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20. Con gli occhi bendati

La sera di venerdì giunge accompagnata dal brontolio lontano di un temporale proveniente dall'oceano. Prima di uscire controllo le previsioni: l'acquazzone dovrebbe arrivare nella notte, ma io non mi fido e raccatto un ombrello. 

"Quanto stai fuori?" Mi chiede Ruben dalla cucina. È impegnato ai fornelli e la quantità di pentole presenti su ogni spazio disponibile mi lascia temere che sta preparando una cena in grande stile. 

"Entro mezzanotte sarò di sicuro a casa."

"Non potete andare a ballare?"

"Temo proprio di no."

Lui fa una smorfia, mentre alza il coperchio di vetro carico di condensa per estrarre una cucchiaiata di brodo da assaggiare. Immediatamente i suoi occhiali si appannano.

"Perché non vuoi farmi felice?"

"Sono uno stronzo, ti ricordi?"

Non mi risponde: è troppo indaffarato a migliorare il suo piatto principale. Sospiro e lascio perdere, è troppo impegnato. E poi io non ho voglia di litigare. La giornata è già stata sufficientemente stressante senza che Ruben si aggiunga alla lista delle persone nervose con cui ho interagito oggi: prima fra tutti Serafina, ma anche Silas non è stato da meno, visto che non sembrava stare molto bene. Era sfuggente, confuso. Mi è parso molto stanco, forse è uscito con gli amici la sera prima e il contraccolpo della mattina si è fatto sentire in tutta la sua potenza. Non so, spero che Anthea non faccia parte della categoria: non vorrei che la mia sorpresa andasse sprecata. 

Alle sette in punto sono sotto casa sua, a Park Avenue. È molto nuvoloso e osservo con preoccupazione i cumulonembi che si affastellano in lontananza, in direzione di Coney Island. C'è poca luce e un certo nervosismo, tanto che taxi e auto private si contendono la strada a suon di strombazzate di clacson. Sto fissando un diverbio nato tra un SUV e una monovolume nera quando mi sento sfiorare da una piccola mano calda che intreccia le dita alle mie. La stringo prima di voltarmi e incrociare gli occhi color pervinca di Anthea. Ogni mia preoccupazione e ogni mio timore, per qualche istante, scivolano via dal mio cuore, gocciolando come olio su vetro. Sorride socchiudendo gli occhi e rabbrividisce a causa di una leggera e improvvisa folata d'aria fredda. È la prima volta che la vedo con una treccia, che le ricade sul petto con qualche capello già in disordine. Sono contento che abbia optato per dei pantaloni e una camicetta verde: per quanto faccia ancora caldo, il tempo non è decisamente dei migliori.

"Come siamo eleganti." Le dico con un sorriso, notando che ha addirittura messo degli orecchini. Al lobo sinistro ne ha tre: tre minuscole stelline d'oro. Sembra ancora più giovane dei suoi ventidue anni. Per un attimo mi sento a disagio al pensiero che io sia ormai verso la trentina.

Anthea ridacchia e risponde: "Non sei da meno."

Sotto sotto sono contento che lo noti. Sono rimasto davanti allo specchio provando almeno quindici camicie diverse come una ragazzina prima del ballo della scuola. Alla fine mi sono deciso per una con colletto alla coreana.

"Sembro uscito da un film di Bruce Lee." 

"Beh, sono belli quei film. E tu non sei da meno."

Rido, perché è impossibile rimanere tristi in presenza di questa ragazza. La tiro per la mano e chiedo, mentre cominciamo ad avviarci verso la metro, che dista qualche minuto: "Pronta alla sorpresa?"

"Piani molto interessanti." Ribatte, parafrasando quello che le avevo scritto.

"Pensavo che quel messaggio ti avesse turbata." Confesso, non senza vergogna. Anthea sorride alla sua solita maniera, come se avessi detto una cosa molto buffa. 

