51. Romanichal wine
Quando arrivo davanti al palazzo di Serafina dopo una disperata corsa in metro, trovo il portone già aperto. Non è un buon segno: significa che ha fretta. Questa, in realtà, è solo la conferma di qualcosa di cui già sono sicuro, dal momento che ho risposto al telefono quando ho letto il suo nome sullo schermo.
Chiudo il battente e salgo le scale. Non riesco a concentrarmi su niente: continuo a pensare a Ruben, che fortunatamente aveva un invito a cena a casa De Luca già confermato per collegarsi via Skype con Eirene, e subito dopo mi ritrovo a pensare a Serafina. Ma il mio cervello è talmente in subbuglio che, come al solito, in una situazione di tensione tende ad affastellare problemi su problemi. Di conseguenza si aggiungono la richiesta ancora incompiuta del figlio di Jacob e l'affaraccio Silas. Mi domando perché io sia così portato per invischiarmi nei problemi altrui. Ne avrei a sufficienza per i fatti miei, no? No, ovviamente. Che vita banale altrimenti.
Arrivo al piano e ad accogliermi c'è il musetto di Goethe, che spunta infelice dalla porta socchiusa. Di solito questo cane è iperattivo ma, dal momento che riflette alla perfezione l'umore della sua padrona, stasera sembra a dir poco malinconico. Cattivo segno. Gli faccio una carezza e mi affaccio alla porta chiamando a bassa voce: "Sef? Ci sei?"
"Sono qui."
La voce viene dalla cucina, quella stanzetta prettamente intonsa che viene utilizzata come zona di deposito per i croccantini canini. Supero il salotto e sbircio nel piccolo locale, come un bambino colpevole.
"Sef?"
Serafina è in piedi dietro la microscopica isola, su cui è posata una bottiglia aperta di vino rosso. Ha in mano un calice e la faccia di una che vorrebbe evitare questi convenevoli e bere direttamente a canna.
"Ciao." Dice con tono vagamente arrabbiato, prima di finire in un sorso quello che avanza nel bicchiere.
"Non so se bere funziona davvero per dimenticare." Rispondo, appoggiandomi allo stipite.
"Nel dubbi ci provo. Ne vuoi un po'?"
Scuoto la testa. "Almeno uno dei due deve rimanere lucido se vogliamo combinare qualcosa."
"Combinare qualcosa? In che senso?"
"Nel senso che non penso che tu mi abbia chiamato per farci una bevuta."
"No, infatti." Conviene lei. "Voglio solo che mi aiuti a tagliarmi le vene dei polsi."
La fisso in silenzio il tempo necessario affinché lei alzi lo sguardo dal calice e ricambi il mio sguardo. Si acciglia subito.
"Sto scherzando. Vi amo troppo per uccidermi. Poi chi bada alla mia piccola banda di rincoglioniti?"
"Sef" inizio, con un sospiro, "che è successo?"
"Dipende dal lasso di tempo che ti interessa. Perché sono successe davvero tante cose nella mia vita."
"Stasera. Dai tuoi genitori."
"La solita merda. Prossima domanda?"
"Serafina."
Sbuffa, posa il bicchiere e alza le mani.
"Bene. Va bene. Tanto ormai la mia reputazione, con te, è già stata rovinata stamattina."
"Non è vero." Chiarisco subito, con un po' d'agitazione. "Ero solo un po' irritato perché non mi hai mai detto niente."
"Credimi: se potessi dimenticare tutto ciò che mi ha riguardato prima di New York, mi sarei già fatta lobotomizzare."
"Okay."
"Okay cosa?"
"Versami questo bicchiere di vino e parliamone."
Le mi guarda in silenzio per un istante, poi si volta, apre la vetrinetta sopra il lavabo e prende un altro calice. Lo riempie e me lo tende.
"E ne avremo bisogno parecchio." Commenta, calmando di nuovo il proprio. "Ne avremo proprio bisogno."
Ci spostiamo in salotto e mentre mi affianca noto che ha ancora indosso i tacchi: significa che non è tornata da molto tempo a casa. Non so se prendere la sua chiamata così celere per una lusinga o per un invito a preoccuparmi.
"Allora." Esordisce, non appena ci sediamo sul divano. "Da dove posso cominciare? Vediamo. Che ne dici se riassumo la mia infanzia come pietosa? Ci sta, no?"
Il tono tagliente che sta usando è qualcosa che conosco molto bene: lo sfrutta solo quando è molto triste e sulla difensiva. Cerca di anticipare con sarcasmo domande fastidiose.
Pazientemente rispondo: "Non mi interessa sapere i particolari, soprattutto se ti dà fastidio raccontarli. Sono qui per aiutarti, non per farmi gli affari tuoi."
