48. Nihil humani a me alienum puto
Romanichal. Gypsy. Non riesco a togliermi dalla testa queste due parole, anche se non sono sinonimi e non dovrei scambiarle ogni due per tre.
Serafina è una romanichal.
Viene palesemente da una di quelle famiglie che pensavo esistessero solo nei programmi prodotti ad hoc dai canali che vogliono diffondere il verbo del trash.
Non solo: ho addirittura avuto prova di quanto da programma trash siano i suoi parenti.
Ho proprio bisogno del caffè in tazza grande che mi sono preso alle macchinette. Giro la bacchettina di plastica nel bicchiere di plastica e mi chiedo cosa stia succedendo nella mia vita. Ho vissuto per sei anni senza un cambiamento o una rivelazione così speciali e nel giro di un mese succede di tutto: conosco Anthea, Stephanie finisce in un programma TV, Eirene parte per il Brasile, Tanya forse è incinta e Serafina si rivela essere figlia di gente da circo.
Serafina. La mia Serafina. Il mio capo, la mia guida spirituale. Immagino che sia così che si sentono i discepoli di un guru religioso quando scoprono che il suddetto padre della comunità ha speso tutti i loro risparmi in birra di discount e salatini da cocktail. Non ci posso fare nulla, dentro di me tutto quello che è successo suona come un vero e proprio tradimento: lei ha sempre saputo ogni cosa di me e io avevo supposto che il suo background vitale fosse, come minimo, candido, dal momento che ha sempre taciuto su ogni cosa. Ora invece mi trovo a dover fronteggiare qualcosa di enorme e, per quanto possa rimproverarmi di essere un egocentrico che pretende che la gente si apra con lui e gli racconti vita, morte e miracoli, non posso fare altro che sentirmi offeso dalla poca fiducia che sembra aver nutrito in me finora.
Non riesco a guardarla negli occhi in questo momento. Sono solo un po' arrabbiato, ma so che questa situazione potrebbe peggiorare se la guardassi, perché molto probabilmente non vedrei ciò che voglio, cioè pentimento e desiderio di farsi perdonare ma solo scazzo per la situazione in cui ora si trova. Anzi, in cui ora ci troviamo. D'altronde è questo il suo carattere, non posso esigere che faccia diversamente. Anche se lo vorrei tanto, almeno per una volta.
"Hai intenzione di rimanere in silenzio per tutto il tempo? Perché se è così, ti saluto e posso tornare al lavoro."
Lo dice all'improvviso con il suo tono più aggressivo. Non ha tutti i torti, ma la sua bellicosità attualmente mi irrita. Alzo lo sguardo dal mio caffè che intanto si sta inesorabilmente raffreddando e la fisso. Lei, seduta dietro la sua scrivania, ha il cipiglio burrascoso e tiene le braccia incrociate sul tavolo. Sembrerà strano, ma è il suo modo di apparire nervosa: incrociando le braccia nasconde le mani e so che sta torturando la sua camicetta. La conosco troppo bene. O forse dovrei dire conoscevo?
"Non so cosa dire." Ammetto. "Non mi aspettavo tutto questo."
Lei stringe ancora di più il nodo delle braccia, forse ha iniziato a pizzicarsi anche la pelle.
"Cosa non ti aspettavi? Che vengo da una famiglia così? Non vuol dire niente."
"No. Non è questo."
"E allora cosa? Lo so cosa stai pensando. Stai pensando che non potrai mai più vedere la tua cara amica Serafina come una persona normale a causa di quelle persone. Non dire che non è così, perché non è vero."
"Sinceramente mi pesa più un'altra cosa."
"E cosa, sentiamo."
Sono talmente irritato che la mia voce trema. "Io ti ho sempre detto tutto. Tu hai insistito per tirar fuori tutto quello che avevo dentro."
"Beh? Non dovevo?"
"No. Non avresti dovuto."
Le rispondo troppo seccatamente. Lo capisco da come i suoi occhi si spalancano e la sua bocca si tira in una linea retta e bianca. Si metterà a urlare? Molto probabilmente. Glielo lascerò fare? Assolutamente no.