"Non prendeva più internet, ero uscita di casa. Quando sono tornata ti ho mandato la foto."

"Ah, già."

Il suo sorriso prende una sfumatura da volpe: "Ti ho anche preso un regalo."

"Un regalo?" 

Se vuole farmi morire dentro, ci sta riuscendo alla grande. Penso di essere avvizzito come una  foglia nell'istante stesso in cui ha pronunciato quelle poche parole. Io non le ho preso niente di nuovo, temevo di essere eccessivamente insistente. Anthea annuisce e con convinzione risponde: "Ma te lo darò quando quando saremo arrivati."

"Va bene." Dico. Non ho altra scelta: devo mettere in atto il mio piano. Sospiro e stringo la sua mano, mentre scendiamo le scale della metro. Quando arriviamo alla banchina, Anthea inizia a guardarsi attorno curiosa. È qui che inizia.

"Ferma, ferma... non vorrai rovinarti la sorpresa." Le dico, slacciando rapidamente dal manico dell'ombrello l'oggetto che ci avevo con molta cura legato. Lei mi guarda interrogativa e poi spalanca gli occhi davanti alla sciarpa a righe bianche e nere che tengo tesa tra le mani. Dietro le sue iridi noto un'istintiva e passeggera paura - non ha tutti i torti, in realtà - perciò mi sbrigo a giustificare la faccenda. 

"È per la sorpresa. Non voglio che tu capisca, prima di essere arrivati."

Già, sembra comunque un progetto da maniaco, ma incrocio comunque le dita. Il suo sguardo non mi sembra affatto convinto, così mi pento subito del mio goffo tentativo di sembrare brillante e sto per disdire l'impegno, quando lei risponde: "Facciamolo."

"Davvero?"

"Mi fido di te."

Sono parole che alle mie orecchie suonano come un concerto angelico. Faccio un passo avanti e delicatamente lego la sciarpa attorno ai suoi occhi, con un piccolo nodo dietro la nuca, stando attento a non disfarle la treccia. 

"Troppo stretto?"

"No, va bene."

Afferro saldamente entrambe le sue mani. Ora arriva la parte più complessa: evitare di combinare incidenti mentre saliamo sul vagone. Fortunatamente non c'è tanta gente e quando il treno arriva, cercando di evitare lo sguardo tra lo sbigottito e il sorpreso delle persone, riesco a far salire Anthea senza incidenti. 

"Ecco. Siediti pure." Le dico, posizionandola proprio davanti a un sedile. Abbiamo davanti a noi solo sette fermate. Si accomoda con molta attenzione e poi si illumina con un sorriso allegro. 

"Quindi mi stai rapendo?"

Una signora davanti a noi alza lo sguardo dal suo libro e mi rivolge un'occhiata pericolosamente minacciosa. Deglutisco male e ribatto: "Non proprio. Vedrai."

Sempre peggio. Il suo sguardo si affila. Temo che non veda l'ora di chiamare la polizia, così aggiungo: "Ho pensato a questo appuntamento per tutta la settimana."

Un po' troppo diretto, ma sembra funzionare. So che la tizia rimarrà con le orecchie tese per tutto il nostro viaggio, ma quantomeno non sembro più un rapitore di bambine. Anthea cerca la mia mano e me la stringe, sulla mia gamba. 

"Com'è andata al lavoro in questi due giorni?"

"Bene, tutto tranquillo. Ho badato a un nuovo stagista. Un bravo ragazzo. È un po' più piccolo di te. Tu? Cosa hai fatto, oltre che fare la girl scout per tutto Central Park?"

Anthea scuote la testa e si stringe nelle spalle. "Solo questo."

"Come solo questo? E le tue amiche?"

"Ieri sera volevano portarmi a ballare, ma loro adesso si sentono con dei ragazzi, perciò io mi sarei ritrovata sola tutta la sera. Sono rimasta a casa e ho studiato un po'. Quando torno dovrò dare un esame."

"E oggi pomeriggio?"

