38. Welcome Home Darling
Faccio ancora fatica a rendermi conto che è tutto vero. Sto seduto impettito sul sedile della metro, stringendo il vaso di orchidee che ho regalato ad Anthea come se fosse un trofeo. Lei è al mio fianco, con il trolley incastrato tra le gambe. Ha la pelle bianchissima, ma le ginocchia lo sono ancora di più. Le osservo soprappensiero, ubriaco del mio personale sollievo, dicendomi che probabilmente sono ricoperte di cicatrici, come quelle di tutti gli ex bambini intraprendenti. Sì, avrebbe senso. Anthea mi ha dato prova di essere intraprendente e coraggiosa.
"Ho pensato a quello che possiamo fare stasera." Le dico. Lei accenna un sorriso, continuando a tenere gli occhi chiusi. Mi sembra stanca, anche se il viaggio non è stato lunghissimo.
"Cosa?"
"Se sei d'accordo, potrei cucinare qualcosa a casa. Non so se hai voglia di uscire."
"Non tantissima." Risponde. Apre gli occhi, volta la testa verso di me e il suo sorriso prende una sfumatura malinconica. "Ho avuto una settimana molto pesante."
"Per l'esame?"
"Per assurdo è stata la cosa che mi ha stressato meno."
"La tesi allora?"
Anthea si stacca dal sedile e scuote la testa. "La famiglia."
"Oh." Nonostante abbia una vaga idea degli attriti tra loro, non mi aspettavo questa risposta. "Posso chiedere come mai?"
"Ho dovuto mentire a mio padre."
Sto in silenzio un secondo, soppesando le sue parole. Non lo voglio ammettere a me stesso, ma so perfettamente il motivo per cui ha dovuto mentire. O almeno, posso immaginarlo.
"Non voleva che venissi da me?"
"Ho detto che Jen e Pam hanno cambiato idea e che rimangono a New York. Non mi avrebbe lasciato venire." Mi guarda, solleva un angolo della bocca nell'ombra di un ghigno sardonico. "Non mi lascerebbe mai andare a casa di un ragazzo."
Non ho presente tutti i dettagli che caratterizzano il rapporto tra suo padre, i suoi fratelli e lei. Non ne abbiamo mai discusso, un po' perché io non ho avuto il coraggio di chiederglielo, un po' perché Anthea non mi ha mai dato l'idea di volerne parlare. Proprio perché conosco la sensazione, evito. Evito anche ora.
"Un po' come tutti i padri." Tergiverso. Lei non risponde. Si limita a guardare davanti a sé e dopo qualche istante riprende il suo sorriso tranquillo e dice: "Hai già un programma per questi giorni, signor Liang?"
"Che domande, signorina Carroll. Non posso di certo lasciare che ti annoi, no?"
"Non penso che io potrei annoiarmi nemmeno volendo."
Non dice altro: mi posa la testa sulla spalla, intreccia il braccio al mio e chiude gli occhi. Le lancio uno sguardo preoccupato, ma non oso dirle niente. La disturbo solo quando siamo ormai arrivati.
"Facciamo così: io porto la valigia e tu la tua orchidea, ci stai?" Le propongo. Anthea sorride e si arrende. Il suo trolley è minuscolo, ma odio non fare niente per aiutarla. E poi è divertente vedere come i fiori rimbalzino davanti al suo naso, mentre camminiamo. Entriamo quasi subito nella via giusta.
"Clinton Street." Legge, prima di osservare la strada sui cui lati si innalzano diverse case a schiera, con il tipico rivestimento in arenaria rossa e le scale antincendio esterne. Dal momento che siamo nel pieno dell'estate, gli alberi che abbellisco la via donano un tocco di vitalità color smeraldo alla monotonia dei mattoni e del grigio dei negozi. In inverno non è così carina: è sempre stata una strada piuttosto trafficata, soprattutto perché è stretta. Senza il sollievo arboreo, sembra solo molto triste, nonostante i colori abbastanza vivaci degli esercizi commerciali e delle loro serrande.
"Quella." Dico. Faccio un cenno verso una delle ultime case a sinistra. Anthea la osserva per un lungo istante e io ne approfitto per aggiungere: "Non è neanche lontanamente simile a quella di Park Avenue. Mi dispiace."
