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Cap. 14

Scena rivista un migliaio di volte: sempre uguale, la solita.
Il tavolo in cucina che ospita il corpo di mia madre, sulla stessa sedia che uso di notte per ascoltare la mia musica.

Il posacenere stracolmo di sigarette spente; una nuova fiamma accesa tra le dita di lei, il resto di un'altra tra le dita di lui.
Il fumo che impregna l'aria: nicotina e tabacco il male minore, in questa stanza.

La mia presenza diviene assenza per chi non si è nemmeno reso conto di me, che sono qui ad assistere.
Senza respirare.
Senza assumere colore. Proprio come il fumo, mi mimetizzo al resto della stanza, in attesa; di capire, di essere vista, di essere udita.

Il richiamo delle scale dietro la porta alle mie spalle, si fa insistente.
La voglia di ripercorrerle al contrario mi cresce dentro. Con i passi che non accennano iniziative, mentre il senso di protezione mi salta addosso, alimentando il desiderio di non essere vista.

E poi gli occhi di mia madre mi centrano in pieno.
La richiesta di conforto nei suoi, il senso di protezione nei miei.
Il mio calamitare verso il suo bisogno, a fare da satellite alle debolezze e alla disperazione che la marchia da che ho memoria.

La voglia di scappare va farsi benedire, mentre i passi che ho sperato mi portassero fuori da qui, mi conducono al centro della stanza. Al suo fianco, di fronte all'avversario comune in questo momento: mio padre.

Eccolo, lui, tra una boccata e l'altra aspira la sua sigaretta. Aspirando anche la vita di chi condivide con lui tutto questo.

Il suo non accorgersi di ciò, il capirlo, forse. Il non riuscire a fermarsi. E noi a diventare una delle sue tante cicche sparse in un posacenere qualunque.

"Eccoti finalmente, alla buonora!", mi dice.
"Potresti far ragionare tu quest'isterica di tua madre?", la sua derisione verso chi è ridotta così a causa sua mi rimbomba nelle orecchie.

"Mi servono soldi, ma non me ne vuole dare.", il centro di tutto il suo mondo a sbattermi contro per l'ennesima volta.

I soldi, sempre e solo quelli.
"Ti ho detto che non ne ho", la risposta di lei.
Il viso di lui a contorcersi in una smorfia di disgusto.

Il corpo di mia madre curvo sulla sedia, sotto gli occhi di disprezzo dell'uomo che ha sposato.
È l'amore di lei a ridurla così, e ancora l'egoismo di lui a schiacciarla. Ancora e ancora.
Ed io che non riconosco altro modo di vederli se non in questo stato.

Il viso di mia madre che non conosco più, o forse non lo ricordo in altro modo se non in questo.
L'aspetto sciatto di chi non ha nemmeno la forza di guardarsi allo specchio, o forse è lei che lo evita per non vedere come si è ridotta.

Iniziano a volare parole pesanti, più pesanti delle promesse scambiate vent'anni prima davanti a Dio.
Il rispetto che non c'è più diventa colonna sonora alla loro storia.
Il rispetto che non so se vi sia mai stato.
L'odio colma gli occhi di lui, mentre lei lo raccoglie e se lo spalma sull'anima, lasciandosi consumare sempre di più.

Una manciata di secondi bastano per scatenare l'inferno. Mi ritrovo al centro di una rissa anche stavolta.
A cercare di ferirsi con le mani dove le parole non sono riuscite ancora a farlo abbastanza.

Nessun aiuto arriva, nessun volto familiare. Ci sono solo io con la speranza di non farli ammazzare.
E la musica che in questo momento desidero più di ogni altra cosa, non giunge a soccorrermi.
Il non voler sentire mi viene negato.
Pregare la smettano è un miracolo che non arriva: giusto castigo per me che in fondo non credo a nulla, nemmeno a Dio.

E continuo a sperare che arrivi chiunque tranne Luca. Perchè non riesce ad assistere inerme. Perché ricordo tutte le volte che ha preso il posto di mamma nelle sue battaglie.
E ancora il rispetto, quello tra padre e figlio, perduto chissà dove.

La porta che sbatte violentemente.
La mia riuscita nel sedare la lite a sollevarmi non poco.
Parole imprecate da mio padre mentre percorre le stesse scale che avrei voluto percorrere io.

Con mamma che trema, non per rabbia, non per freddo, ma per paura: paura di lui, paura per me, paura per l'arrivo di Luca.

Le mie spalle si afflosciano sotto il peso di ciò che è accaduto.
Il rilassamento muscolare prende il posto dell'adrenalina provata fin'ora.
Schiena al muro per una lenta discesa giù sulle ginocchia, e la stanchezza emotiva che mi invade.

La testa china è la mia chiusura.
Verso loro.
Verso me.
Verso chi sono riuscita ad essere fino a poche ore fa.
E poi la realtà, la mia, ad accogliermi sempre qui. Come ora.

Il mio inutile cercare di fuggire da dove sono, solo per essere trascinata indietro ancora a ancora.
Sempre qui.
Sempre io.
Sempre loro.
Sempre e solo desideri delusi misti a continue illusioni.

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