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44. Un letto, due cuori, qualche confessione

Non disprezzo l'alcol, anche se normalmente bevo poco. Ho sempre paura di perdere un po' troppo la lucidità. È una vera e propria fobia che ho da sempre, nell'ampio spettro dei miei disagi mentali. E poi non fa bene, non ci giriamo attorno. La mia endocrinologa mi ha sempre detto di andarci piano.

Però quando tutta la mia compagnia beve, di solito non mi tiro indietro. E questa volta ci danno dentro parecchio.

A fine serata, passata la mezzanotte, abbiamo tutti gli occhi lucidi e scoppiamo a ridere per la minima cosa. Dopo i bellissimi fuochi d'artificio che sono durati più di mezz'ora, il video stupido mandato a Eirene - abbiamo sperato fino all'ultimo di trovarla online ma non è stato possibile sentirla - e un giro di birre notevole, ho un gran sonno e non sono certo l'unico. Anthea ha passato tutta la sera a ridere, interrogare Amos relativamente ai suoi italici natali e farsi coccolare da Laurence e Chris. Mi sembra di ottimo umore, anche se sbadiglia con la guancia posata contro il mio braccio. 

È quasi l'una quando decidiamo di salutarci. Sul tetto è rimasto solo un altro gruppo di persone che hanno deciso di farsi preparare una spaghettata notturna, ma noi siamo troppo sconvolti per pensare anche solo di mangiare altro. I signori De Luca e Bates non hanno badato a spese nel nutrirci. 

"Se sento ancora odore di cibo, vomito." Afferma poco elegantemente Ruben, mentre Sam annuisce. 

Chris sta già abbracciando Anthea, dicendole: "Spero di rivederti presto, sei così cara."

Lei arrossisce di nuovo e io cerco di non ridere. L'ha fatto per tutta la sera. Non è un problema: è l'effetto che Christine ha su tutti.

Prima di andare via, ormai a braccetto, Anthea richiama l'attenzione di tutti i presenti per dire un'ultima cosa: "Siete davvero delle persone fantastiche."

Si elevano ringraziamenti di tutti i tipi e Amos le ricorda che può considerarsi la benvenuta a ogni nostra riunione. Sono così contento di questa serata: la mia vita ha preso una piega decisamente felice da quando Anthea ci è entrata. La cosa che apprezzo di più è il fatto che i miei amici non stanno mentendo: hanno trovato davvero piacevole la compagnia della mia... ragazza? Posso definirla così? Non lo so ancora, ma in cuor mio la definisco come tale. A loro piace e Anthea è stata adorabile. È in questo modo che dovrebbe andare una relazione, vero? Non sono un esperto, ma facendo un confronto con quella di Ruben con Tanya, mi pare di sì. Tanya non partecipa mai ai nostri incontri perché lei e Amos non si tollerano. Peccato, perché in realtà va d'accordo con Eirene. E chi non potrebbe farlo, in realtà?

"Andiamo a casa." Affermo, stringendomi contro Anthea, che mi avvolge un braccio attorno ai fianchi. Ruben si mette subito al nostro fianco e sorride, con gli occhi piantati in cielo. Si aggiusta gli occhiali storti e mentre usciamo da Fornino, dice: "Mi sento libero."

"Libero?" Domando io. 

"Sì. Libero."

"Da cosa?"

"Dalla nuvola che ho sempre in testa."

"Ha un nome, la nuvola?"

"Forse."

Ruben torna improvvisamente a guardarmi. Si infila le mani nelle tasche dei pantaloni ed emette un sospiro. "Ci vediamo dopo. Vado a fare un giro."

"Un giro? Dove?" Domanda Anthea, improvvisamente preoccupata. Ruben sorride e risponde: "Tranquilla. Vado a qualche McDrive a comprarmi il gelato."

"Ma non volevi vomitare, cinque minuti fa?"

"Ho improvvisamente digerito. Ci vediamo dopo."

Non aspetta neanche una risposta: gira sui tacchi e se ne va. Anthea e io ci guardiamo, ma ci stringiamo nelle spalle. A volte, quando ha bevuto parecchio, Ruben entra in una specie di calma malinconica che lo fa apparire molto più serio di quanto in realtà sia. Non so cosa pensi in momenti del genere, non ne vuole mai parlare. Forse pensa a Tanya, forse pensa alla sua famiglia. Non ne ho idea, ma ogni volta spero che stia bene. Faccio così anche questa sera, mentre lo guardo allontanarsi. Dopo più di tre minuti, Anthea picchietta con le sue piccole dita sul mio fianco. 