"Sei matto?" Ribatte lei, con l'accenno di una risata nella voce. "Non è una cosa importante."
Vorrei tanto dirle che invece lo è, almeno nella mia visione delle cose. Ma sto zitto, perché so che sembrerei un poco maniacale e vittima di qualche complesso di inferiorità. Apro il portone, sapendo bene che Ruben è ancora al lavoro - zero vacanze per i biologi - e le indico le scale. Non c'è mai stato un ascensore e noi abitiamo al quarto piano, perciò dico ad Anthea di prendere un bel respiro prima di iniziare la salita. Come tutta risposta, lei caccia fuori un'espressione a muso duro e parte senza ulteriori cenni. I nostri passi rimbombano a ogni scalino e, come avevo previsto, arriva abbastanza spompata sul nostro pianerottolo.
"Te l'avevo detto." Le dico sorridendo, mentre cerco le chiavi e lei sbuffa. Apro la porta con tutta calma, per tentare nel frattempo di calmare il mio cuore. Sono una persona ordinata. Un amante della pulizia, dell'ordine e della disciplina casalinga. Tollero poco anche le briciole sparse sul tavolo della cucina, ma non mi definisco maniaco per il semplice fatto che non ho ancora ucciso Ruben. So di aver sistemato la casa, di averla tirata a lucido a dovere e il fatto che il mio coinquilino sia andato via prima di me mi lascia sperare che sia ancora tutto come l'ho lasciato. Però è più forte di me: mi sento come uno dei protagonisti di quei programmi televisivi in cui una giuria di esperti visita case e stila classifiche. Ho tantissima paura di essere messo in ultima posizione per qualche sciocco errore.
So che Anthea non è né un giudice né una maniaca dell'ordine come me, ma la paranoia non mi abbandona mai.
"Ok, ci siamo." Dico più a me stesso che a lei. Apro la porta e, nonostante il mio profondo istinto a entrare per primo e controllare un'ultima volta che sia tutto come desiderato, le faccio un cenno. Anthea mi ringrazia con un sorriso.
Si guarda attorno curiosa e quando sono certo che partirà di corsa a studiare l'ambiente, si gira verso di me e mi domanda: "Posso dare un'occhiata?"
Non so perché, ma il fatto che chieda il permesso mi libera dall'oppressione di aspettarmi un giudizio. Le sorrido sollevato e annuisco, mentre la supero per sistemare la sua valigia nella mia camera.
"Fai come se fossi a casa tua."
"Ma tu sei certo che non darà fastidio a Ruben?"
"Cosa?"
"Che io sia qui e che, non so... invada il suo spazio vitale."
Mi fermo sulla mia porta, sul lato destro del lungo corridoio che taglia a metà tutto il piccolo appartamento. La guardo e rido: "Figurati! Davvero, appoggia l'orchidea da qualche parte e rilassati. Il salotto è di là."
Le indico il lato sinistro del corridoio dove, appena oltre la porta, si apre il nostro piccolo salotto, in simmetria con la cucina. Anche la mia camera e quella di Ruben si guardano, mentre il bagno è la stanza esattamente opposta all'ingresso. Sì, è una casa minuscola, ma sufficiente per due persone. Sistemo la valigia di Anthea a fianco del mio armadio e torno da lei. Quando sto per mettere piede in salotto, sento un'esclamazione di sorpresa soffocata, ma prima che possa farmi domande - o vedere la causa scatenante - odo anche uno squittio.
"Sapevo che la prima cosa che avresti scoperto sarebbe stata Honey." Le dico, con un sorriso. Non mi stupisco affatto di vederla seduta sul parquet a gambe incrociate, l'orchidea abbandonata al suo fianco e la nostra cavia in grembo. L'accarezza con mano esperta e Honey è in visibilio, squittisce, fa dei saltelli e tenta di arrampicarsi sulla sua maglietta. Anthea si mette a ridere, alzando lo sguardo su di me.
"Non mi avevi detto che hai un animale!"
"Ufficialmente è di Ruben. In pratica è mio, perché non lo cura."
"Honey." Ripete lei, alzando il porcellino per metterselo in braccio. "Azzeccatissimo. Sei bellissima, Honey."
