Cap. 11
Il sottile strato divisorio che viene attraversato da tanti piccolissimi fiumi che scivolano l'uno su l'altro.
Acqua che si rincorre sulla superficie che sto fissando.
E fuori, fuori da qui, da questo posto, il cielo triste che tanto amo a farmi compagnia.
E i miei occhi che guardano gocce sulla finestra alla mia sinistra, che creano rampicanti capovolti.
E il mio sguardo perso a non prestare attenzione alla lezione.
E la penna che tra le mani continua a scrivere il mio nome a ripetizione, su un foglio una volta bianco, e adesso riempito da tanti "Josephine" all'infinito.
Ho letto da qualche parte che è sintomo inconscio di ricerca della propria personalità, scriverlo senza motivo e in modo ossessivo.
E chissà perché, non mi meraviglia affatto, ciò.
La pioggia che scende copiosa sulla città, stamattina, mi dà voglia di farmi baciare dal suo freddo toccare, con la speranza che tra qualche ora il cielo non abbia terminato di già tutto il suo pianto, e mi aspetti.
E ritorno a questo banco, a quest'aula e alle persone che con me la condividono, con gli occhi di Sara in seconda fila che mi fissano. Mentre i miei li rifuggono come possono.
Rialzo lo sguardo nella speranza l'abbia distolto, e mi stupisco di trovarla ancora lì che mi fissa e sorride. Chiedendomi cosa ci trovi di tanto divertente in me.
Il non riuscire a ricambiare un sorriso, mi fa pensare che aiuterebbe proprio, in questo periodo, una distrazione al mio solito vivere.
La curiosità viene accantonata dal tentativo di ascoltare la spiegazione alla cattedra.
Il professore sta raccontando la vita di non so quale poeta, mentre fino a cinque minuti fa ero mentalmente fuori dalla finestra, con il corpo incastrato tra il banco, la sedia, e tre file di persone a dividermi dalla porta d'uscita.
E seguire la lezione oggi è diventata un'impresa. Non ho appreso nulla; tanto vale fingere interesse.
Così ritorno ai miei pensieri, e al voler escogitare un modo per uscire da me stessa. Con l'unico risultato ovvio, che mi riduce ad avere una vita sociale che non possiedo. E il "prima o poi", a diventare da possibilità un dilemma.
Il pericolo di mostrarmi, a cui penso costantemente, con il poter scegliere, ad un palmo dal naso. Posso, anzi, devo, far uscire quella che vorrei e non quella che sono.
E volano così anche le ultime ore di lezione. Testa infilata tra sedia e zaino a raccogliere dal banco solo un libro che ho finto di leggere, un foglio pieno zeppo di Josephine, e la penna che ho dissanguato su quel bianco immacolato.
Una voce che mi coglie impreparata pronuncia il mio nome. Mi giro per scoprire che appartiene a Sara, col suo incedere verso di me a passo cauto. La giusta ricompensa per la poca disponibilità che ispiro negli altri, coi miei atteggiamenti.
Timorosa di iniziare una conversazione con chi la guarda come se avesse due teste.
"Ti andrebbe di studiare insieme, uno di questi giorni?", mi spiazza del tutto.
Il mio pensarci troppo le forma un'espressione di difficoltà sul viso.
Un "ok", spazza via l'ultimo granello di sanità mentale che mi ritrovo. E penso a cosa diamine mi sia passato per la testa di accettare, a rimbombarmi nelle orecchie.
L'ansia che mi ricorda la parte da recitare. Fingere indifferenza in casa, l'ho imparato ad usare bene, per darmi sostegno.
Ma fuori? Non ho mai sperimentato come potrei essere fuori di lì.
La speranza di riuscire divide a metà me stessa.
Non voglio, non posso. La vera Josephine non deve uscire quando sono con gli altri.
Sarà un clone al positivo, quello che vedranno.
"Da me o da te?", mi chiede lei. Ed ecco il problema: nel mio habitat non deve entrarci, in quel posto i problemi sono l'ombra di chi vi abita. Le pareti urlano liti mai finite, assorbono il negativo, quelle mura. Si sente odore di malessere, in quegli spazi.
Devo trovare il modo di deviare la destinazione studio, ma non so come.
La parola chiave è fingere. Se fingo chi non sono, posso benissimo fingere un intoppo inesistente.
"Da me non si può, non ho il permesso quando sono tutti al lavoro e non c'è nessuno", e la farsa ha inizio.
Potrei eccome invitare qualcuno, ma quando è vuota la voglio tutta per me; isolata come me.
"D'accordo, facciamo da me, allora", sorride lei. E quasi mi sento in colpa.
Ma non voglio, non posso.
Non può avvicinarsi troppo, non accetterei mai gli occhi di pietà di nessuno, figuriamoci di un'estranea.
E il timore inizia a bussare al cuore con le sue solite domande: E se la realtà di un'altra casa mi desse ancor più dolore?
E se mi ritrovassi faccia a faccia con una vita perfetta che non ho, e che forse dopotutto non potrò mai avere?
Il coraggio sorpassa il dolore con un "Intesi, allora!"
Magari mi farà bene.
Magari mi aiuterà.
Magari non mi affonderà il cuore nel petto ancora un po'.
Magari la finta serenità che mostrerò, si rifletterà su di me in positivo.
Dopotutto, magari...
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