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2. Mandorle e Meringhe

Dopo una doccia rapidissima, un secondo caffè, un salto in pasticceria - Sì, Serafina apprezzerà - e trenta minuti di metro, arrivo finalmente al palazzo de La Lanterna di Aristotele,  a poca distanza dalla parte di studi umanistici del campus universitario. Dei cinque piani di cui è composto, il giornale occupa gli ultimi due, perciò in estate si muore di caldo. Sono in pantaloni corti per questo, nonostante non sia il mio abbigliamento preferito. Prendo l'ascensore - che è uno di quei vecchissimi modelli con la doppia porta, che cigolano ogni pochi centimetri - e arrivo ai battenti di vetro del mio luogo di lavoro. Ormai sono cinque anni che sono impiegato in questa redazione: sarebbe difficile desiderare di andare via. I motivi sono tanti e diversi, ma tra questi la fa sicuramente da padrone la presenza del mio capo.

Serafina Celli è un carrarmato mascherato da donna: tocca il metro e ottantacinque, veste sempre e soltanto di nero e bianco e porta un paio di tacchi dodici, che rimbombano come mitragliatrici per tutti e due i piani del giornale. È un comandante tenace, vivace, a volte feroce.

Non la sostituirei con nulla al mondo.

Non appena le porte dell'ascensore si spalancano, un suo ruggito fa tremare i vetri delle varie sezioni. Il suo ufficio è il primo che si incontra entrando e la sua collocazione non è casuale: così può controllare tutti quelli che si muovono.

"Cosa significa che l'articolo non è pronto!? John, io ti ho permesso di rimanere a casa per un esame, ma mi avevi assicurato che... STAI ZITTO E FAMMI FINIRE, COSINO. L'ESAME ERA SETTIMANA SCORSA. HAI AVUTO TUTTA QUESTA SETTIMANA PER FINIRLO, PERCHÉ TU MI AVEVI GIURATO DI AVERLO GIÀ SCRITTO. QUINDI ORA TU, ENTRO STASERA, ME LO FAI AVERE,  ALTRIMENTI VENGO A PRENDERTI A CALCI IN CULO, TU E QUELLA BANDA DI MANDRILLI DELLA TUA BAND DI MERDA. È CHIARO? - momento di silenzio - OTTIMO. - altro momento di silenzio - NO. STASERA SIGNIFICA ENTRO LE OTTO. NON ALLE UNDICI E MEZZA. SE PERMETTI HO ANCHE IO UNA VITA. ESATTO. LE OTTO. NON UN MINUTO DI PIÙ. - luuuungo momento di silenzio - BENE. CIAO."

Vi presento il mio capo.

Serafina pesta la cornetta sul telefono con la grazia di un barbaro. Mi avvicino alla sua porta e busso.

"ENTRA."

Spalanco il battente giusto il necessario per infilare metà dell'incarto del pasticcere. 

"Vengo in pace." Sussurro, agitandolo come se fosse una bandiera bianca. Faccio spuntare il viso fino al naso e mi appoggio alla porta. 

"Attento che oggi mangio anche te." Risponde lei. 

"Ma dai! Ti ho preso i tuoi pasticcini preferiti! È così che si tratta un benefattore?"

Sbuco sorridendo e per mia fortuna Serafina contraccambia. È, nonostante quello che si può pensare, una bellissima donna. Ha mossi capelli castano scuro lunghi fino a poco oltre le spalle,  occhi scurissimi e pelle molto pallida. Quella volta in cui un neoassunto particolarmente in vena di scherzi la chiamò Bella Swan, si sentì rispondere: "Vuoi averne la conferma? Posso sempre morderti. Ma non sono sicura che poi non mi trasformerò in una lamia."

Ha una profonda conoscenza di tutto ciò che riguarda la mitologia e le religioni perciò, a volte, se ne esce con nomi di divinità, demoni o entità senza spiegazioni chiarificatrici. È divertente vedere l'inquietudine sui volti di coloro che non hanno una robusta padronanza del folklore, diciamo, mondiale. 

"Sei arrabbiata con Johnny?" Domando, sedendomi sulla poltroncina rossa davanti alla sua scrivania. Di solito questo posto è riservato agli sventurati a cui tocca il predicozzo - come il sopracitato John, che l'ha evitato rimanendo saggiamente a casa propria - ma io sono ormai più o meno immune a quel genere di situazioni.