"Andiamo?"

E andiamo davvero. Tornare a casa non è facilissimo, dal momento che è tardi, ma ci riusciamo. Sono le due e un quarto di notte quando riesco ad aprire la porta di casa e le permetto di entrare. 

"Che sonno." Dice, tra uno sbadiglio e l'altro. Sorrido, mentre dentro di me sospiro al pensiero del divano e del dolore alla cervicale che ne conseguirà. Chiudo a chiave, dopodiché mi infilo in bagno per cambiarmi. Tolgo il binder, mi infilo maglietta e pantaloni corti ed esco, con tutta l'intenzione di metterci il meno tempo possibile nel prepararmi il letto. Anthea mi aspetta sulla porta di camera mia, in pigiama e treccia sfatta. È a braccia incrociate, ma appena mi vede le scioglie e me le tende. Non me lo faccio chiedere due volte: faccio un passo verso di lei per salutarla come si deve.

"Buonanotte." Le sussurro, dopo averle dato un bacio, pronto a sciogliermi da lei. Solo che Anthea non sembra avere intenzione di lasciarmi andare: le sue braccia rimangono stabili attorno a me e scopro che se vuole può anche essere abbastanza forte. La guardo un po' confuso e lei sorride. 

"Non ti ricordi?"

"Cosa?"

"Almeno per oggi."

La fisso senza capire, poi ho come un'illuminazione. Immediatamente il sonno scivola via dalla mia mente e mi ritrovo lucido, agitato e non poco a disagio. 

"No, Thea."

"Perché no?"

"Perché... non sta bene."

So per certo di aver appena detto una frase che non sta né in cielo né in terra e inorridisco di fronte alla delusione che si dipinge sul viso di Anthea. Perché le sto dicendo che non possiamo dormire assieme? Non ho una motivazione vera e propria: semplicemente mi sembra un po' troppo presto. C'è una parte della mia mente, quella che non si nasconde dietro un falsissimo perbenismo, che ridacchia e mi dice un'altra cosa. Che lo sto facendo perché in realtà ho paura, sarebbe come accettare qualcuno nella mia safe zone personale che in questo caso si identifica nel sonno. Forse è questa la verità. Anche se così mi sento un bugiardo.

Anthea mi guarda, ma quando distoglie lo sguardo so che si è arresa. 

"Va bene. Scusa."

Improvvisamente vengo colto da una paura molto più grande e destabilizzante rispetto a quella di poco fa: la sto deludendo. Le ho appena detto di no su qualcosa a cui lei probabilmente tiene molto. Più ci penso, più mi sento stupido: sto facendo la figura del bacchettone bugiardo. Io, che mi sono presentato a Penn Station con la paura che Anthea venisse solo a dirmi di non volermi per davvero. Sto praticamente facendo la stessa cosa con lei. 

"No... okay. Okay, facciamolo."

Alza subito gli occhi su di me, stupita. Subito dopo si apre in uno dei suoi luminosissimi, contagiosi sorrisi. Fa un passo indietro, mi afferra una mano e mi trascina con sé nella mia camera. Faccio appena in tempo a chiudere la porta, con un sorriso segreto. 

***

Il mio non è un letto matrimoniale, ma io sono magro e lei è uno scricciolo, perciò ci stiamo comodi. Sono quasi le quattro, ma siamo ancora svegli. Dalle persiane entra la luce soffusa dei lampioni e la camera è in limbo di quiete. Io fisso il soffitto come se stessi trascendendo, annientato dalla mia stessa pace. Anthea è sdraiata sul fianco: mi accarezza lentamente i capelli, con la testa posata sul cuscino. Ho i suoi occhi addosso, ma non mi danno fastidio. Sto ripensando alla serata.

"Ti sei divertita?"

"Molto. Avevo ragione: i tuoi amici sono forti."

"Un po' particolari."

"Ma sono gentili."

Sorrido, quando mi ricordo un piccolo particolare.

"E Christine?"

Parliamo a voce bassissima, ma riesco a cogliere un sorrisetto nella sua voce.

"Devo ammettere che mi ha confuso."

"Sessualmente?"

"Un po'."

"Succede a tutti. Tutti noi abbiamo avuto una cotta per lei. È troppo bella."

"Io non ho avuto una cotta per lei. Giuro."

Si mette seduta sulle ginocchia, mentre il letto cigola. La guardo alzando un sopracciglio.

"Ho voglia di parlare con te." Mi dice. 

"Non... lo stiamo facendo?"