La mia calma in qualche modo la fa tornare in sé: smette di considerarmi come un giornalista impiccione e torno a essere Jess, il suo atipico revisore della porta accanto.
"Bene. Il sunto è questo: la mia famiglia ha radicate origini romanichal. Hai presente? I cosiddetti zingari d'Inghilterra. I miei genitori sono nati e cresciuti a Los Angeles, in seno a una folta comunità. I romanichal sono gente a cui non piace mischiarsi con altre culture."
Dice tutto questo d'un fiato, per poi bere un sorso di vino.
"Lo so cosa stai pensando." Mi dice, cogliendomi di sorpresa.
"Eh?" Domando io, un po' confuso.
"Stai pensando ai matrimoni gypsy. A quell'imbarazzante programma su TLC."
Come posso negarlo?
"Un po'." Tentenno a disagio. "È la prima cosa a cui ho pensato."
"Non è tutto così." Ribatte lei. "Non è tutto lustrini e vestiti trash. E anche quelli hanno una motivazione molto profonda."
Non ho idea di cosa stia parlando, ma in fondo quella con il dottorato in folklore è lei, non di certo io. Annuisco, con il timore ancestrale di essere interrogato al riguardo, ma fortunatamente Serafina decide che prima ne parla, meglio sarà.
"Come sai sono nata anche io a Los Angeles. Sono la prima di quattro, quell'idiota che hai conosciuto è il terzogenito. Nella cultura romanichal porta bene avere un figlio maschio come primogenito, quindi ti lascio immaginare cosa ne pensasse mio padre di me. Peggio ancora quando è nata mia sorella Kisha. In ogni caso tutto ciò non ci interessa: sono cresciuta, come puoi ben immaginare, in un mondo molto diverso da quello in cui ora vivo. Su una cosa quei programmi orrendi hanno ragione: i romanichal si sposano giovani. L'unico tipo di educazione importante che un bambino romanichal deve avere è quello dei valori della famiglia. Puoi immaginare cosa questo voglia dire."
Sì, lo posso immaginare eccome.
"Eri tipo promessa sposa?" Chiedo, pieno di orrore. Lei piega di scatto la testa verso di me e quello che le esce dalla gola è un latrato che dovrebbe suonare come una risata.
"Ora, non esageriamo. Non mi hanno mai venduta per sette cammelli."
"Eh, che ne so. Mi pareva avesse senso."
"I miei avrebbero voluto che io trovassi un buon partito. Ovviamente romanichal. Ma a me piaceva la scuola e quando avrei dovuto abbandonarla per iniziare a pensare alle cose a cui pensano tutte le ragazze romanichal, insistetti tanto che mia madre riuscì a convincere mio padre che un paio d'anni in più non mi avrebbero di certo fatto del male. Intanto erano nati anche Hunter e Cutter e Kisha già si comportava come una brava gypsy. Potevano fare uno strappo alla regola."
"Immagino che ora se ne siano pentiti."
"Non hai neanche idea di quanto."
"Come hai fatto ad arrivare a New York?"
"Incontrai una brava persona al liceo. Un bravo professore, uno che ci vedeva lungo. Era il mio professore di inglese. Dove gli altri vedevano una sgraziata e aggressiva ragazza gypsy - ed ero perfettamente riconoscibile a causa dei vestiti, perché mia madre non mi avrebbe mai lasciato uscire di casa con addosso i miei tentativi di apparire normale - lui vedeva quella che ero e sono. Mi aiutò con la storia delle borse universitarie e pur sapendo che avrei spezzato il cuore a mia madre e fatto inferocire mio padre, me ne andai di corsa da casa quando riuscii a ottenerne una. La NYU mi voleva e io non avrei di certo detto di no, ti pare?"
Si ferma un secondo per sorseggiare un poco di vino e io la imito, visto che il bicchiere comincia a pesare nella mia mano. Prima che ricominci a parlare, chiedo: "Non sei mai tornata a casa, vero?"
"Neanche una volta."
"Perché ora sono qui, Sef?"
"Forse sono passati abbastanza anni."
"Per cosa?"
"Per far loro credere che io abbia cambiato idea." Mi rivolge uno sguardo duro, adamantino, con quei suoi occhi scuri e cupi. Ancora una volta non posso non far notare a me stesso quanto sia bella. Forse è per questo che suo padre è ancora così arrabbiato: una figlia così bella avrebbe sicuramente garantito un buon matrimonio. Ripenso alle serate passate a guardare le repliche dei matrimoni gypsy e mi chiedo quanto ci sia di vero e quanto ci sia di falso dietro quel mondo, probabilmente patriarcale e soffocante, dal quale Serafina è letteralmente scappata.
