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Cap.17

Persone. Persone di ogni dove; un ammasso di gente condivide con me il vagone del metrò.
Il vagone che si svuota e si riempie ad ogni fermata come fosse polmone d'acciaio alimentato ad anime.

Vite che si incrociano in un breve attimo su delle fredde rotaie.
Vite di persone che vivono sotto lo stesso cielo, che si incontrano un giorno per non rivedersi forse mai più domani.

Ognuno coi suoi sogni.
Ognuno coi suoi problemi.
Ognuno nel proprio mondo.
Tra tutta questa gente mi ritrovo io oggi, che seppur nel mio mondo, riesco a percepire tutti i più piccoli particolari che mi circondano: un lavoratore stanco con i suoi abiti sporchi ritorna da lavoro. La donna incinta alla mia destra tocca protettiva la vita che le cresce dentro.
Un ragazzo di colore cede il posto alla vecchietta con le buste della spesa.
Al suo fianco, una ragazzina con le cuffiette si fissa i piedi persa nella sua musica. Il mio walkman che freme nella tasca posteriore dei jeans, a quella vista.

Quattro fermate e il conto di anime che non ho portato dopo, e arriva il momento di cedere il posto a nuovi passeggeri; con altri sogni, altri problemi, altri mondi.

Le porte si chiudono, il metrò riparte, e respiro il tipico odore di ogni metropolitana che si rispetti: per me pneumatici. Pneumatici con un pizzico di libertà.

Il cielo terso di poche ore fa si scontra con poche nuvole, troppo poche per farmi tornare indietro. Di sicuro mi accompagneranno fino alla spiaggia e continueranno il loro tragitto, mentre io resto dove ho scelto di stare.

Il bagnasciuga deserto non mi sorprende: un inizio novembre la sua desolazione.
Le Converse rosse che mi hanno guidata fin qui nella mia mano, in questo momento, mentre affondo i piedi nudi tra la sabbia umida.

A piedi nudi, sempre a piedi nudi, anche in casa. A piedi nudi a ricordare un percorso tutto da sentire. Il mio vivere questa vita, e sentire tutto ciò che in maniera impercettibile ne fa parte; il freddo delle superfici, la durezza che calpesto, i pezzi di vetro che non si vedono, ma che si conficcano nella carne, nella mia carne. Su quel percorso dove di vetri rotti non dovrebbero esistere. Quelli che puoi trovare per strada ad ogni angolo, gli stessi che trovo in quella casa allo sbando.
Vetri invisibili cosparsi ad ogni mio passo e la deviazione che non riesco a fare centrandoli tutti in pieno.
Le ferite che mi lasciano zoppicante ed io, che zoppicando mi ostino a restare ancora in piedi.

E la morbidezza invece che sento adesso nel cammino lento verso il mare.
Una barca capovolta è il mio riparo, la distesa di sabbia un letto tutto personale.
Le dita che armeggiano tra i fili dei miei silenzi e quelli delle cuffiette.
Il tasto play a darmi la mia dose di pace, in questo momento; sottofondo perfetto ad uno scenario altrettanto perfetto.

Il mare all'orizzonte e le sue piccole onde che a riva giocano a rincorrersi.
Il Sole che tra una nuvola e l'altra illumina di centomila brillanti la sabbia.
Le mie mani sono la clessidra di ogni piccolo granello a scivolare tra le dita.
La brezza di un vento di inizio novembre scompiglia i lunghi capelli ad ogni suo soffio. La giusta decisione di lasciarli liberi, liberi come il vento.

Gli scogli non molto lontani ospitano un uomo e la sua canna da pesca.
Il pianto di un bambino si disperde nell'aria mentre guarda volare via il suo palloncino all'elio; occhi che lo seguono e accompagnano la rincorsa libera verso il Sole.

Le panchine sul lungomare accolgono coppie innamorate e le loro storie, i loro amori. L'amore che non ho ancora provato: la storia, la mia storia; non ancora vissuta, non ancora scritta, forse.
La giusta ricompensa per me che di amore non ne conosco la forma.
Nessuno che mi abbia insegnato. La mia totale ignoranza verso un sentimento sconosciuto e l'inadeguatezza che sento, mentre con attenzione sbircio l'amore degli altri.

E poi il chiedere, il mio continuo chiedere. Le mie tante domande sono il quiz emotivo a cui non ho ancora partecipato, a cui non ho mai preso parte.
Diversi tipi di amore da guardare, oggi: le lacrime di un bambino asciugate dal padre che sarebbe volato dietro a un palloncino, solo per non veder piangere suo figlio.
Poche panchine di distanza, mani che accarezzano capelli; braccia che accolgono un corpo a cui ci si sente appartenere, labbra che pronunciano parole all'orecchio con risate calde in risposta, bocche che cercano di dire dove parole e abbracci non sono riusciti forse ad esprimere tutto.

E ancora io, che tra questi due tipi di amore lascio rimbalzare lo sguardo.
Solo spettatrice, solo domande, niente risposte, nessuna pratica.
Solo io, un corpo, tra la battaglia del Sole e del mare: uno che cerca di asciugare ogni piccolo granello. L'altro che dispettoso cerca di bagnarli.


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