27. Annunci del lunedì mattina
Quando varco le soglie dell'ascensore e noto che l'ufficio di Serafina ha la porta aperta, sento accendere in me una felice speranza di redenzione. È un lunedì mattina di sole, sogni e serenità. Forse non solo per me, che ho appena ricevuto il buongiorno da Anthea.
"Hey." La saluto, sbirciando prudente senza entrare. Non so cosa aspettarmi, ma sono contento quando noto che sta sorseggiando la sua solita tisana alla menta e sembra rilassata. Sposta lo sguardo dallo schermo del PC e mi guarda. È un sincero sospiro di sollievo quello che mi sfugge quando mi sorride.
"Buongiorno. Come siamo luminosi, oggi."
Entro, ormai certo che non rischierò di essere sbranato. Serafina sposta la sua sedia all'indietro e si sistema la collana sulla camicetta bianca a maniche dolman. È molto più tranquilla rispetto a come l'ho vista in tutta la settimana scorsa. Forse la situazione con i suoi genitori si è rasserenata.
"Tu stai meglio?" Le domando, sedendomi sulla solita poltrona. "Ti vedo più... contenta."
"Penso di star vivendo quella strana pace che devono provare i condannati a morte a cui viene prorogata la data dell'esecuzione."
"Perché dici così?"
"Ho convinto i miei genitori a presentarsi qui verso agosto. Nelle due settimane in cui chiudiamo. Forse farò a meno di farne un caso nazionale."
Sorride con aria serena, anche se leggermente sarcastica. Ogni tanto mi scopro a domandarmi come una donna così bella e caratterialmente interessante possa essere ancora sola alla soglia dei quarant'anni. Ho sempre pensato che sia single per volontà propria, non per quella degli altri, ma a Serafina non piace parlare di queste cose. Solitamente quando il discorso salta fuori, sbuffa e afferma semplicemente di non essere interessata. Più che legittimo, in fondo. Però me lo chiedo comunque, perché sono pur sempre condizionato dall'idea che le persone belle non dovrebbero faticare nel trovare un partner. Sono idee radicate nella società, suppongo. Ogni tanto vengo colto anche io a crederlo, più o meno inconsciamente. Assurdo, perché io conosco bene questa bellissima donna e so che non ha bisogno di nessuno al suo fianco che non abbia quattro zampe, occhi eterocromi e una passione sfrenata per i cuscini della signora Schultz.
Sorrido anche io, felice che lei abbia più o meno sistemato la situazione.
"Meglio?"
"Molto meglio. Ora vedi di spiegarmi come mai sei luminoso."
"Sono sempre giallo, Sef. È il colore dei cinesi."
"Smettila, scemo. Parlo sul serio."
"Ti ricordi quella ragazza che mi aveva dato il suo numero di telefono alla festa di Ruben?"
"Quella con cui dovevi uscire. La mia groupie. Ovvio che me la ricordo."
Ridacchio e rispondo: "Non so se porta sfortuna dirlo, ma forse posso cominciare a considerarmi impegnato."
Serafina mi fissa per un lungo istante, spalancando leggermente i suoi già grandi occhi scuri. Poi fa un debole movimento con il collo, come un rinculo da un piccolo colpetto sulla fronte e ribatte: "Sei serio?"
"Serio."
"Mi stai dicendo che il rompicoglioni che fino a settimana scorsa aveva un muso lungo fino a terra e si era dimenticato di far sapere alla ragazza l'orario a cui sarebbe passato a prenderla, ora è diventato un brillante futuro fidanzato?"
Questa volta rido. È impossibile non farlo, anche se provo al tempo stesso un po' di vergogna per l'inclemente descrizione di me stesso.
"Non dirlo! Ci sto provando!"
"Ci stai provando, ci stai provando!" Sbotta, alzandosi di scatto dalla sedia per circumnavigare la scrivania e arrivare ad abbracciarmi con due soli passi che risuonano come cariche di mitraglia. Essere abbracciati da Serafina è al tempo stesso una delle più commoventi e spaventose emozioni sperimentabili a La lanterna di Aristotele. Puntualmente ci si ritrova avvolti dalle sue braccia e schiacciati contro il suo seno - elemento non trascurabile, credetemi - in un gesto estremamente materno. Il profumo di magnolia avviluppa i sensi assieme al suo calore ed è un attimo dimenticare tutto e ripiombare bambini, appesi al collo della propria madre, con la momentanea speranza di rimanere per sempre così, al sicuro. La parte spaventosa arriva quando ci si rende conto che non si hanno più cinque anni e che la donna che si sta abbracciando è il capo di tutta la baracca. Ma sapete una cosa? Ormai ho ridotto questa parte dell'abbraccio al silenzio. Serafina è molto più che un dirigente. E sono così contento del suo orgoglio che quasi mi commuovo.
"Lo sa?" Mi chiede, la guancia posata sui miei capelli.
"Lo sa." Confermo. "E non le importa."
"Sei stato un po' frettoloso, ma ognuno ha i propri tempi."
"Non me la sono sentita di dirle di no, quando ha tentato di baciarmi."
Mi stacca di colpo da lei, per tenermi a distanza, le mani sulle mie spalle e lo stupore dipinto in viso. La sorpresa diventa però subito riso e abbraccio.
"Non smetterai mai di sorprendermi."
"Purtroppo o per fortuna."
"Come si chiama?"
"Anthea."
"Anni?"
"Ventidue."
Serafina mi scioglie dall'abbraccio e per un secondo provo il delirante desiderio di lamentarmi e impedirglielo, ma fortunatamente è solo un momento in cui il mio Es prende il sopravvento.
"Te l'avevo detto, Jess. Fortunatamente mi hai ascoltato."
"E non smetterò mai di ringraziarti per tutto quello che mi dici."
"Però rimani un petulante rompipalle."
"Sempre. Altrimenti ti annoieresti."
"Vattene ora. Devo lavorare."
"Signorsì, signor comandante!"
E come richiesto con la sua solita strana, feroce dolcezza, marcio fuori dalla porta del suo ufficio, felice come un bambino che ha appena ricevuto la razione quotidiana di affetto materno.
***
Allo scoccare dell'ora del pranzo mi rendo conto che tutto il giornale ha notato che Serafina è risorta dall'oscurità d'animo in cui si era pericolosamente impantanata e la Cibo-Sala è di nuovo viva di chiacchiericcio e risate.
"Quando la regina è felice, lo è anche tutto il reame." Le dico, sedendomi di fianco a lei con il mio riso nel tapperware. Schiocca la lingua con fare allegro e affonda la forchetta nel suo piatto di pasta preconfezionata.
"Sia festa in tutto il regno."
Do un'occhiata alle persone già presenti e noto Henry, impegnato in una conversazione con Jeb e Carlotta, la collega di letteratura italofona. Anche lui sorride e questo è un buon segno.
"Henry ti ha detto qualcosa di sua madre ultimamente?" Chiedo a Serafina.
"No. È da almeno un mese che non mi dice niente."
"Pensi che stia meglio?"
Lei lancia un'occhiata al suo ormai ex stagista e sembra valutare la situazione con il suo particolare occhi critico. Alla fine si stringe nelle spalle.
"Non saprei dirlo. La signora ha già dimostrato di essere recidiva per quanto riguarda molte cose."
La madre di Henry, come ho già accennato, soffre di depressione. È una malattia che non pare aver avuto un inizio preciso nella sua vita - lui dice che è sempre stata così, da quanto riesce a ricordare - e che la segue come un Cane Nero. Ha sempre dimostrato una certa resistenza nel voler prendere i farmaci e ogni volta questa cosa le provoca un peggioramento graduale che nel giro di qualche mese porta a una drastica caduta, con relativo tentativo di farsi del male, chiamata disperata di Henry e corsa al pronto soccorso. Da quando lo conosco, questo infausto ciclo vizioso si è già ripetuto almeno tre volte.
"Forse è in una fase Okay." Suggerisco.
"Spero sia così."
Il modo in cui ride a una battuta di Carlotta - che ha la lingua pronta e un umorismo molto europeo - mi fa ben sperare che sia così. E sono tanto concentrato nel rifletterci sopra che nemmeno mi accorgo che nella sala non siamo ancora tutti: manca proprio la persona che più interessa a Henry.
Quando Kirti fa la sua comparsa tra le porte di vetro spalancate, nessuno, tranne Serafina, se ne accorge. Siamo tutti abituati a notarla per via dei suoi colori sgargianti, mentre oggi indossa un completo blu notte che passa stranamente inosservato.
Immediatamente il mio capo cambia espressione.
"Che c'è?" Le chiedo, seguendo il suo sguardo e vedendo la ragazza appena entrata che prende posto a fianco della sua amica Shelly.
"Ci sono delle novità in vista." Dice semplicemente.
"Quali novità?"
Serafina scuote la testa. "Te lo dirà lei."
Volto il viso e guardo confuso Kirti, cercando di cogliere il nesso con quanto detto. Tuttavia lei mi sembra normale, tranquilla: mangia il suo riso con le verdure e intanto chiacchiera con Shelly. Controllo Henry e noto che si è leggermente distratto dalla sua conversazione, dato che ogni tanto lancia un'occhiata nella sua direzione. Mi si stringe lo stomaco, attendendo l'arrivo delle novità pronosticate da Serafina.
Devo aspettare quasi venti minuti prima che qualcosa si muova. Capisco che il momento è giunto nell'attimo in cui Kirti si toglie il cerchietto colorato per rimetterlo meglio tra le corte ciocche nere. È il suo tipico gesto di quando è nervosa. Non mi stupisco quando si alza in piedi e batte le mani, per richiamare le attenzioni di tutti.
