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37.Martenitza

Sofia, marzo 2010

Vento. Primavera. Vita.

Yordanka inspirò a pieni polmoni il profumo della vegetazione, che sembrava insinuarsi tra le narici dei presenti quasi volesse convincerli a sbocciare insieme ai fiori; non restava altro da fare che abbandonarvisi ed eseguire ciò che la natura ordinava loro, fino alla meta.

Non facevano spesso quel genere di uscite di famiglia, e Yordanka si chiese perché. Forse erano tutti troppo presi dai propri pensieri e dalle rispettive preoccupazioni. O magari era perché passavano la maggior parte del tempo assieme all'Ephia, tanto da rischiare di iniziare a reputarsi scontati.

Yordanka, invece, non avrebbe mai commesso quell'errore. L'aveva pagato caro troppe volte.

Quel giorno non riusciva proprio a levarsi quel sorriso radioso dal viso, nonostante Cicio Vasko l'avesse sbeffeggiata amichevolmente già almeno tre volte.

«Che hai, uno spillino nel palato che ti tira in su le guance?» chiese anche in quel momento, affiancandosi a lei nella spaziosa strada che serpeggiava a lieve pendenza verso le basi del rilievo montuoso.

Yordanka rise. No, nessuno spillino; solo la primavera e la gioia di vivere. Non le era mai servito altro, e non aveva mai desiderato nulla di più. Potevano sembrare cose semplici, e invece le erano state negate per tanto di quel tempo, e in così numerose occasioni, che raramente si trovava a sorridere come in quel momento, e forse per questo Cicio Vasko lo reputava un evento tanto bizzarro.

«Semplicemente mi sto godendo il momento» rispose, chiudendo gli occhi per prendere un altro respiro profondo.

La città si stendeva come un oceano di cianfrusaglie accatastate tra loro e nascoste dalla nebbia che a bassa quota era più lieve, per disperdersi in quadrilateri colorati, e infine fondere il verde che si tuffava nel blu, miscelandosi con esso fino a rendere indistinguibili tra loro terra e cielo. Conosceva la sua casa meglio delle sue stesse tasche, non aveva bisogno di schiudere le palpebre per vedere Sofia.

Non era tuttavia la città a farla sentire a casa, e non era mai stata nemmeno l'Ephia; il vulcano poteva anche eruttare e ridurre in lava incandescente e macerie di pietra l'intero panorama che si estendeva ai suoi piedi, ma finché i suoi figli fossero stati sani e salvi, e soprattutto felici, avrebbe avuto un motivo valido a sufficienza per sorridere e considerarsi viva.

Chissà perché non se ne era mai resa conto prima.

«È un paesaggio stupendo, non mi stancherò mai di guardarlo!» commentò, da dietro, la voce briosa di Li Wen, che si fuse con il tepore lieve, ma intenso, dei raggi di sole che riuscivano a scavarsi un'uscita tra le nuvole e raggiungere i loro capi.

Voltandosi, scoprì che pure lei e Georgi si erano fermati a osservare la vista panoramica da quel punto. Anche il passeggino in cui era sprofondata Na Mei era rivolto al pendio in discesa, ma la piccola, nata da appena tre settimane, sembrava più interessata a fissare ammaliata una piccola foglia verde che era caduta per caso sul suo pancino. Yordanka, come in una reazione a catena, si incantò a osservare la sua nipotina concentrata e rilassata come non l'aveva mai vista. Ancora faticava a realizzare appieno il fatto di essere diventata nonna, condizione che però non faceva che accrescere ulteriormente il suo istinto materno.

«Incredibile come si calma quando è all'aria aperta» commentò Georgi, notata la direzione del suo sguardo, chinandosi ad accarezzare con delicatezza le poche e setose ciocche che spuntavano come erba appena nata sul capo della piccola.

Georgi e Li Wen si stavano dimostrando dei genitori davvero esemplari, solo che... quella bambina non era affatto facile da gestire; piangeva tutta la notte e la sua voce sapeva raggiungere certi acuti che mai ci si sarebbe aspettati da un corpicino così minuto, tondo come un batuffolo. Trascorsa la prima settimana, avevano notato che a tranquillizzarla non era né il cullo dei genitori né, ahimè, il suo.

Persino l'allattamento della madre non sortiva effetti duraturi. Il punto era che finché aveva un tetto sopra la testa, o era circondata da mura, non sembrava sentirsi in pace. Da quando l'avevano scoperto si erano trovati a dover passare a turno la notte sulla terrazza di casa loro, ma era stato solo dopo la prima passeggiata nel parco dell'Ephia che, circondata dal verde, Na Mei aveva allargato sul viso il suo primo ampio sorriso.