"Cosa? Che cazzo vuol d..."
"Vuol dire che tu predichi bene ma razzoli male, cara la mia Seraph Celli."
Il silenzio che segue la mia stizzita risposta mi soddisfa e allo stesso tempo mi spaventa. Per zittire Serafina ci vuole qualcosa che la offenda seriamente. Temo di averlo appena fatto.
"Senti" dico, sperando non sia troppo tardi, "non intendevo essere così duro..."
"Ti pregherei" risponde lei, gelida, "di non chiamarmi mai più con quel nome."
Molti pensano che Serafina sia spaventosa quando urla, si incazza e sbraita ad alta voce, ma solo perché non sono mai stati spettatori della sua vera rabbia, quella fredda e terribile, che riserva solo alle persone con cui ha un legame più stretto. Se prima ero irritato, ora sono preoccupato.
"Va bene, scusa. Però rimane il fatto che..."
"Tu avevi bisogno di parlare di te stesso con qualcuno. Avevi bisogno di aprirti. Avevi bisogno di me. Ma io non sono come te. Io non ho bisogno di nessuno."
Faccio per aprire la bocca, ma lei mi interrompe dicendo: "Torna al lavoro, per piacere."
"No."
La negazione esce dalle mie labbra prima che possa davvero pensarci. È un po' come una reazione istintiva quando si calpesta una conchiglia aguzza in mare.
"No?"
La sua voce suona incredula davanti al mio rifiuto. Ho giusto qualche istante prima che diventi furiosa, così proseguo: "Non ho intenzione di andarmene. Si vede che questa situazione ti fa soffrire e io non starò qui a far finta di niente."
"E se io non avessi voglia di raccontare?"
"Penso che tu me lo debba."
"Perché?"
"Perché siamo amici. Nel caso ti fosse sfuggito. E di solito in un'amicizia funziona così: io aiuto te, tu aiuti me. E soprattutto entrambi si conoscono. Bene."
Lo vedo dai suoi occhi che sto combattendo contro un mulino a vento, ma sono stato bravo e ho evitato la frase che più la fa arrabbiare: Fatti aiutare. La vedo ritirarsi nel suo silenzio carico di rabbia. So che ora rinnoverà il suo invito a tornarmene al lavoro e, anche se non avrebbe tutti i torti, ho bisogno di parlare con lei e non me ne frega nulla di dover fare gli straordinari.
"Sef..."
"Te ne vai?"
"Nihil humani a me alienum puto."
Già il fatto di essere riuscito a zittirla è una piccola vittoria personale, ma la mia situazione migliora quando chiude per un lungo attimo gli occhi ed emette un sospiro. Forse ho appena calmato la belva che è in lei.
"Me l'hai insegnato tu." Insisto.
"Me lo ricordo."
Anche io me lo ricordo bene: 12 marzo 2009, circa un mese dopo il mio arrivo alla redazione. Dopo anni di solitudine avevo disimparato com'è essere amico di qualcuno e per questo mi tenevo sempre sulle mie, impedendo, più o meno inconsciamente, a chiunque di intrattenere con me un qualsiasi tipo di relazione. Quando arrivavo al lavoro mi chiudevo nel mio ufficio e gli altri mi vedevano solo a pranzo, per quanto fossi in realtà una poco gradevole compagnia, dal momento che non parlavo se non per rispondere a domande che proprio non potevo evitare. Ero sicuro che almeno uno tra i miei colleghi, cioè Serafina, sapesse cosa fossi: avevo appena iniziato la transizione e sulla carta mi chiamavo ancora Jessica. Perciò era quella a cui più di tutti tentavo di non rivolgere la parola. Sembra una cosa stupida e con il senno di poi lo è eccome, ma all'epoca ero fermamente convinto che meno si parlava del mio problema, meglio sarebbe stato. Serafina poi mi faceva paura: era troppo vivace, troppo sanguigna. Ero più che certo che mi avrebbe asfaltato, che mi avrebbe preso di mira come uno di quei capi che praticano mobbing agonistico. Ero un idiota? Eccome. Ma non è facile vivere quando hai piantato nella testa un chiodo in lega di terrore per qualsiasi cosa riguardi la vita. Penso che sia un meccanismo di difesa: quando qualcosa fa male, si tende a evitarla, memori di quella prima volta. Non sono sicuro, dovrei chiedere a Eirene, ma penso che sia proprio così.