"Non ti piacerà." Sussurra Serafina.
"Ragazzi, ho un annuncio da fare." Pronuncia ad alta voce, ottenendo il silenzio di tutti i presenti, che all'improvviso si rendono conto della sua presenza in sala. Mi appoggio lentamente allo schienale della sedia, fissandola. Sono nervoso e non so neanche cosa stia per dire. Molto bene, i presagi sono proprio favorevoli.
Kirti sembra prendere un bel respiro prima di continuare: "Settimana prossima partirò per l'India e starò via dieci giorni."
Lancio uno sguardo inquisitorio a Serafina, per capire se il suo sia stato uno scherzo per farmi prendere male. I suoi occhi, tuttavia, non esprimono alcun divertimento. Sembra quasi che attenda l'inizio della catastrofe da un posto privilegiato sul ciglio di un burrone, ormai conscia della propria rassegnazione. Per questo torno a guardare Kirti e mi rendo conto che non ha terminato. Dopo l'ennesimo respiro, la verità: "I miei genitori vogliono che mi sposi. Torno in India per conoscere il mio promesso."
Nessuno aveva aperto bocca mentre la ragazza parlava, ma improvvisamente una sfumatura diversa del silenzio cala su tutti noi. I miei colleghi si scambiano occhiate sorprese, alcuni sembrano più sconvolti che altro. Quando Miranda si copre gli occhiali con le mani, Kirti capisce che c'è qualcosa che non va e mettendosi a ridere chiarisce: "Vado solo a conoscerlo, tranquilli! Non mi stanno costringendo! Non è una tragedia."
Tragedia. Sposto lo sguardo su Henry e improvvisamente mi rendo conto che per qualcuno lo è davvero. Una tragedia. Una disgrazia. Una catastrofe. Henry è sempre stato pallido, ma senza questa inquietante sfumatura giallognola che gli ha istantaneamente tinto il viso. Sembra che debba vomitare o svenire e ho molta paura che lo possa fare in questo istante.
"Sai già come si chiama il promesso?" Chiede Shelly, decidendo di stare al gioco di Kirti per sfogare un po' di inutile tensione.
"Manjul. Ha ventisei anni ed è un matematico."
"Non hai qualche foto?" Domanda Lakisha, che è l'appassionata di ragazzi del gruppo.
Kirti ride e ribatte: "A casa. Ve le porto domani."
"Ma è bello almeno?" Insiste la compare di Lakisha, Marie.
"Abbastanza..."
Più parole spendono, più Henry sembra morire dentro. Questo non va assolutamente bene. Scalpito per quasi cinque minuti di chiacchiere sul futuro sposo indiano di cui poco mi frega, incapace di stare buono e far finta di non vedere quel povero ragazzo mentre appassisce come un fiore al sole, prima che Serafina capisca che il suo pupillo non si merita questa tortura.
"Ragazzi, a dopo. Ho troppo lavoro." Dice, alzandosi sui suoi tacchi a spillo. "Henry, non dovevi parlarmi di quell'articolo dell'università di Dallas che non ti convinceva?"
Lo sguardo vacuo del ragazzo si posa su Serafina e solo dopo qualche istante recepisce la domanda.
"Sì... sì. Arrivo." Dice a bassa voce, per poi voltarsi verso Kirti e dire a tutti: "Scusate."
Esce con il mio capo, la testa china e un principio di lacrime sulle ciglia rosse. Guardo di sottecchi la ragazza per cui ha perso la testa e non mi sfugge il suo sguardo. Non sono sicuro che sia dolore, ma sicuramente non è né gioia né soddisfazione.
Decido di parlare con Henry nel pomeriggio ma, quando quasi due ore dopo lo cerco, lo trovo nel suo ufficio, intento a fissare fuori dalla finestra con un fazzoletto di carta stretto nella mano chiusa e la faccia congestionata di chi ha prodotto muco e lacrime in gran quantità.
"Henry?" Chiedo, aprendo la porta senza bussare. Lui si volta. Deve aver pianto parecchio, a giudicare dal rossore degli occhi che fanno spiccare in modo assurdo le iridi azzurre. Cerca di sorridere, ma non gli viene molto bene.
"Vuoi parlare?" Gli domando. Mi aspetto che mi dica di sì, come fa sempre, che si rimetta a piangere e accetti di sentirmi parlare e farsi consolare. Questa volta, però, ricevo una negazione. Henry scuote un poco la testa e sempre abbozzando un sorriso - tremante come cristallo durante un terremoto - sussurra: "Non preoccuparti, Jess."
"Ma..."
"Davvero. Sto bene."
Ne dubito fortemente, ma non posso insistere. Gentilmente mi sta dicendo che non vuole essere consolato e, per quanto non sia d'accordo, non posso fare altro che accettare la sua decisione. Annuisco in silenzio e gli dico semplicemente: "Sai dove sono, se vuoi."
"Grazie." Dice. Ma so che non verrà.
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