetto? Non si fanno queste cose. Quando si ha un problema, bisogna prima parlare con la persona o chiedere aiuto."
Pronuncia l'ultima frase come una filastrocca. Chissà quante volte l'ha già ripetuta alla sua bimba. Stella però sembra fare orecchie da mercante perché colora con più foga di prima il sole nel suo disegno con un pastello rosso fuoco. Un affresco dell'Apocalisse marziana più che una bella giornata.
Ben sospira, scuote la testa, mi guarda con un sorriso. È su di giri anche se sua figlia continua a dimostrare una strana tendenza aggressiva.
"Perché quel sorriso da Stregatto, Benji?"
"Perché... perché... ti direi di sederti, ma purtroppo lo sei già."
"Se vuoi mi rialzo e mi risiedo."
"Ah-a, scemo."
"Sceeeemo." Ripete con spregio la sua degna erede, facendomi una linguaccia. Allungo una mano e le rubo il pastello che ha in mano, provocando la sua reazione immediata.
"Ridammelo o ti mordo!"
"Stella!"
"Non sei mica un cagnolino." Le dico, ridandole la matita.
"Ho i denti aguzzi!" Si vanta lei.
"Ah sì? Fammi un po' vedere."
Subito apre la sua boccuccia in un tentativo di sembrare minacciosa. Le è caduto un dentino, quindi sembra un cucciolo che gioca a fare l'adulto.
"Oh sì, hai ragione: molto minacciosa."
"Ecco."
Ora è tutta soddisfatta e torna a occuparsi del disegno. Guardo Ben accennando un sorriso di scuse, ma lui è comunque molto contento.
"Abbiamo un invito." Mi dice, con la voce acuta delle grandi ed emozionanti notizie.
"Un invito?"
"The Musician. Abbiamo un invito per la serata speciale del cuore. Stephanie me l'ha fatto avere l'altro ieri. Ha invitato me, te e la sua coinquilina stramba."
"Rory." Mi ricordo io, mentre alla mente mi balza l'immagine di una testa semirapata, capelli di un improbabile azzurro cielo, una valanga di piercing e un paio di labbra viola.
"Rory. Esatto. Proprio lei."
"Quando?"
"Venerdì prossimo."
"Oh. Davvero molto presto."
"Tranquillo, guido io. Ma capisci? Non ci possiamo mica perdere questa occasione."
"Papaaaaà." Si lamenta subito Stella. "Vengo anche io."
"Beh, ovviamente." Chiarisce lui, sorridendo. "Ovviamente Stephanie ha invitato anche Stella."
"Nessun problema. Anzi! Ci divertiremo, vero, Stellie?"
"Batterò le mani per Steph e se qualcuno dirà buuu gli tirerò un pugno!" Mi risponde lei, chiudendo le manine e mostrandomi quanto forte sarà quel suo cazzotto.
"Stella! Basta parlare così!"
"Ma io lo faccio per Steph! Steph è la più brava dell'universo."
"Quindi dici che io sono meno bravo?" Le domando, facendo finta di essere offeso. Lei mi guarda, come se stesse valutando l'importanza della domanda, poi annuisce solenne e risponde: "Tu sei il secondo più bravo dell'universo."
"Sei una ruffiana." Le dice Ben, aggiustandole un codino sbilenco. "Quanto ti canto le canzoncine prima di andare a dormire lo dici a me che sono il più bravo dell'universo."
"Come papà." Mette in chiaro lei, più veloce della luce. Rido, stupito ancora una volta dalla mente sveglia della piccolina. Assomiglia davvero tanto a Stephanie in alcune cose. Sempre meglio lei che Soleil.
"Allora." Mi domanda Ben. "Pensi che come notizia possa migliorare la tua giornataccia?"
"Sicuramente. Grazie."
"Figurati. E ora vedi di rendere allegri i miei clienti, vorrei proprio che facessero tutti un bel doppio giro di birra, ho bisogno di soldi."
"Per far cosa?"
"Comprare svariati metri di tessuto per fare un bello striscione a Steph, ovviamente."
"Lo faccio io!" Si intromette subito Stella.
Rido: questa è la famiglia Kelly. Vivace come il più vivace dei temporali estivi irlandesi. Una doccia fredda era proprio quello che mi serviva per distogliermi dai miei pensieri.
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