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15. Non siamo monadi

Da quanto avete letto fino a questo momento, avrete capito che io non sono esattamente un intrattenitore nato. Sì, ho sprazzi di vivacità e a volte posso risultare addirittura brillante, ma non lasciatevi ingannare da questi eventi più unici che rari: non sono in grado di rimanere tale per più di pochi minuti. Se ho fatto una battuta e qualcuno ha riso, entro in quello stato di dubbio esistenziale in cui ci si ritrova all'improvviso in una situazione di stallo: dovrò farne un'altra a breve? E se non sortisce lo stesso effetto? Ho appena guadagnato un punto, ma una battuta va bene, due non diventano pesanti? Se non ne faccio altre, però, lei si troverà ancora a suo agio o comincerà a pensare che io non sia in grado di sostenere una conversazione leggera?

Nell'incertezza, mangio. Sono costretto però a versarmi un bicchiere d'acqua dopo i primi due morsi. Non so cosa intendano in cucina con poco cajun, ma di sicuro non corrisponde alla mia misura: mi si è addormentata la lingua e non riesco a pensare ad altro se non al fuoco che ho in bocca. Figuriamoci se sono in grado di formulare una domanda interessante o, ancora peggio, una battuta. 

Anthea mangia tutto con coltello e forchetta. È partita dal centro e ha iniziato a tagliare piccoli triangolini. Mi sento un incivile mentre tento di non farmi lacrimare gli occhi a causa del piccante. Quantomeno i gamberetti sono buoni. 

Sono quasi sul punto di uscirmene con un infelice: Di solito non mangio in silenzio, ma sto lentamente andando a fuoco, scusa, quando Anthea decide di rompere la quiete con una domanda che non mi sarei mai aspettato da lei. 

"L'altro giorno, quando mi hai scritto, ho visto la tua immagine. Su WhatsApp." Inizia a dire, mentre è tutta concentrata nel ritagliare la giusta forma dalla sua ragnatela di pasta e pomodoro. "E volevo chiederti se... se sei tu in quella foto."

Deglutisco un sorso d'acqua e le rispondo, provando una sensazione strana - come rendersi conto di essere normale, perché questo vuol dire che non sono solo io a controllare le immagini altrui - che per un secondo mi fa dimenticare il bruciore: "Sì. O meglio. Le mie mani."

"E quello è il tuo strumento?"

"Sì. È un violoncello."

"Un violoncello." Risponde, facendo un sorriso e infilandosi in bocca un rettangolino di pizza. "Lo suoni da tanto?"

"Da quando ero al liceo. Per il primo anno ho suonato con quello della scuola, poi mia madre decise che ero abbastanza bravo per meritarmelo."

Sorrido. È un episodio accaduto in uno dei periodi più bui della mia esistenza. Fu forse l'unico raggio di luce nell'oscurità che permeava la vita di una persona confusa come ero io e in cui mi muovevo completamente alla cieca. 

"E suoni spesso?"

"Di solito due volte a settimana in un locale nell'East Side. Lo gestisce un mio amico e permette di suonare a me e a un'altra ragazza."

Scovo un piccolo grumo di cajun nascosto in un gamberetto. Lo sistemo sul lato del piatto ormai vuoto e mentre assaporo un crostaceo che finalmente non mi ustiona il palato, aggiungo: "Tu? Suoni?"

"Io?" Anthea sembra quasi incredula. "No, no. Nel senso... da bambina ho dovuto prendere lezioni di piano, ma ho smesso quasi subito."

"Lezioni di piano. Interessante."

"Non sono mai andata oltre l'Inno alla Gioia."

Sorride in modo così orgoglioso che mi ritrovo costretto a ridere. La pizza è decisamente meno difficile da mangiare, tra una pausa e l'altra di chiacchiere. 

"Quindi non ti piace la musica?"

"No! La musica mi piace molto. Studio ascoltando la musica."

"Quale?"

"Quando studio?" Mette su un'espressione volpina. "Fusion classica-rock."

"Aaaaah... sei una modernista... lo sai cosa ascolto io, quando devo correggere degli articoli particolarmente complessi?"

