Cap. 23
Un nuovo anno mi ha accolta tra le sue braccia. L'aria gelida di gennaio cerca di graffiarmi il viso, tra i vicoli solitari e anonimi anch'essi troppo infreddoliti, mentre accompagno una vecchia amica; mi stringo nel mio piumino, con lei che si appoggia a me per un riparo: un sostegno.
Passi lenti ad aiutarla per strada, come quando si insegna ai bambini a mettere un piede avanti all'altro.
Ancorata al mio braccio, si lascia guidare da chi è divenuta di colpo più alta di lei. Nessun problema fisico, nulla che le impedisca di poter correre, anziché farsi quasi trascinare tra la gente.
L'imponente palazzo dalla facciata antica, con il suo grande portone in legno scuro intarsiato da intricati motivi; è ciò che stiamo osservando insieme, in questo tardo pomeriggio.
Lo studio del dottor Martini, al quinto piano, ci attende.
Sala d'attesa vuota e asettica, è il nostro riparo da quasi trenta minuti.
La segretaria blatera in sottofondo, rispondendo alle chiamate di pazienti o possibili tali.
Mi giro a guardare mia madre con un mezzo sorriso di incoraggiamento, mentre i suoi occhi vagano tra la stanza; la sua prima volta nello studio di un neuropsichiatra, le impallidisce il volto già smunto dalla perdita di peso.
L'insistenza e le raccomandazioni di un'amica, sono il motivo della nostra visita qui, oggi.
La telefonata che ha avuto il coraggio di fare, è l'ammissione alla sua ricerca di aiuto; ed io con lei, a darle il sostegno fisico e il supporto morale che le occorre.
Un tizio in camice bianco richiama la nostra attenzione, presumo sia il dottor Martini. Scatto in piedi per aiutarla ad attraversare il corridoio, e la mano di mia madre mi blocca rimettendomi al mio posto.
"Non occorre che entri, faccio subito."
Mi risiedo e zittisco all'istante, vorrei poter entrare con lei, per sapere, forse. Per ascoltare dalla sua bocca qual è il motivo che l'ha ridotta a poco più di quarant'anni, a varcare la soglia di uno strizzacervelli.
E mi rendo conto che in cuor mio non ho bisogno di sapere, già conosco; ne sono già a conoscenza seppur in maniera inconscia, del perché siamo qui, ora. Come sono certa del per chi, si è ridotta così; e in fondo lo sa anche lei. Anche lei conosce il motivo per il quale non riesce più a fare mezzo metro per strada se non accompagnata.
La causa del perchè non scende più di casa, se non per andarsi a rinchiudere in fabbrica a sgobbare, perché proprio non possiamo farne a meno.
Lei conosce, sa; e forse siamo qui per dar voce ai dubbi che le si sono insinuati dentro.
Deve aver notato da sola, il viso cereo che ha sostituito il suo naturale colorito.
Gli occhi spenti cerchiati di grigio, e l'aspetto sciatto che le fanno notare le persone che la conoscono da una vita.
La vita che aveva, quella che viveva, prima che il parassita che ha sposato le risucchiasse anche l'ultimo sorriso.
Aspetto, intanto; e aspettare non è proprio il mio forte. Oramai è diventata una costante, per me: aspetto, aspetto sempre, aspetto un cambiamento, la svolta che ci faccia smettere di stare inermi e cominci a farci andare avanti.
Ho atteso invano, finora. Anche adesso, attendo chissà per cosa, che mia madre esca da quel dannatissimo studio, continuando a strofinarmi i palmi sudati sulle ginocchia.
Attendo che il dottore da duecento mila lire a visita, sappia dirmi quale problema in più abbiamo; che non sia uno dei tanti avvoltoi che cercano di far salire il proprio conto in banca sulle paure e sui disagi degli altri.
Dopo ormai quasi un'ora che è dentro, la vedo stringere la mano del medico per congedarsi. Scatto subito per andare incontro a quel fagotto da quaranta chili che si perde tra i vestiti che indossa.
Una lunga lista scritta in una grafia illeggibile, è stretta nella sua mano, con la parcella pagata alla segreteria, e la mia espressione che deve aver formato un punto interrogativo grande quanto la mia testa.
Non chiedo, non spingo per sapere cosa ci sia che non va. La riprendo sotto braccio per ritornare da dove siamo venute, con una settimana del suo stipendio in meno.
La sorreggo fino alla fine della grande scalinata, nella muta speranza che vada tutto bene. E il silenzio interrotto dalla sua debole voce, mi dice: "è depressione, questo è il motivo per cui ho costantemente paura di morire, se esco di casa".
Un debole sorriso incurva le sue labbra, ma non un sorriso qualunque, questo è il suo modo per dirmi che è malata; mentalmente malata.
L'invalidità fisica che le impedisce quasi di camminare, diventa niente, in confronto.
"Ma allora è per questo che non dormi più?", le chiedo timorosa. E so che lei, in testa, ha mille mostri ad impaurirla senza sapere come fare per non vederli. Guarda fisso dritto avanti a lei, dandomi la risposta anche restando muta. E la mia attesa, stavolta, è ripagata dal sapere che il male di mia madre, non è solo nel cuore, ma anche nella sua mente.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro