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1. Il mattino ha l'oro in bocca

La mattina ha sempre un briciolo di magia stretta tra le sue dita di rosa. Disteso a letto, il lenzuolo scalzato come un malvagio strumento di morte nel caldo di giugno, osservo l'aurora scivolare tra le stecche delle persiane. L'alba è sempre stato il mio momento preferito di tutta la giornata: è tutto così tranquillo alle sei del mattino. Come se il mondo fosse ancora fermo nei riflessi di una bolla. I pochi mezzi che passano per la nostra strada sembrano soffusi e lontani brontolii da un'altra dimensione e i delicati scricchiolii delle pareti, dei mobili, delle scale esterne non sono altro che rintocchi dell'ora irreale. La mia sveglia non suonerà se non tra quarantacinque minuti, ma spesso mi sveglio e sveglio rimango per godermi questa sensazione di sospensione nel tempo. I granelli di polvere illuminati dalla rosea luce dell'alba hanno probabilmente la mia stessa densità. Mi sento un granello tra loro e potrei levitare incorporeo. 

Ma all'improvviso, nella stanza dall'altra parte del corridoio, parte a manetta Starships di Nicki Minaj.

Addio pace.

Chiudo gli occhi e attendo l'inizio del ritornello. Non appena le prime quattro note stridono nell'aria, un colpo secco le fa tacere. Ruben si è svegliato.

Ruben Kaloosh è il mio coinquilino, un trentenne di Indianapolis, armeno di seconda generazione. In realtà l'unica cosa che ha di armeno è il cognome, anche se lui afferma convintissimo di avere una faccia inequivocabilmente mediorientale. È confusionario, distratto, completamente inetto riguardo tutto quello che comprende un'aspirapolvere, una lavatrice o una maglietta da smacchiare, ma un genio nel suo lavoro. Che ci crediate o no, ha un Ph.D. in genetica. La sveglia gli serve per ricordarsi di andare al lavoro, nel campus dell'università, tutte le mattine.

Lo sento alzarsi con la sua solita grazia - di sicuro non ha ancora inforcato gli occhiali - e poi spalancare la porta, trascinarsi in bagno e aprire la doccia.

Sospiro. Con tutto il baccano misurabile in Decibel che Ruben produce sarebbe impossibile riaddormentarsi o tornare nello stato di calma estatica di prima. Lancio un'ultima occhiata all'aurora - niente più magia - e mi metto seduto.

Sono un amante dell'ordine. La mia camera è piccola ma ogni cosa si trova sempre al suo posto. Per amore della verità - non della vanità - posso dire che la nostra piccola casa dell'East Side di New York non è ancora divenuta protagonista a Sepolti in casa solo grazie a me. Ruben è un adorabile disastro casalingo. L'unica cosa che gli viene bene è cucinare perché, così dice lui, non è tanto diverso da quello che fa al lavoro.

Tutta questione di dosaggio ama ripetere. Lui. La persona più squilibrata relativamente ai talenti che io conosca.

Decido opportunamente di non mettergli fretta - occuperebbe il bagno più del dovuto - e mi alzo a preparare il caffè. Trovo i suoi occhiali abbandonati sul tavolo della cucina. Li prendo e glieli sistemo sul mobiletto a fianco del bagno. So che li cercherà disperatamente. Mentre il caffè inizia a brontolare dalla caffettiera, controllo le notifiche del cellulare. Trovo un messaggio della mia superiore, Serafina, arrivato dopo la mezzanotte - Domani gran giorno: arriva un nuovo stagista rompipalle! - un messaggio da zio Samuel - Ciao, Jess! Ricordami del nostro appuntamento di sabato quando puoi, altrimenti me lo dimentico come l'ultima volta :-) - e un altro da Serafina, di un'ora fa - Ce l'hai a casa una scatola di biscotti? Portala che bisogna festeggiare il nuovo rompipalle.

Sorrido all'entusiasmo della mia datrice di lavoro, ma mentre sto per risponderle con un Niente biscotti, solo champagne! Ruben entra in cucina, finalmente non più nella sua condizione di ipovedente e agita la testa piena di crespi capelli castani come un cane, sparando gocce d'acqua ovunque.