"Voglio conoscerti meglio, Jess. So solo che vieni dal Michigan, che hai una sorella e una nonna. Conosco la tua vita di New York. Ma vorrei anche sapere com'era la vita a Marquette."

Parla con urgenza, ma quando finisce io rimango in silenzio. Sono rigido e respiro a malapena, come se fingermi addormentato fosse la soluzione. Sapevo che prima o poi questa richiesta sarebbe giunta. Come darle torto: uno non cambia sesso facilmente. È legittimo che Anthea voglia sapere di più della persona con cui sta. Solo che io non so se sono pronto a parlarne. Anche se la vera domanda è: lo sarò mai?

"Cosa vuoi sapere?"

"Quello che vuoi. Non lo faccio per curiosità. Lo faccio perché mi interessa sapere più cose del ragazzo di cui mi sono innamorata."

Questa volta il mio silenzio ha una base diversa. Non sono spaventato o recalcitrante: sono stupito. 

"Cosa?"

Lei sorride, nella penombra della stanza noto che si aggiusta una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Probabilmente, se posassi una mano sulla sua guancia, la troverei bollente.

"Beh, qualcuno doveva dirlo."

Perché Anthea è capace di dire e fare cose che io sono solo in grado di pensare? Lei mi ha fatto il primo regalo. Lei mi ha dato il primo bacio. Lei mi ha detto che si è innamorata di me. Di solito non funziona al contrario? Non è l'uomo che tocca le pietre miliari di un inizio di relazione? Forse io non funziono a dovere, perché non faccio altro che rimuginare su tutto, ma alla fine non combino granché. Sì, anche io ho pensato di essermi innamorato di lei, non so nemmeno quante volte, nell'ultimo mese. Eppure Anthea, come al solito, mi batte in velocità. La vera domanda è: se aspettasse me, riceverebbe mai una dichiarazione? Non ne sono così sicuro.

Rispondo al suo sorriso, col cuore a mille.

"Davvero?"

"Davvero cosa?"

"Sei innamorata di me?"

Si stringe nelle spalle. "Un po'."

"Un po' quanto?"

"L'amore non si può quantificare."

"Anche io lo penso."

"Cosa? Che l'amore non si possa quantificare?"

"No. Sì. Cioè, anche io penso di essermi innamorato di te."

Respiro, cercando l'ossigeno necessario a far terminare i miei tremolii. Ma è impossibile: sono troppo agitato.  

"Stiamo andando bene? È così che funzionano le relazioni?"

"Penso di sì."

Mi metto a sedere di fronte a lei, incrociando le gambe, rimanendo un po' invischiato nel lenzuolo. Ora ci guardiamo negli occhi e non mi serve nessuna luce per vederci chiaro.

"Quindi questa sta diventando una relazione seria." Dico.

"È iniziata seria." Conviene lei. 

"E in una relazione seria si pensa che ci sarà un futuro, giusto?"

"Giusto."

"E per pensare al futuro, bisogna dare un'occhiata al passato."

Anthea annuisce lentamente, senza distogliere gli occhi dai miei. La mia voce trema per l'irrequietezza e faccio fatica a continuare a parlare in modo normale. 

"Sono nato a Marquette il 7 aprile 1987 da genitori cino-americani con il nome di Jessica Liang." Inizio, parlando lentamente. "I miei genitori, Francis e Lily, pensavano di avere due bellissime bambine: Leah, di due anni più grande, e Jessica, detta Jess."

Anthea non commenta, né con la voce né con lo sguardo. Rimane in completo silenzio e aspetta che io vada avanti. Proprio come aveva atteso che finissi di parlare, sotto la pensilina nella pioggia, settimane fa.

Deglutisco e continuo: "Jessica però è sempre stata Jess. Sì, all'inizio non me ne rendevo conto. In fondo le differenze tra bambini e bambini non sono così grandi, soprattutto se i tuoi genitori ti permettono di giocare con chi vuoi. Avevo solo amici maschi, volevo i capelli corti e non permettevo a nessuno di chiamarmi Jessica. Non è stata una brutta infanzia, non posso di certo dire il contrario. Non andavo d'accordo con mia sorella. I miei erano bravi genitori, anche se mio padre era un po' rigido. Mia madre era semplicemente... la persona che amavo di più al mondo."

La guardo e aggiungo: "Lo so che tu puoi capire."

"Sì." Risponde lei e non c'è bisogno di dire altro. Sappiamo entrambi che stiamo parlando della stessa cosa. "E poi? Cos'è successo?"

"È successo che ho cominciato a crescere. Ed è iniziato l'incubo."



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