L'ufficio di Serafina sembra piccolo rispetto alle sue reali dimensioni, soprattutto perché è strapieno di cose: da montagne di fogli accatastati e suddivisi da linguette colorate a una selezione di bellicose piante grasse schierate sul davanzale dell'unica stretta e alta finestra presente dietro la scrivania, ogni cosa rinchiusa, compresa la proprietaria, in quattro pareti sui toni del crema. C'è sempre un lieve profumo di magnolia nell'aria. 

"Dovresti chiedermi quando non lo sono."

"È solo un ragazzino."

"Che ha deciso di collaborare con noi. Un impegno è un impegno, Liang."

"Sai, penso proprio che non sarà la signorina Celli a meritarsi questi dolci. Pensò che li darò tutti al signor Auburn-del-secondo-piano."

Il signor Auburn-del-secondo-piano è un arzillo e molestissimo segretario sessantatreenne che lavora in un ufficio amministrativo che l'università ha sistemato nel nostro stesso edificio. Serafina non lo può tollerare perché afferma che i tacchi del mio capo si sentano fin nelle fondamenta del palazzo. In pratica ogni settimana si alza dalla sua scrivania sbuffando e borbottando "Eccola che riparte, il cingolato", prende l'ascensore decrepito fino al quarto piano, scende con il suo passo cadenzato e bussa cinque volte alla porta con la targhetta Miss S. Celli - caporedattore e parte con la solita paternale sui tacchi, il disturbo e l'educazione. Potete immaginare cosa pensi Serafina del signor Auburn-del-secondo-piano.

Piega appena il collo e mi fissa cupamente. "Provaci e ti defenestro."

"Non sai nemmeno stare agli scherzi." Rido io, appoggiando l'incarto sulla sua scrivania. A fianco del suo portatile c'è una foto incorniciata che raffigura lei e il suo cane, Goethe. È un bastardino tozzo, bianco e nero, un incrocio tra un corgi e un pastore australiano. Ogni tanto lo porta al lavoro. È il cane più viziato che conosca. "È già arrivato?"

"Ti pare che possa essere arrivato?"

"Come faccio a saperlo?"

"Non ti avremmo atteso alla festa."

"Ah ah, che spiritosa."

"Comunque no, non è ancora arrivato. Però questa mattina ho scoperto una cosa che già mi provoca fastidio."

"Cosa?"

Serafina si fa cupa e appoggia il mento nella mano aperta. "Suo zio materno è uno di quei tizi che finanziano l'università. Un benefattore. Ed è abbastanza famoso tra le fila dei conservatori."

La guardo. Poi scoppio a ridere. "Temi che sarà un novello Quentin?"

Quentin è un ragazzo che lavora al giornale e si occupa della letteratura religiosa cristiana. Proviene da una famiglia piuttosto conservatrice - suo padre è pastore - e a tratti perfino bigotta. Ha faticato molto, per così dire, a entrare nella nostra ottica di vita. Anche se all'inizio è stato davvero antipatico, tutto gli è stato perdonato quando ha chiesto pubblicamente scusa. Al momento continua a credere fermamente in Dio - e puntualmente litiga con gli atei della redazione, inviando su WhatsApp immagini con Gesù e le preghiere - ma ha applicato in modo più rigoroso il precetto del di Lui figlio: ama il prossimo tuo come te stesso.

"Non lo so. Ma se permetti mi preoccupo."

"È uno zio. E comunque con Quentin abbiamo appurato che non sono tutti così."

"Sì, ma i genitori di Quentin sono dei rompipalle in maniera diversa."

Sorrido all'espressione infastidita del mio capo e rispondo: "O forse sei tu che sei paranoica."

"Ma certo, sono sempre io. Sempre colpa mia. Aaaah, ma tanto son fatti tuoi. Lavorerà anche sotto il tuo comando.

Suona vagamente come una minaccia,  ma non mi preoccupo più di tanto: non è il primo stagista a cui mi capita di badare.

Bussano timidamente alla porta e il delicato viso di Henry, l'ex stagista inglese ora facente parte a tutti gli effetti della Ciurma Celli, compare sulla soglia. Henry è il ragazzo più bello che abbia mai incontrato: foltissimi capelli color rame incorniciano un volto dai tratti fini con occhi dannatamente azzurri. Nonostante ciò, è timido, impacciato, ha un accento buffo e si comporta da bravo ragazzo. È impossibile non volergli bene.

