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34. Castello di carte

All'alba del 29 giugno, quattro giorni prima del grande evento, mi appresto finalmente a fare il grande passo. Sì, so di essere in ritardo, ma ormai sono conscio di avere qualche problema e ho smesso di farmene una colpa. Arrivo al lavoro e solo quando sono sicuro di trovarmi nel mio eremo solitario - stando bene attento a evitare il capannello di chiacchiere su Kirti, che è partita - prendo il cellulare e scrivo ad Anthea.

Ciao, girl scout! Nella pausa pranzo ti posso chiamare? 

Ciao!! ♡ È successo qualcosa?

Ti farò un'offerta che non potrai rifiutare...

"Jess?"

Alzo lo sguardo, preso di sprovvista, incrociando gli occhi di Silas. Sta sulla porta, la sua sempre presente cartelletta in mano e una faccia un po' strana. Io non capisco molto questo ragazzo: da un po' di tempo, ogni volta che lo incrocio, ha la stessa espressione sofferente. Forse è stanco o forse gli sta andando male qualcosa. Chi lo sa. Non posso permettermi di chiederglielo.

"Ciao, Silas. Dimmi."

Spengo il cellulare, tanto so che con Anthea potrò parlare con più calma nella pausa pranzo. Lui alza insicuro la cartelletta e da lì sbuca un foglio.

"Miranda vorrebbe che controllassi se questo articolo può essere mandato in stampa. Ha già completato la parte di bibliografia, ma non è convinta dal formato."

Gli faccio cenno di entrare. "Lo guardiamo assieme?"

Spero che appaia entusiasta come lo era stato nei primi giorni, ma l'unica cosa che fa è fissarmi e annuire. Entra in ufficio, chiude la porta e mi si avvicina. Lo guardo meglio: sì, c'è qualcosa che non va. Che sia anche lui un cuore spezzato come Henry?

"Va tutto bene, Silas?" Gli domando, contravvenendo alla stessa promessa che mi ero fatto. "Ti vedo un po'... spento."

Lui si siede, spinge la sedia sotto la scrivania e mi passa i fogli dell'articolo. Tiene gli occhi bassi mentre parla. "Sì. Sto bene."

"Sicuro? Se c'è qualcosa che vuoi dirmi... anche relativa a..." Mi fermo e mi chiedo se faccio bene a farmi i fatti suoi, poi però decido che in fondo la decisione finale sul confessarmeli o meno spetta a lui. "... insomma, alla tua vita fuori da qui."

A questo punto Silas mi guarda in faccia e io, non so come, capisco che non è un problema che riguardi l'università, la vita amorosa o lo stage. Riguarda me.

Non penso esista una sensazione più sgradevole di ritrovarsi come oggetto di fastidio di qualcuno. All'improvviso la terra trema e ci si ritrova a mettere in dubbio tutto ciò che si è fatto e detto dal momento in cui si ha conosciuto quella persona. In un attimo ripercorro tutto il periodo di conoscenza con questo ragazzo, cercando qualche crimine, seppur involontario, perpetrato ai suoi danni. Ma non trovo niente. Niente di niente. Non sono un santo, ma nemmeno un criminale. Mi pare di averlo fatto sempre sentire a suo agio o almeno ci ho provato.

"Silas?" Insisto, più confuso di prima, con una strana sensazione di intorpidimento alle dita e attorno alle labbra. "Davvero, puoi dirmelo. C'è qualcosa che non va?"

Distoglie nuovamente lo sguardo e lo posa sull'articolo. Ci appoggia sopra anche una mano e dice: "Sono un po' perplesso, Jess."

"Come mai?" Chiedo io, anche se vorrei scuoterlo per sapere subito cosa mai stia accadendo.

"Ti ricordi che qualche giorno fa ti ho chiesto l'argomento della tua tesi?"

"Sì." Tiro un sospiro di sollievo. Forse è questo. Forse non gli è piaciuto l'articolo o non è stato convinto dalle mie supposizioni. Forse si vergogna di dirmi che secondo lui ho fatto un brutto lavoro. Non mi aspetto di certo quello che afferma.

"Beh, l'ho trovata. Sono andata a scartabellare in internet e l'ho trovata. Ma c'è un problema."

"Il sito voleva che la comprassi?" Abbozzo, ben sapendo che spesso, se si vuole leggere una ricerca completa, bisogna pagare.

"No." Ribatte lui. "Non è a tuo nome."

"In che senso? La mia era sul linguaggio onirico e sul monologo di Molly Bloom..."

"Sì. Ho trovato proprio quella. Ma c'era scritto Jessica Liang, non Jess Liang."

Tutto quello che mi esce dalla gola è un Oh. smorzato, come se Silas mi avesse appena tirato un calcio nello stomaco. È davvero interessante come la sensazione di gelido panico che lentamente mi assale non sia affatto nuova alla mia mente. È un po' come rivedere una vecchia nemica, che sogghigna e mi stritola in un abbraccio. Chi ha mai fatto un grande errore nel suo passato sa di cosa parlo: è il sentimento da cui si viene pervasi quando esso torna alla memoria per bocca di qualcuno che non sia la nostra coscienza. Quella sottile angoscia che piano piano si riesce a contenere con le settimane, i mesi e gli anni che passano, convinti di aver sepolto il problema sotto metri e metri di terra e colate di cemento, torna all'improvviso a eruttare come un geyser, polverizzando tutte le certezze che erano state costruite, nel vano tentativo di sentirsi al sicuro in un bastione fatto di carte da gioco. È come se il mondo stesse mandando un messaggio: qui non si dimentica nulla. E si ha la certezza che la redenzione, in fondo, non esiste per nessuno.