"Devi proprio?" Commento, cercando di proteggere la mia tazza con una mano.

"Grazie per gli occhiali, Involtino Primavera del mio cuore."

"Prego, Falafel."

Questo vizio di chiamarci con soprannomi mangerecci è iniziato sei anni fa, quando avevamo appena iniziato a convivere assieme. Penso che Ruben si sia studiato l'intera pagina di cucina cinese su Wikipedia, perché ogni tanto se ne esce con nuovi appellativi inaspettati. Tuttavia Involtino Primavera è sempre stato il suo cavallo di battaglia.

Prende posto sulla sedia davanti a me e tira a sé la sua tazza di Iron Man. All'ultima fiera del fumetto ha comprato a me quella di Capitan America e a se stesso quella perché dice che io sono quello con il faccino pulito e lui il figo assurdo.

Gli verso un po' di caffè.

"A che ora torni oggi?"

"Boh. Ho tipo sedici sequenziamenti da fare. Ci metterò gli anni a finire. Te?"

"Solito."

"Passo dal thai?"

"Va bene."

Nonostante sia abbastanza bravo a cucinare, Ruben e io ceniamo spessissimo con cibo esotico da asporto. Torniamo entrambi stanchi dal lavoro e nessuno dei due ha voglia di mettersi ai fornelli. Sorseggio distratto il mio caffè, ragionando se sia meglio passare per il supermercato o in pasticceria a comprare i biscotti per Serafina.

"Oh, Jess." Mi richiama Ruben.

"Eh?"

"Cerca di non inventarti impegni per venerdì."

Mi irrigidisco. Riabbasso la tazza e l'appoggio sul tavolo.

"Perché?" Domando guardingo. Ruben sorride sempre in maniera tale da sembrare uno di quei cani casinisti che cercano di vendere la propria innocenza dopo aver combinato un danno ingente per tutta la casa. Perché sì, si nota un certo senso di colpa, ma so benissimo che in realtà è falso come una banconota da sette dollari. La sfumatura di soddisfazione è sempre presente.

"Non capisco perché tu ti metta sempre subito sulla difensiva." Dice, ghignando come una faina.

"Perché? Me lo chiedi anche? Ti dovrei mettere davanti uno specchio per farti capire che non sei credibile."

Lui sbuffa e si alza, avvicinandosi discretamente al ripiano dei dolci. Tutta una tattica navigata per continuare con la sua farsa. Infatti, mentre afferra apparentemente a caso una brioche confezionata alla ciliegia, continua senza guardarmi: "Ti ricordi quel tale che era venuto al laboratorio un paio di mesi fa..."

"Quale dei molti?"

"Quello che ci voleva comprare una villa a Long Island per farci tacere nel caso il test di paternità fosse risultato positivo."

"Ah. Quello."

"Si chiama Donatan Palmer. E ha tipo un mega appartamentone a Upper East Side. Beh, non ci crederai, ma settimana scorsa gli sono arrivati i risultati del test di paternità ed è stato così felice di trovarsi scagionato dal misfatto che ha invitato me e Sam alla sua festa annuale estiva in questa casa da sogno e anche se non ho guadagnato una casa figona in un posto di mare..."

"Ottimo. Spero che Sam e te vi divertiate!"

"... Dato che Sam non può venire perché parte per tornare a Cheyenne proprio la sera di venerdì, ho pensato che potrei portare te!"

Lo fisso cupamente. In silenzio. Cercando di convogliare tutto il mio sdegno nel solo sguardo. Il suo sorriso passa da cane furbone a bestiola questuante.

"Per favore?" Chiede, facendomi la faccetta tenerella. Con quelle guance, i capelli ricci e le ciglia foltissime sembra un putto.

"No."

"Dammi una buona motivazione."

"Non mi piacciono le feste."

"Banale! Scusa respinta! Trovatene un'altra!"

"Devo vedere mio zio venerdì."

"Sbagliato! Lo vedi sabato!"

"E tu come fai a saperlo!?"

"Segreti dei servizi segreti, baby."