Quel giorno, d'altro canto, stava vivendo la sua prima vera uscita dall'Ephia, e non aveva emesso una sola lamentela da quando si erano lasciati alle spalle il pavimento acciottolato e gli imponenti edifici, accalorandoli invece addirittura con ridacchi e versi di giubilo in più occasioni.

«È una bambina davvero speciale» rispose Yordanka, prima di portarsi una mano al ventre.

«Tutto bene, mamma? Sicura che sia una buona idea camminare così tanto? Forse dovremmo tornare indietro e...»

«No, no, era solo un calcetto, tranquillo.» Nonostante fosse ormai nonna, si trovava a essere ancora una volta in dolce attesa. Ormai ci era talmente abituata che per lei era una condizione di quasi normalità, come il ciclo; in alcuni anni sì e in altri no.

«Ho fatto anche ben di peggio quando ero incinta di te o di alcuni tuoi fratelli scapestrati, credimi. Anzi, questo piccoletto sembra anche più tranquillo di voi, non si fa sentire quasi mai.»

Un lampeggio preoccupato attraversò il viso del figlio. «Non come...»

«No, tranquillo, non ai livelli di Ilia.» La sua era stata la gravidanza più strana che avesse mai sopportato. Non avesse avuto le evidenti prove a dimostrarlo, certe volte si sarebbe quasi dimenticata di essere incinta, quasi anche nel grembo materno il piccolo avesse la tendenza a scomparire. La cosa strana era che inizialmente si era trattato di una gravidanza come tutte le altre... poi un giorno, all'improvviso, qualcosa era cambiato. Non se ne era resa conto dell'esatto momento in cui era accaduto, tuttavia a posteriori era giunta a quella conclusione, senza sapersi spiegare quella strana consapevolezza.

Adesso Ilia camminava pochi passi più avanti, e attraverso il suo corpicino minuto scorgeva ormai senza difficoltà i gemelli che scorrazzavano tra un ciottolo e l'altro. Più lo guardava e più si rendeva conto della sua somiglianza sempre più significativa a un fantasma, pensiero che era sufficiente a contrarle il cuore in una morsa lancinante. Sentiva che il suo tempo era agli sgoccioli e non poteva sopportare di...

Si costrinse a distogliere lo sguardo. Quel giorno non voleva scivolare in pensieri cupi e opprimenti. Quel giorno voleva solo godersi la rinascita della natura e salutare definitivamente Baba Marta.

Riprese a incamminarsi seguendo gli altri figli. A breve distanza da Ilia, con il quale chiacchieravano soavemente ridendo per una cosa che Cicio Vasko aveva detto poco prima, passeggiavano con leggerezza Kiril e Irina, sui quali Yordanka soffermò gli occhi luccicanti di materna fierezza.

I due Adelphi erano una meraviglia ambulante, bellissimi anche solo da ammirare; emanavano una sorta di completezza e serenità che non sapeva spiegare, forse derivata dal fatto che in principio li avesse conosciuti entrambi quando ancora non si erano trovati e dunque erano dispersi nella loro confusa incomprensione del mondo circostante.

Essendo di spalle non poteva distinguerne le espressioni facciali, ma era sicura che anche Irina, nonostante non fosse solita esporsi troppo con sbilanciamenti espressivi, si sentisse a suo agio in quel momento. Dopo l'esperienza di Karlovo e dopo essersi legata a Kiril, inoltre, pareva aver maturato una sorta di affetto da sorella maggiore nei confronti di Ilia.

Ormai, Yordanka si era resa conto di considerarla come la figlia che non aveva mai avuto, anche se doveva ammettere che all'inizio non era stato affatto facile abituarsi all'idea. Soprattutto dopo aver scoperto la verità sul suo conto e aver cancellato con una sola spietata manata la persona che aveva creduto di conoscere per sostituirla con il suo peggiore incubo. Essersi resa conto di aver permesso ancora una volta di venire ingannata con tanta facilità non era stata una ferita facile da rimarginare, e non poteva fare a meno di provare una sorta di risentimento nei suoi confronti, mitigato però da tutto ciò che in seguito Irina aveva fatto per loro e dalla splendida persona che si era dimostrata d'essere.

Era una forza della natura. Nonostante fosse il frutto di una delle peggiori famiglie Umanenti in assoluto, e in particolare figlia diretta del mostro di più inoppugnabile ripugnanza mai esistito, era riuscita in qualche modo ad andare contro la sua stessa natura, e, insieme a Kiril, a salvare tutti loro. Certo, da un problema da lei stessa creato, ma questo non importava.

Dopodiché, a seguito delle sue testimonianze dirette, si erano svolti diversi processi relativi alla conduzione della prigione di Gamsutl, ora in mano Long, e al modo in cui erano stati cresciuti i figli di Maksim. Mai tanto quanto in quei giorni Yordanka aveva desiderato così intensamente che Sasho fosse al suo fianco per assistere allo sfacelo del luogo in cui aveva tanto sofferto e amato in gioventù. E, soprattutto, per vedere finalmente compiuto quel legame più unico che raro tra un Grigorov e un Razumov.