Anthea si tende leggermente sul tavolo verso di me, interessata. "Cosa?"

Mi avvicino anche io e aspetto qualche secondo prima di dire: "Otto ore di pioggia ininterrotta."

Scoppia a ridere nel suo modo delicato. Di nuovo. Per la seconda volta nel giro di quindici minuti. E a dire che questa non era nemmeno una battuta.

"Non sto scherzando! Ci sono un sacco di video su YouTube."

"Ci sono anche quelli del vento che soffia per tre ore di seguito."

"Ah! Allora li conosci!"

"Non ho mai detto di non averli ascoltati." Risponde sibillina, rimettendosi al lavoro. Ridendo e scherzando ne ha già mangiata metà, lasciando solo il profilo della circonferenza di crosta. Io, non gran signore ma bestia fatta e finita, ho le dita sozze e probabilmente un'aura di unto attorno alla bocca. Ma dato che Anthea non sembra interessarsi al mio essere cavernicolo, procedo. Tanto vale finire quello che si è iniziato. 

"Sai" Le dico, ragionando per un secondo se sia il caso afferrare il bicchiere e lasciare impronte degne di una scena del crimine ovunque. "A vederti sembri davvero una pianista. O una violinista. Insomma, una musicista di qualche strumento."

"L'oboe." Risponde lei e ride subito dopo. "O la cornamusa."

"Ma no! Qualcosa da... da signorina dei film."

Anthea mi osserva e all'improvviso il mio baffo di sugo diventa un problema di importanza vitale. Abbandono la fetta già morsa e recupero il tovagliolo per rendermi decente.

"Perché da signorina dei film?" Domanda cautamente. All'improvviso ho la sensazione di essermi appena infilato in un vicolo cieco. Arrossisco velocemente mentre cerco di tirar fuori una risposta significativa. 

"Hai... hai l'aspetto dolce. E... non saprei. Nei film le signorine che suonano il piano hanno l'aspetto dolce."

"Nei film i violoncellisti assomigliano a Keri Russell." 

Ci fissiamo per un istante, poi capisco. E non so se prenderla come una frecciatina o una battuta azzeccata. 

"Touché." Affermo, appoggiando una mano sul cuore e abbassando gli occhi. Sono colpito. La ragazza ha spirito. Anthea si mette subito a ridere e si porta le mani, intrecciate, al petto. 

"Sapevo che avresti capito!"

"Ho visto qualsiasi film avesse come tema principale la musica."

"A me piacciono i musical." Ribatte lei, per poi precisare: "Possibilmente che non siano basati solo su una storia d'amore."

"No? Allora non ti piace West Side Story?" 

Fa una smorfia, come se avesse morso un limone. "Non tanto."

Ammetto che non mi aspettavo che non le piacessero le storie d'amore. Non ha solo un aspetto dolce: anche romantico. Eppure...

"Lasciami indovinare, anche se non te l'ho mai chiesto: il tuo autore preferito non è Catullo. Sai tante cose di lui perché è latino, ma non lo ami particolarmente."

Il sorriso con il quale accoglie la mia intuizione è splendido. Socchiude gli occhi dalla gioia e le sue lentiggini si alzano in un'onda, come le macchie sulla pelliccia di un giaguaro. 

"Indovinato."

"Qual è l'oggetto delle tue attenzioni, quindi?"

Prima di rispondermi, ricava un quadratino dalla crosta della pizza e se lo mangia. Temo che si aspetti che io lo capisca da solo, da come mi guarda sorniona.

"Ehm, Anthea... gli autori latini disponibili oltre a Catullo non sono esattamente cinque..." Le faccio presente.

"Vuoi un indizio?"

"Ben venga."

"L'autore della mia frase su WhatsApp è una delle sue fonti principali."

Sorride entusiasta del suo gioco e attende una risposta. Mi fa male al cuore pensare che dovrò darle una delusione. Prendo tempo mangiando l'ultima fetta superstite, mentre frugo disperato nei ricordi dei miei studi. Era una frase sulla natura, no? Potrebbe essere Platone? Oppure Erodoto? Erodoto mi sembra quello più papabile e lo sto per dire, quando all'improvviso il mio cervello crea una sinapsi nuova di zecca e mi pone il quesito: chi c'è dopo Platone? 