"Non sarebbe male se tu ti facessi gli affaracci tuoi, ogni tanto." Rispondo, affatto colpito. Non è preveggenza: semplice indiscrezione. Ho lasciato il telefono sul tavolo della cucina ieri sera. Ora so perché ho trovato lì i suoi occhiali. Ruben si stringe brevemente nelle spalle e ribatte: "Mi servivano informazioni. E comunque tu stavi cercando di mentire."

"Ma pensa."

"Bene, questo vuol dire che questa volta non hai scelta. Mi hai dato buca un sacco di volte." Afferma trionfante. Il che è vero, ma non così vero. Non do buca a lui e dico sì ad altri. Non sono mai stato un grande amante delle feste in generale e Ruben lo sa benissimo.

Tento di giocare la mia ultima carta, sperando di farlo desistere.

"Immagino che a questa festa ci saranno molte ragazze."

"È soprattutto per questo motivo che ci voglio andare, cosa credi?"

"Non penso che Tanya ne sarà molto contenta."

La faccia di Ruben assume una sfumatura tra l'afflitto e l'esasperato.

"Tanya ha smesso di scrivermi. Di nuovo. Quindi io posso fare quello che voglio."

Mi rendo conto di essermi infilato in un vicolo cieco. La scusa di Tanya di solito funziona. Sospiro arreso e non vedendo altro di togliermelo dai piedi dico: "Ti conviene prepararti per il lavoro. Hai cinque minuti per raggiungere la metro."

Ruben alza subito gli occhi verso il piccolo orologio della cucina e li spalanca per l'orrore.

"Merda! Devo andare!" Urla, catapultandosi fuori.

"Già." Rispondo sollevato. Lo sento frenare nel corridoio verso l'ingresso e la sua testa ricciuta ricompare sulla soglia.

"Considero il risultato della nostra conversazione come un certo che vengo, Bub. Per venerdì." Mi fa notare, severamente. Gli faccio un cenno seccato con la mano.

"Te ne vai? Sam ti ammazzerà."

"Fortuna che ho ancora un po' di quelle caramelle al limone che le piacciono tanto! Adieu, Pollo alle Mandorle!"

Nascondo il viso tra le mani, perché ha gridato l'ultima frase mentre si chiudeva la porta alle spalle. Probabilmente lo ha sentito tutto il palazzo.

"Perché a me. Perché."

Voglio davvero bene a Ruben perché è una persona buona, nonostante tutto. Ma alcune volte, come in questo momento, lo strangolerei volentieri. Sa benissimo perché non mi piacciono le feste, le riunioni e tutto quello che riguarda l'incastrare più di dieci persone in uno spazio ridotto senza possibilità di fuga dalla conversazione. Lo sa, eppure mi costringe ad andare con lui. Sarà un'agonia aspettare venerdì.

Mi alzo con un sospiro dal tavolo e osservo distrattamente le tazze sporche sul tavolo. Un soffice squittio interrogativo proviene da un angolo del salotto. Ruben si è dimenticato - di nuovo - di dare qualche foglia di insalata a Honey prima di uscire.

"Arrivo." Le dico, aprendo il frigorifero e staccando due fogliette verdi. In salotto Honey, la cavia del mio coinquilino - ma in pratica mia - arriccia il muso alla ricerca di qualcosa che non sia il suo solito mangime secco. Bianca e miele, Honey è la creatura più dolce che io abbia mai conosciuto, ma è molto rigida per quanto riguarda il cibo.

"Ecco qui, bella."

Apro il portellino della sua gabbia e le sistemo l'insalata sul lettino di fieno che usa come tavola da pranzo. Lei emette uno squittio, fa un giro su se stessa e si precipita a fare colazione. La osservo per qualche secondo mentre mangiucchia soddisfatta, ripenso alla festa, sospiro di nuovo.

"Se solo potesse portare te, Honey." Le dico e lei alza il musetto e mi fissa con i suoi occhietti neri e vivaci. C'è qualcosa di sornione in quelle due minuscole e vivaci capocchie di spillo.

In quel momento la sveglia nella mia stanza inizia a emettere il solito bip delle sette.

La mia giornata è ufficialmente iniziata. 

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