"Immagino che tu non l'abbia fatto."
"Non rientrerò mai in seno alla comunità."
"Ed è proprio per questo che sono tornati qui? Per chiederti di tornare?"
Corrugo la fronte quando lei non mi risponde subito, ma arriccia le labbra e si mette a mordicchiare il bordo del bicchiere, come se fosse un poco nervosa.
"Non proprio."
"Cioè?"
"Come hai sentito stamattina, è nata una bambina."
"Sì. Immagino sia tua nipote, no?"
"Pronipote."
"Eh?"
Mi rivolge uno sguardo stranamente carico di sarcasmo, ma con una bizzarra punta di disperazione spolverata di stanchezza.
"Mia nipote Angel, figlia di mia sorella Kisha, ha avuto la sua primogenita."
"Scusa" dico, "penso di non star capendo. Tu hai trentasette anni. Tua sorella è più piccola di te, giusto? Quindi quanti anni ha?"
"Trentaquattro" Risponde lei, con molta calma, dandomi l'impressione di aver appena cominciato a giocare a un gioco molto divertente con me.
"Okay. Trentaquattro. E come può essere già nonna?"
"Già nonna? È già in ritardo, in realtà."
"Che?!"
"Mia nipote Angel ha diciassette anni, ma si è sposata la prima volta che ne aveva quattordici."
"Cosa vuol dire la prima volta?"
"Che questo è il suo secondo matrimonio. Ha divorziato un anno dopo dal primo marito e l'anno dopo ancora si è sposata di nuovo e ha avuto la sua prima figlia. Per la cronaca, si chiama Marie-Jo."
Il bicchiere di vino lo bevo in un unico sorso e subito dopo appoggio il calice vuoto sul tavolino, posandomi una mano sugli occhi.
"La tua famiglia è... è..."
"Te l'avevo detto che era una bella merda."
"Quindi tua mamma era così contenta perché in realtà è appena diventata bisnonna?"
"E se continua così penso che vedrà anche il suo propronipote, non pensi?"
"C'è qualcosa di estremamente sbagliato in tutto ciò."
"Non più di quanto ce ne fosse nell'antica Grecia, Jess. È una cultura semplicemente molto diversa. Una cultura che a me non piace, ma pur sempre tale resta."
"E cosa vogliono da te ora? Che tu dia la benedizione a questa bambina?"
Lo dico quasi ridendo, con un sorriso lievemente isterico. Sono troppo sconvolto da questa situazione surreale. Lei scuote lentamente la testa e risponde al sorriso, solo che il suo non ha nulla di particolarmente divertito.
"Ci sei andato vicino. Vogliono che io vada con loro al battesimo perché ci sarà una festa che coinvolgerà tutta la comunità romanichal della zona."
"E tu ovviamente hai detto di no."
"Non posso dire di no."
"Perché mai?"
"Perché vogliono che sia la sua madrina."
Su di noi cala un silenzio interrotto solo dal russare tranquillo e raschiante di Goethe che, vista la situazione rasserenata, ha deciso di terminare il suo momento di vedetta e si è ritirato nei suoi appartamenti per schiacciare un felice e meritato riposino. Serafina osserva calma il liquido rossastro contenuto nel suo bicchiere, facendolo roteare delicatamente. Vedo i suoi occhi che seguono il movimento circolare, piuttosto che guardare me.
"Non puoi rifiutare?"
"Se rifiuto, non me lo perdoneranno mai."
"E a te interessa?"
Lei rimane zitta per qualche altro istante, poi sospira, si appoggia allo schienale del divano allontanando da sé il calice e alza gli occhi verso il soffitto.
"Voglio bene a mia madre." Dice sottovoce. "Non è mai stata colpa sua. È una brava donna, una brava persona. Ha fatto tanto per me quando ero giovane."
Capisco che quello che le è stato presentato è un palese ricatto emotivo, ma io non sono nessuno per dirle di resistere. La osservo zitto pensando per la prima volta al fatto che Serafina è una fuggiasca, proprio come me. Una persona che ha dovuto abbandonare il mondo che conosceva per non morire soffocata da quelle stesse braccia che le hanno dato la vita.
"Vuoi che venga con te?"
Non mi rendo conto di averlo detto e non solo pensato quando lei mi rivolge uno sguardo repentinamente stupito.
"Cosa? Dove? A Los Angeles? Ma sei impazzito?"
"Sì, penso di sì." Rispondo, con un accenno di nausea. "Ma qualcuno dovrà pur ricordarti cosa lasci a New York, non pensi?"
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