"È Aristotele?" 

Nel suo sorriso si aggiunge un pizzico di onesta eccitazione. Annuisce e alza una mano, facendo roteare lentamente il polso. 

"E..?"

Ah. Ora capisco. Capisco eccome, anche se non mi sembra vero.

"Plinio?"

"Plinio il Vecchio." Precisa lei, puntigliosa ma felice. "Bravissimo!"

È sinceramente orgogliosa di me e io per un secondo mi sento fiero di me stesso. Un po' come quando alle elementari si ricevono i complimenti dalla maestra davanti a tutta la classe. La sensazione è la stessa, come anche l'imprescindibile desiderio di voltarsi verso tutto e tutti e dire: la sapevo! 

Peccato che nel mio caso le belle di notte siano più interessate a spalancare le proprie corolle alle prime stelle, piuttosto che prestare attenzione al pazzo di turno. 

"Come mai Plinio?"

"Perché mi piacciono le opere policrome. E la Naturalis Historia contiene di tutto, dalla geografia alla zoologia, dalla botanica alla storia dell'arte. Plinio ha raccolto tutte le informazioni a cui poteva avere accesso per creare una grande enciclopedia del sapere."

"Quindi ti piacciono le enciclopedie?"

"Mi ricordano che nella vita ogni cosa ha una qualche relazione con il resto." 

Mi era già accaduto la prima volta in cui ci siamo conosciuti, ma l'episodio si ripete: Anthea è in grado di trasformare un piccolo gioco, un qualsiasi allegro indovinello in qualcosa di molto più serio e profondo. Non so come faccia, ma lo fa, e anche molto bene. È partita con uno scherzo e ha concluso affermando una verità filosofica: niente vive da sé in questo mondo. 

"Non siamo monadi." Ironizzo.

"Non siamo soli." Ribadisce lei, per poi tornare a sorridere dolcemente. Mi sembra quasi di sentire il lontano applauso di Serafina, mentre ripete come un mantra: humani nihil a me alienum puto. Ora capisco perché la ritiene un mito. Noto una certa influenza. 

Anthea finisce la sua pizza, qualche minuto dopo di me. Non ne ha avanzata nemmeno una briciola e io sono contentissimo di notare che non mangia come un uccellino, anche se ne ha l'aspetto. Sto già valutando se proporle il dolce, quando la porta a vetri si apre e la graziosa ragazza mulatta compare sulla soglia, indicando i tavoli a due uomini di circa trent'anni, entrambi con capelli rasati sui lati e l'aspetto poco raccomandabile. Sì, vero: sono sempre prevenuto. Ma molto spesso ci azzecco, perciò mi sento in dovere di mettermi in guardia. La guardia si alza sempre più quando i due, dopo aver dato un'occhiata in giro, decidono di puntare direttamente al piccolo tavolo di fianco al nostro. 

Si siedono e subito si sentono in dovere di commentare la bellezza della ragazza che li ha accompagnati con parole che non starò qui a ripetere, ma che riguardano soprattutto la lunghezza delle sue gambe, per usare un eufemismo. Non so precisamente cosa fare in questi casi. Normalmente mi lascio prendere dall'ansia e tento una via di fuga, ma questa volta non sono solo. E vorrei tanto evitare una spiacevole situazione per Anthea. Le lancio uno sguardo, ma non mi sembra spaventata. Sta bevendo, incupita, e osserva le belle di notte vicino al mio gomito destro. Sembra scocciata, più che intimorita. Io intanto sudo freddo, perché mi sento addosso gli occhi dei due uomini, che solo ogni tanto scambiano una battuta. So che mi stanno studiando. È quello che fanno tutti, o quasi. Sono più che conscio che non sia facile trovare in me delle caratteristiche femminili evidenti, ma sotto determinati sguardi - come quelli insistenti dei nostri vicini - mi sento nudo. Ho quasi paura che in faccia mi compaia una scritta a led luminosi che dica: Guardatemi tutti, ho il seno! 