"Ho cercato il regalo giusto per te."

Ora che non può vedermi in faccia, caccio fuori un'espressione sofferente. Odio ricevere regali, mi sento sempre in colpa quando succede. Tanto più che io non le ho portato nulla, non come l'ultima volta. Sempre più incosciente

"Sai che non avresti dovuto."

"Sai che la tua orchidea è ancora viva?" 

"Davvero?"

"Sì. Aveva abbastanza foglie per generare una talea. Forse riuscirò a fare in modo che crescano delle radichette." 

"E queste cose dove le hai imparate?"

"Da mio fratello. Ti ricordi? Ti ho detto che cura il giardino di casa."

"Vero, scusa."

Controllo a che punto siamo. Mancano due fermate per arrivare a destinazione. Inizio già a sorridere, pregustando il momento. 

"Si chiama Alec, giusto?"

"Giusto."

"Quanti anni ha?"

"Ventisei."

"Sono ancora il più vecchio sulla piazza." Rispondo. "Io ne ho ventotto."

La signora davanti a noi mi lancia l'ennesimo sguardo bieco. Anthea sembra più giovane della sua reale età, non vorrei che stia pensando che sia minorenne. Lei mi stringe con più forza la mano e chiede: "Jess?"

"Sì?"

"Quanto manca?"

"Siamo quasi arrivati."

"Sono curiosa."

La metro fa la sua penultima fermata. Il mio sorriso si amplia. "Pazienta ancora un paio di minuti."

Anthea sta zitta e buona per il tempo pronosticato, ma torna subito ad agitarsi quando capisce che il treno si è fermato. Mi alzo e lei mi segue immediatamente.  

"Posso fare una scommessa?" Mi dice, mentre scendiamo. 

"Fai pure."

"Siamo a Little Italy?"

Sogghigno ed emetto un sottile sibilo. "Non... esattamente."

"No?" Chiede lei confusa. "Oh... era la mia sola idea."

 Arriviamo alle scale e l'aiuto a fare molto lentamente i gradini che conducono alla luce. Si sente subito uno spiffero freddo provenire dall'entrata. Mi fermo sul penultimo scalino, le faccio fare un passo in più e la fermo. 

"Ora cammineremo per qualche metro. Giusto il tempo di girare nella via giusta."

"Va bene." Risponde lei, senza riuscire a sopprimere un sorriso curioso. Usciamo dalla metro e questa volta il vento freddo e carico di umidità ci investe. Anthea è scossa da un brivido, ma non so per l'eccitazione o per l'aria gelida. Cerco di non perdere tempo e attraverso tutta Canal Street. Ci impieghiamo quasi dieci minuti e la gente non fa altro che squadrarci stranita, ma ora qualcuno - qualcuno che mi somiglia - comincia a sorridere. Alla fine, finalmente, mi fermo. 

"Pronta?" Le domando, posando le mie mani prima sulle sue spalle, poi sul nodo della sciarpa. Anthea annuisce e io sciolgo finalmente il nodo.

Ci mette qualche istante a capire cos'è quella caotica vivacità di colori, forme, suoni e odori che sta fissando stupita. Palazzi alti tre o quattro piani dalle scale esterne chiudono una strada trafficata e al piano terra di ognuno di questi si aprono ingressi di negozi con cartelli coloratissimi, banchetti carichi di ogni sorta di cibi e persone ferme a parlare in capannelli sotto insegne in una lingua che non assomiglia lontanamente all'inglese.

Poi, semplicemente, scoppia nella più bella e intensa e riconoscente risata che abbia mai udito. Si volta verso di me mentre i suoi occhi splendono e con felice stupore esclama: "Chinatown!"

"Finalmente a casa!"

Questa volta rido anche io e mi sembra così normale che lei mi stringa in un abbraccio. Ridiamo assieme, abbracciati, come naufraghi appena individuati da una nave soccorritrice, nel mezzo di Mott Street. 

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