La cosa divertente in tutto ciò è che io non ho ucciso qualcuno e l'ho sepolto in giardino. Silas non mi sta dicendo che conosce il mio segreto e andrà a condividerlo con le autorità. Non ho nemmeno un figlio segreto o non ho mai rubato la carta di credito a chicchessia: no, semplicemente ha scoperto che, in un passato che si palesa sempre più vicino di quanto io non voglia, ero una femmina. Non dovrebbe essere un peccato, mi sbaglio? È quello che il mio psicologo, mio zio, i miei amici e perfino la Costituzione, che annovera tra i diritti inalienabili quello della ricerca della Felicità, mi hanno sempre ripetuto e dimostrato. È stato fatto un errore in partenza, quando un'anima di uomo fu unita a un corpo femminile. Sto solo tentando di mettere in ordine questa distrazione.

Questo pensiero mi infiamma e, forte di una sicurezza che in realtà non possiedo e che probabilmente mi costerà cara, rispondo: "Sì. Mi chiamavo Jessica, quando abitavo in Michigan."

Ora tocca al viso di Silas prendere un colorito strano. Diventa pallido e mi fissa.

"Temo di non capire." Mi dice, insicuro. "Eri una... ragazza?"

"Sì." Rispondo. "Oh meglio, solo fisicamente. Non lo sono mai stato mentalmente."

Non mi sembra né più sicuro né più rilassato di prima. Pare solo preso in contropiede e anche un po' inquietato.

"E quindi ora sei Jess? Jess e basta?"

"Sì. Solo Jess."

Mi sento abbastanza male. Ho sempre odiato questo genere di confessioni, soprattutto se la persona davanti a me si agita come sta facendo Silas. Non so cosa fare, l'unica cosa che vorrei sarebbe urlare qualcosa come: E allora? A te cosa cambia? Ma so che in realtà c'è qualcosa che cambia, eccome. La gente non abita dentro la mia testa. Dovrei proprio marchiarmi con queste parole, per ricordarmele una buona volta.

"Capisco." Risponde, ma si capisce benissimo che non è vero. Sfodera un sorriso di repertorio, si alza e in maniera gentile ma molto confusa indica la porta, gesticola verso di sé, poi verso di me e aggiunge: "Vado... cioè, penso che Miranda vuole che l'aiuti con l'altro articolo che stava guardando. Tu devi solo controllare che la struttura sia giusta, davvero, nulla di più. Ci... ci vediamo dopo, eh? Ciao."

Prima che possa dire qualcosa, Silas mi fa un cenno, mi rivolge un ultimo sorriso più scombussolato che mai e sparisce oltre la soglia del mio ufficio. Ha dimenticato la sua cartelletta blu, ma in compenso si è trascinato via la mia serenità interiore. Gran bello scambio.

Mi prendo la testa tra le mani e cerco di capacitarmi che dovrò tirare avanti tutta una giornata in questo stato. Mi dico che ci sono abituato ed è vero. Ma è davvero come costruire un castello di carte: ogni volta che sto per aggiungere un piano e sentirmi più sicuro, una folata di vento spazza via ogni cosa. Tra la tristezza, la paura e il rimorso, c'è anche un po' di rabbia.

***

Anthea risponde al secondo squillo e anche la sua voce squilla. Un raggio di sole in questa giornata di terribile maltempo.

"Spero che sia una super proposta, signor Liang, perché mi hai lasciata tutta mattina a riflettere!" Esclama, con un sorriso nella voce. Quello che mi piacerebbe avere in volto, al posto della mia faccia da funerale.

"Spero sia così." Rispondo, nel tentativo di apparire allegro come dovrei essere. Sto per proporre immediatamente quello a cui io - o meglio, Serafina - ho pensato, ma Anthea è più veloce della luce nel capire cosa non va e domanda, invece: "Stai bene? Successo qualcosa?"

"N-no..." Miagolo, sicuro che nemmeno Ruben mi troverebbe convincente. "Tutto a posto. Sono solo un po' stanco."

"Sicuro?"

"Sicuro." Dico, decidendo di portare avanti un cambiamento tattico di discorso. "Allora, vuoi sentire la mia proposta che non potrai rifiutare?"

"Certo!"

Conosco abbastanza Anthea per sapere che non si arrenderà qui, perché il suo fiuto per i miei problemi è già troppo sviluppato. Ma quantomeno mi asseconda.

"Ho un invito da proporti."

"Quando?"

Nella sua voce c'è una scintilla d'emozione e questa volta sono costretto a sorridere, anche perché il cuore ha cominciato a martellarmi nella testa.

"Per la festa del Quattro luglio."

"Vuoi che venga a New York?"

"Ci sono tantissimi eventi qui in città. Soprattutto a Central Park."

"Mi avevi già convinto a invito."

Rido, perché ogni minuto che passo a parlarle, mi innamoro un po' di più.

"Quindi è un sì?"

"Scrivo alle mie amiche per metterci d'accordo sulla casa e poi ti faccio sapere. Forse riesco a rimanere anche qualche giorno in più."

"Perfetto." Esclamo e ho il cuore sufficientemente caldo per aggiungere: "Mi manchi."

"Anche tu mi manchi."

Vorrei dire anche E ti amo, davvero. Sono sicuro che ti amo. ma so che è una sciocchezza farlo, così me ne sto zitto e la saluto. Mi aggrappo disperatamente al ricordo del suo sorriso, delle sue lentiggini e della sua gioia di vivere mentre torno nel grigiore della mia vita e dei miei problemi. Devo stringere i denti: il Quattro luglio arriverà velocemente. Forse addirittura prima del tempo. Devo semplicemente essere forte. In fondo è da una vita che lo sono, un giorno più o un giorno meno non cambieranno sicuramente le cose.





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