Per questo motivo fino a quella piovosa giornata di marzo, avevo parlato con Serafina approssimativamente cinque volte e tutte sufficientemente rapide da non lasciare dubbi sulla mia paura nei suoi confronti. Così lei decise di intervenire, come avrebbe poi fatto anche negli anni a venire: mi fece trovare un pacchetto di caramelle al caffè, di quelle che usavo mangiare terminato il pranzo perché non potevo assumere bevande eccitanti durante la prima fase della cura, assieme a un grazioso bigliettino che profumava di magnolia come lei, su cui aveva scritto: Nihil humani a me alienum puto. E basta. Solo questo. Non nascondo che dall'inizio avevo temuto fosse una sorta di minaccia mafiosa, tipo cavallo nel letto, perciò mi ero seduto col cuore impazzito, leggendo e rileggendo quel biglietto, cercando di trovare una soluzione. Mi ero anche ridotto a cercare in internet, nonostante fossi già stato in grado di tradurlo, e alla fine ero giunto alla corretta conclusione che non era nessun tentativo di ritorsione ma un piccolo, educato e gentilissimo pensiero per farmi sentire meglio.
Fu con il cuore sull'orlo di un infarto che mi avvicinai alla porta del suo ufficio, alla fine della mia giornata di lavoro. Il resto è storia.
"Per tutti questi anni tu hai badato a me. Forse è ora che anche io faccia qualcosa per te, non pensi?" Insisto. "Prendi questa frase come l'invito che mi facesti trovare sulla mia scrivania, sei anni fa. Scusa se non ho comprato delle caramelle."
"Ho pur sempre quello schifo alla violetta."
Sorrido. Questo tentativo di ironizzare è sintomo di miglioramento. Forse sono sulla strada giusta.
"Allora?"
"Allora... temo di doverlo fare." Si arrende, anche se visibilmente a malincuore. Mi rivolge un'occhiataccia e ringhia: "Ma alla prima risata te ne vai dritto a fanculo."
"Non penso che ci sia qualcosa di più ridicolo del mio scarso tentativo di nascondere il seno stritolandolo con una sciarpa."
"Credimi, non hai idea di cosa sia in grado di fare la famiglia Celli."
"Beh, sono tutto orecchi."
"Che? No, non se ne parla. Fila a lavorare, te la racconto poi. Non ora."
"Va bene, va bene."
"Più precisamente dopo che avrò sistemato quei tre pazzi che speravo di non vedere per almeno altri dieci anni."
"Ma mi sembra che siano venuti qui per un motivo felice. Tua madre ha detto che è nonna."
Serafina mi lancia un'occhiata strana, disperatamente sarcastica. Non so perché, ma temo di non aver capito le implicazioni dell'affermazione della signora Celli e visto che so che il mio capo è di parola e non mi dirà nulla fino a quando non penserà sia il momento, decido di dileguarmi. Mi alzo, facendole un cenno di saluto, ma prima che io possa varcare la soglia del suo ufficio, vengo richiamato. Mi volto a guardarla e lei abbozza un sorriso.
"È così che fanno gli amici."
Le sorrido di rimando. "Esatto. Proprio così."
"Lo hai davvero imparato."
Trasuda soddisfazione e la cosa non può altro che farmi ridere. No, questa è Serafina. È sempre lei, che sia il suo vero nome o meno. Sempre lei, nel bene e nel male.
Esco dal suo ufficio più rinfrancato di come io vi sia entrato e lo rimango per un po', ovverosia fino al momento in cui vedo Silas uscire dallo studio di Henry, guardarmi per un brevissimo istante e andarsene via quasi di corsa.
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