È un pensiero paranoico, ma di pensieri paranoici è piena la mia testa. Nemmeno il senso di colpa che provo all'istante è normale, ma Serafina - e prima di lei il mio psicologo - dice che succede per tutto quello che mi è stato detto e fatto durante il percorso della Scelta. Che continuo a sentirmi in colpa perché è così che la gente voleva che mi sentissi. In ogni caso non si può farci niente. 

O almeno, io non posso. Anthea a quanto pare sì.

"Ti va un gelato?" Mi domanda. La sua voce non è un sussurro questa volta. È sicura, convinta. Sembra che stia mandando un messaggio ai due che si dimostrano molto interessati a farsi gli affari altrui: mi date fastidio

"Volentieri." Rispondo, in modo più tremolante di quanto voglia. Anthea si alza senza esitazione, prende la sua borsa e mentre raddrizza il fiore sul suo polso, accenna un sorriso. Mi alzo in piedi anche io, controllo che il portafoglio sia al suo posto e faccio i tre passi che ci separano nei cespugli di Mirabilis, piuttosto che passare davanti al tavolo dei due uomini. Ho un moto di irritazione quando con la coda dell'occhio noto i loro sguardi sulle gambe nude di Anthea e appena mi volto, iniziano a parlare. Mentre lei apre la porta a vetri, uno dei due scoppia a ridere, una specie di ululato bestiale che rimbomba nelle quattro pareti del nostro giardino violato. Probabilmente hanno capito, probabilmente no. Non è più importante e non mi interessa. Il battente si chiude e io tiro un sospiro di sollievo.

"Mi dispiace." Dico ad Anthea, che cammina un passo davanti a me con una certa fretta. "Avremmo potuto rimanere di più..."

"La compagnia non era gradevole." Ribatte lei, puntando dritta alla cassa. Il locale si è riempito. Nei tavoli prenotati siedono coppiette, drappelli di amici e qualche famiglia. C'è una bella atmosfera, profumata di cibo invitante, ricca di chiacchiere e risate e qualche strillo di bambino. Fortunatamente le bestie sono state messe alla catena, fuori. Ottima scelta, ragazza dalle gambe chilometriche. 

"È andato tutto bene?" Ci chiede, di nuovo appollaiata sul suo sgabello dietro la cassa, con un sorriso smagliante.  

"Benissimo!" Conviene Anthea, sfoderando con la grazia di uno spadaccino un portafoglio azzurro carta da zucchero. In quel momento comprendo il motivo della sua fretta e cerca di rimediare al disastro. 

"No, no, aspetta. Tu non paghi niente." La redarguisco, appoggiandole la mano sinistra sulla spalla ed estraendo con la destra il mio portafoglio dalla tasca dei jeans. Anthea, con un guizzo da pesce, svicola dalla mia presa e tende alla ragazza una banconota da venti e una da dieci, per poi aggiungere: "Tieni il resto! È la mancia!"

La giovane donna scoppia a ridere, facendo girare un paio di camerieri e una coppietta intenta a chiacchierare, ignorando completamente le mie proteste. Tende lo scontrino a Anthea e augura a entrambi una splendida serata. 

Usciamo dal locale. Anthea è raggiante, io sto morendo di imbarazzo. 

"Stavo scherzando." Ribadisco borbottando, come un vecchio. "Stavo scherzando quando ti ho scritto su WhatsApp. Te l'avevo già detto."

Ci ho fatto per davvero la figura del povero. Del povero scemo. Non solo l'ho invitata fuori in ritardo, abbandonandola a se stessa per giorni, ma mi sono anche fatto pagare la cena. Ruben mi definirebbe un accattone.

Lei si stringe nelle spalle, senza notare - o senza darlo a vedere - il mio cattivo umore, poi si volta verso di me e mi prende la mano. La guardo, colto di sorpresa, e il suo sorriso allegro mi confonde. 

"Posso davvero offrirti anche un gelato?"

"Non ci pensare neanche. Lo prendiamo, ma tu non ti azzarderai neanche a tirare fuori altri soldi da quella dannata borsetta."

Sorride ancora di più. Sembra divertita dalla mia espressione, tanto che mi risponde enigmatica: "Va bene, ma a una condizione."

"Quale?"

"Andiamo a Central Park."

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