"Serafina?" Chiede sulle spine.

"Dimmi, cucciolo."

Oh, sì, il mio capo ha un debole per lui. Si sente responsabile del suo musetto da bambino introverso, un po' come succede a tutti noi. In realtà Serafina fa spesso così con gli stagisti. È molto materna, quando vuole

"Di là è tutto pronto." Henry si interrompe e poi ricomincia, abbassando la voce "Ed è arrivato. Sofia lo sta intrattenendo."

Serafina storce la bocca e si alza in piedi. Grazie ai tacchi torreggia intimidatoria.

"Come sembra?"

"Non so. Suppongo... normale. Un po' sulle sue."

Serafina soppesa l'informazione con attenzione, poi gira attorno alla scrivania, sorpassa me e Henry si fa da parte per lasciarla passare. Una volta uscita, lui si volta e mi sorride.

"Come stai, Jess?"

"Non c'è male." Rispondo,  recuperando i pasticcini e alzandomi. "Ho preso qualcosa per salutare Silas."

"Davvero gentilissimo."

"Tu come stai?"

In questo periodo Henry non si trova granché bene: vive da un paio d'anni con sua madre, giunta da Bath, divorziata fin da quando lui era piccolo; la donna soffre di depressione e il ragazzo vive nel terrore di tornare a casa e trovare una tragedia. È già capitato che abbia dovuto chiamare me, Serafina o uno degli altri ragazzi del giornale per chiedere aiuto.

Ci sono fasi Okay e fasi Not-Okay. È in una fase N-O e lo capisco dal modo in cui nervosamente si accarezza la nuca. 

"Diciamo che... va. Potrebbe sensibilmente andare meglio, ma..."

"Dai, pensiamo al momento." Gli dico, appoggiandogli una mano sulla spalla. "Ho preso anche la pasta di mandorle."

Per un istante viene distratto dai suoi torbidi pensieri e i suoi occhi azzurri ammiccano come quelli di un bambino. Ho lavorato con lui il tempo sufficiente per conoscerlo e so del suo debole per le mandorle. Certo,  non aggiusterò la sua vita con la complicità di un pasticcere, ma cos'è la vita se non un insieme di attimi? Renderne almeno uno sereno mi sembra il minimo.

"Grazie, Jess."

"Figurati. Ma non..."

Dalla porta spunta un altro visino conosciuto. Kirti è l'unica altra persona tra le quattordici che lavorano in pianta stabile al giornale ad avere fattezze orientali, oltre a me. I suoi genitori sono originari del Tamil Nadu e lei, anche se è nata in America, indossa simboli che richiamano la sua terra d'origine. Sul suo piccolo volto da mangusta color caffelatte ha dipinto il solito Bindi rosso, accompagnato da un sottile anello d'oro al naso, una ventina di orecchini e una corta zazzera di capelli nerissimi tenuta a bada da un cerchietto glitterato. Ha solo ventitré anni, è piccina, ma è una tosta. Lei e Serafina litigano ogni tanto, ma il mio capo la adora proprio perché è l'unica che osa tenerle testa.  

"Hey, che state facendo?" Chiede a Henry e me con il suo solito tono spicciamente allegro. Il ragazzo al mio fianco arrossisce, divenendo di un'inquietante tonalità di scarlatto. Il fatto è che è abbastanza palese l'effetto che Kirti ha su di lui. Henry ne è innamorato perso, probabilmente fin dal primo giorno in cui questa signorina indiana ha messo piede fuori dal nostro vecchio ascensore, ma non ha mai avuto il coraggio di dirle nulla. Io non ho ancora capito se Kirti stia aspettando una dichiarazione ufficiale o se non se ne sia mai accorta. 

Le sorrido e rispondo io, dato l'afasia improvvisa di Henry: "Discutiamo della bontà delle mandorle."

 "Ah, bene. È molto meglio la noce moscata a mio parere. Comunque c'è da conoscere il nuovo tizio."

"Arriviamo, arriviamo."

Do un colpetto al gomito del mio collega e questi pare risvegliarsi e annuire in modo stordito. Kirti alza gli occhi al cielo e incrocia le braccia, facendosi da parte. Indossa sempre una lunga camicia con maniche a tre quarti e pantaloni di stoffa morbida. Li ha in mille colori e ancora più varianti di decori, pizzi e ricami. Le scompiglio i capelli passando.

