Cap. 13
Porta chiusa alle spalle per definire il confine di me stessa.
Dita che stringono una ringhiera fredda mentre mi sostiene ad avanzare, e passi che percorrono scale nuove a portarmi in questa casa sconosciuta. Il sudore imperla la fronte, insieme al battito del cuore accelerato che per fortuna solo io riesco a sentire.
E poi il profumo, quello di pulito, che rende più vivido tutto questo.
Il profumo privo da contaminazioni; da tabacco, da parole, da negativo, da prigionia emotiva.
Il profumo che non si respira mai in casa mia.
Sara mi guida cauta per le stanze, a fare da Cicerone mentre mi illustra i vari ambienti. Io che la seguo timida e curiosa da brava turista.
Il Sole, che in questo posto entra dappertutto, dona aria e luce naturale da ogni dove, qui; tutto in netto contrasto da dove vengo io.
La luce in casa mia entra ben poco, il sole è offuscato dall'ombra dei palazzi di fronte, così da mimetizzare anche le ombre di chi vive all'interno.
Il cielo azzurro che tanto caratterizza questa città muore dietro costruzioni di cemento, mentre c'è chi ci vive sotto l'azzurro di questo cielo, e muore un po' di più dentro.
L'azzurro perde la lotta contro il grigio; il grigio dei palazzi, delle mura, delle ombre, degli animi.
Forse è per questo che amo il cielo quand'è carico di pioggia: rispecchia al meglio da dove vengo, dove vivo, come mi sento, chi sono.
Le foto appese alle pareti ritraggono la famiglia felice che vi abita.
Sorrisi sinceri mostrati un giorno, a ricordare momenti sereni in futuro.
La fierezza si mostra sui volti ritratti di chi, in quel momento, ha avuto la certezza che un domani sarebbero stati bei ricordi.
Cornici ovunque, immortalano emozioni che non conosco; cornici che in casa mia non esistono.
Nessun sorriso sincero, nessuna famiglia felice, nessun ricordo da poter tenere sott'occhio o da voler mostrare agli altri, lì dentro.
Solo pareti, di colori che io non riesco a vedere. Per me solo grigio, grigio ovunque.
Dal cielo.
Dai muri.
Dalle ombre.
Dal fumo di sigarette.
E il mio ricadere, il mio cedere, il mio cercare sempre e comunque un po' di mio nella vita di altri e non riuscire a trovarlo. E ripeterlo ancora e ancora, fare la conta delle differenze e uscirne sempre perdente.
E ancora io, e rifarlo ancora, lo stesso sbaglio, la solita illusione, e lasciarmi trascinare nei miei posti bui anche in piena luce.
La voce di Sara che si è persa in qualche spazio tra il mio inconscio e le mura di casa sua, mi riportano qui, dov'ero cinque minuti fa.
Allontano i pensieri pari a metastasi per non lasciarmi soccombere, e poi ricordo cosa ci faccio qui, riuscendo a ridestarmi. Vincendo così la battaglia tra il dove sono stata, sono e sarò.
E non so chi l'ha vinta per davvero; se Josephine o Nina. Magari l'avrà vinta l'attrice che in questo momento segue Sara in cucina.
Ore passate leggere, da allora. Sono riuscita a non tornare più nel mio posticino buio, e ho scoperto che riesco a ridere, qualche volta; risate vere, da avere i crampi allo stomaco.
Mi accorgo che in tutto questo tempo non abbiamo aperto un libro, io e Sara. E non mi sento affatto in colpa per questo, perché né io, né Sara, abbiamo problemi con lo studio.
"Forse è meglio se vada", dico tra una risata e l'altra. Sara acconsente guardando l'ora.
"Ma ti rendi conto che dovevamo studiare e non abbiamo toccato un libro?", mi dice continuando a ridere.
"Ci rifaremo la prossima volta", mi sorprende così con un altro invito.
Mi accompagna alla porta salutandomi con un "ci vediamo domani a scuola, allora", io che mi congedo con un "sicuro!".
Sorrisi spontanei mi incurvano le labbra mentre passeggio lentamente fino a casa, stasera.
Niente testa bassa, solo passi lenti e il ricordo delle ore trascorse in totale serenità.
Non ho nessuna fretta di arrivare a destinazione. Mi sento diversa, stasera, è un'altra me che suona al portone del civico settantadue.
Ha l'animo più leggero, chi sale queste scale, tanto leggero che quasi non si accorge delle voci troppo alte che giungono da casa mia.
Ecco il conto per aver passato qualche ora via da qui. La porta davanti a me, è il muro che non voglio scavalcare.
Le mani nelle tasche si rifiutano di bussare.
Le scale dietro di me, il richiamo a ripercorrerle in senso inverso.
Il cambio di scena da fare, imminente, quando il suono del campanello arriva, senza capire chi sia stato a farlo; se io "Nina", o l'altra me "Josephine".
Passi mi vengono in contro dalla parte opposta, mentre le due parti di me guardano le scale in conflitto un'ultima volta. Un misto tra nostalgia e realtà: la prima per dove ero, la seconda per dove mi trovo e non vorrei essere.
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