La guarda con un sorriso accennato, non intenzionale. Lei non ha idea di quanto sia bella quando è impegnata con qualcosa che le piace e sorride senza accorgersene. Non so se esista una cosa più sincera di questa e non penso ci sia qualcosa di più bello di un segno di gioia spontaneo. È così amorevole mentre si prende cura di un'altra forma di vita. Come fa? Come fa a innamorarsi istantaneamente degli animali che incontra? La fisso per quasi un minuto, prima di decidermi a sedermi per terra al suo fianco. Lei mi sorride e posa Honey sul parquet, solo per gettarmi le braccia al collo.
"Sono così contenta di essere qui." Mi sussurra, stringendosi a me per quanto sia possibile, dal momento che siamo entrambi a gambe incrociate. Con fatica sciolgo le mie e la sollevo quel tanto basta per spostarla nello spazio che hanno lasciato. Lei si mette rapidamente in ginocchio e questa volta riesce ad abbracciarmi come si deve. Affondo il naso nell'incavo del suo collo e la stringo. Me ne frego che sentirà la forma perfetta del mio binder e, sotto, quello che rimane del mio seno.
"Anche io. Anche io, tantissimo."
Ci sorridiamo ma, prima di qualsiasi bacio, Honey squittisce. Ci voltiamo nella sua direzione. È sulla soglia d'entrata del salotto... ai piedi di Ruben.
"Buonasera." Saluta lui, imbustato in una maglietta orrenda che ha comprato al concerto di Nicki Minaj su cui campeggia una scritta in technicolor: LOOK AT HER BUTT. In fondo non mi stupisco che Tanya si stanchi di lui ogni due per tre e che forse non voglia dirgli che è incinta. Avrebbe due bambini da curare.
"Ciao, Bub." Dico io. Non l'ho sentito entrare. Certe volte, le meno opportune, ha il passo felpato di un leopardo delle nevi.
Mi aspetto che Anthea si stacchi da me di scatto, magari in imbarazzo. Invece lei sorride, posa la sua guancia contro la mia e dice: "Ciao."
Ruben ha una strana espressione soddisfatta in viso. Fa saettare i suoi occhietti prima su di me, poi su di lei, infine alza le braccia e dice: "Beh, ragazzi, penso proprio che mi toglierò di torno."
Non aggiunge altro. Si defila, inseguito da Honey. Anthea sorride mentre la guarda scattare come una centometrista e mormora: "Vuole attenzioni dal suo legittimo padrone."
Deve essere a suo agio: se non lo fosse, si sarebbe già rinchiusa nel suo mutismo. Forte di ciò, le prendo il viso e la bacio. Ogni volta mi stupisco di essere in grado di prendere un'iniziativa come questa, ma forse sto migliorando. Sicuramente, perché lei ridacchia e posa le sue mani sulle mie.
"A ben pensarci..."
Eccolo. Di nuovo. Ruben ricompare sull'ingresso del salotto, con un paffuto indice alzato.
"Perché non uscite? Non vi sentite soffocare in casa? Andate a fare un giro."
Quasi non credo a quello che sento, ma quando sto per arrabbiarmi e chiedergli se per caso è impazzito e perché mai vuole sbatterci fuori, lui fa un cenno. Un cenno che conoscono solo i suoi amici più intimi: tira su l'angolo sinistro della bocca. Per i profani potrebbe essere una specie di ghigno o le conseguenze di un ictus, ma io so cosa vuol dire. Ha in mente qualcosa. Mi acquieto subito, cauto ma sospettoso. Solitamente il cenno è indice di qualcosa di buono, ma posso davvero fidarmi di questa mina vagante?
Anthea mi guarda, stupita quanto me. Io mantengo la calma e mi apro in un sorriso sereno.
"Volevo proporglielo proprio ora. Che ne dici? Hai voglia di mangiare un gelato?"
"Oh... va bene." Risponde lei, un po' confusa. Torna a guardare Ruben, ma so che il segnale è scomparso. Era solo per me, non per lei. Mi alzo e l'aiuto a fare lo stesso. Anthea insegue Honey per rimetterle nella gabbietta e appena non mi guarda, sollevo un sopracciglio a chiedere spiegazioni. Ruben sorride e mi fa un occhiolino, dopodiché mi indica la porta.
Tutto chiaro: ce ne dobbiamo andare. Speriamo solo non combini casini.
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