"In realtà stavamo tardando nella speranza che Serafina facesse il lavoro sporco."

Lei ridacchia, si rimette a posto i capelli chiudendoci la porta alle spalle. "Illusi. Non vorrete mica perdervi la torta."

"La torta?"

"Non penserai di certo di essere stato l'unico a essere stato contattato per portare vettovaglie, vero?"

Non aggiunge altro. Si volta e a grandi passi gira l'angolo. La seguiamo senza dire una parola. Oltre l'ufficio di Serafina si trova un lungo corridoio ricoperto di moquette marrone e su entrambi i lati si aprono le porte e le vetrate dei vari uffici. All'ultimo piano la storia si ripete quasi identica, ma al quarto abbiamo una stanza abbastanza grande - la cosiddetta sala riunioni, ribattezzata Cibo-Sala a causa della sua utilità effettiva - da contenere tutti e quattordici - in questo caso quindici - abitanti del giornale. Serafina sta già parlando, davanti a una torta di meringhe al limone palesemente opera del nostro Masterchef, Jeb, un barbuto ragazzone che ha mani benedette in quanto a delicatezza e bravura. In effetti è al fianco del nostro capo e coccola con gli occhi la sua incantevole creazione.

Lo stagista è dall'altro lato del tavolo. Deve avere all'incirca vent'anni, ha folti capelli castani e veste in camicia e jeans. È piuttosto intento ad ascoltare. Interessato. Attento. Non ha niente che non vada. 

"... Quindi benvenuto tra noi, Silas. Spero ti troverai bene come i molti altri stagisti che abbiamo avuto. Alcuni sono tuttora qui, vero, Henry?"

Henry arrossisce e annuisce. Proprio da lui partono le presentazioni che seguono le sbrigative parole di Serafina. Silas stringe la mano a ognuno di noi. Quando lo fa con me, i suoi occhi indugiano per un attimo sul mio corpo. Liquido con un sorriso la sua curiosità e gli dico: "Jess Liang."

"Silas Burn." Mi risponde, puntandomi in viso un paio di occhi verdi. 

"Ecco, Silas. Tu lavorerai soprattutto con Jess. Sarà uno dei tuoi tutor per quanto riguarda la revisione di articoli accademici. Per quanto riguarda quello che vuoi fare, puoi chiedere invece a Miranda. È la responsabile di filologia moderna."

Miranda, una piccola e occhialuta rossa, agita una mano a fianco di Jeb. I due stanno assieme da quando hanno iniziato a lavorare per il giornale.

Silas fa un mezzo sorriso e con voce autorevole ribatte: "Ottimo. Sarà interessante lavorare qui."

Serafina approva le sue parole alzando il bicchiere che Martin, il collega di letteratura rinascimentale, le ha riempito di prosecco. È una specie di benedizione e questo tranquillizza tutti. Il clima si fa allegro grazie alla torta di Jeb e ben presto anche Silas si inserisce nelle conversazioni.

L'unica cosa che non mi convince è il modo in cui mi guarda. C'è qualcosa di curioso e confuso. So perfettamente perché continua a osservarmi, ma questo non mi rende sereno. Lì al giornale sanno tutti cosa sono. Questo però non vuol dire che lo vada a dire in giro, come nulla fosse. 

La mattinata trascorre così, cercando di conoscere il nuovo acquisto: compirà vent'anni tra due mesi, abita a New York - Greenwich - e la passione per le lettere scritte deriva da una lunga tradizione famigliare. Non una parola sulla sua famiglia o su quel suo famigerato zio Conservatore. Non male. Alla fine sembrano tutti piuttosto soddisfatti di lui. Anche io lo sono. Si decide che nel pomeriggio inizierà a lavorare con Miranda, dato che è più interessato alla filologia moderna rispetto a quella classica inglese e io sono libero di parlare con Serafina. 

"Sembra a posto." Commenta, tagliando corto: ha da fare,  l'università ha chiamato per fissare tre appuntamenti con i finanziatori e nel frattempo deve approvare quattro articoli e completare il proprio. La lascio fare. Me ne torno nel mio ufficio, che si trova al piano superiore e mi metto al lavoro. Mi tolgo facilmente dalla testa la Questione Venerdì.

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