Persino le manipolazioni di Maksim, questa volta, non avevano sortito effetto. La giusta compensazione per ciò che avevano passato, le vite rovesciate e ribaltate da tutti quei Vortici, finalmente si rimettevano al loro posto; la Maledizione tornava a essere una Benedizione e il cerchio, infine, si chiudeva con un sorriso invece che con una lacrima.

«Ancora lì siete? Haide¹, quanto siete lenti!»

La voce di Goran, che li aveva raggiunti con un'amplificazione dal fondo della strada, la tirò via dai pensieri che l'avevano risucchiata, facendole perdere il contatto con il mondo circostante. I gemellini schizzarono a correre, subito inseguiti da Filip e da un più claudicante Nikola sorvegliato da Todor, e anche Anička accelerò il passo.

Un altro paio di svolte del sentiero, e stormi di alberi fioriti erano atterrati intorno a loro, distendendo con le loro ali il profumo che li aveva attirati lì come api in attesa di impollinare. La primavera. La respirava ovunque, ormai, le fioriva su ogni poro della pelle e sbocciava nei sorrisi dei suoi figli e nella serenità di cui era permeato quel momento così puro e semplice da farla quasi piangere.

«Visto, ve l'avevo detto che qui ne era pieno. Su, sbizzarritevi» commentò Ana, masticando una gomma con aria distratta. La quattordicenne aveva scoperto quel bellissimo giardino insieme ad alcune sue amiche con cui frequentava la scuola Letargiante, e, sapendo che molti di loro non avevano ancora trovato un albero fiorito a cui legare la propria martenitza nonostante fossero gli ultimi giorni di marzo, aveva avuto la stupenda idea di portarli lì.

«Avevi ragione Ance, davvero brava» la lusingò.

Lei rispose con delle spallucce, fingendo di venire distratta da un sms sul telefono. Se ne stava sempre per conto proprio senza esporsi mai in bilanciamenti affettivi, ma Yordanka sapeva che, a modo suo, ci teneva a loro.

Raggiunse Goran, che al momento fingeva di badare ai gemelli, anche se la sua concentrazione era stata calamitata dai due Adelphi, ai quali continuava a scoccare rapide occhiate sfuggenti – in particolare a Irina. Tra lui e la ragazza si era instaurato uno strano rapporto, e supponeva fosse accaduto qualcosa di significativo tra loro a Karlovo, dove in effetti lei gli aveva salvato la vita. Da allora i due sembravano prima volersi avvicinare per poi allontanarsi ogni volta, quasi avessero paura, a turno, di scottarsi, in un tira e molla continuo che Yordanka non sapeva dove sarebbe andato a finire.

Non dubitava tuttavia, dell'affetto sincero che lei provava per suo figlio; da quel che le era stato detto, Irina faticava già a fare i conti con le emozioni più basilari, e quello che la attirava verso Goran le puzzava tanto di qualcosa di ben più complesso di semplice affetto o attrazione... comprensibile, dunque, che trovasse tante difficoltà ad approcciarsi a lui. Goran, d'altro canto, aveva sempre nascosto le sue insicurezze, ma questo non ne cancellava l'esistenza. Però Yordanka aveva notato che, da quando Irina era entrata nelle loro vite, il suo piccolo dongiovanni mancato aveva smesso di provarci con altre ragazze...

La manina di un bambino le tirò una manica. Voltandosi, vide Filip osservarla con grandi occhioni lucidi imploranti, quelli che di solito preludevano le lacrime. Era sempre stato un gran piagnucolone, esattamente come lei da piccola. Non ci voleva nulla per farlo piangere.

Al momento protendeva le manine verso di lei, con i palmi aperti desiderosi di afferrare qualcosa di solido. «Ama... moje... i az iskam...²»

Si chinò alla sua altezza, notando subito la direzione verso cui il bimbetto di sei anni continuava a saettare con lo sguardo. Todor reggeva tra le braccia Nikola e insieme stavano legando una martenitza a un ramo fiorito. Yordanka non poté fare a meno di sorridere per quella bella scena familiare e pervasa di calore. In quel periodo, con suo marito non parlava affatto e dormivano anche in stanze separate, e stava valutando seriamente se fosse giunta l'ora di tagliare i ponti anche con lui. Tuttavia... era un padre decente, questo glielo concedeva.

Come marito, invece era pessimo. Si era pigliato il figlio di tre anni, dunque più facile da sollevare, appioppandole quei trenta chili di piagnucolii continui, pur sapendo che di lì a massimo due mesi avrebbe partorito e che la pancia le ostruiva un po' i movimenti. Almeno alcuni cebrim potevano aiutarla in quello, d'altro canto preferiva comunque evitare di correre il rischio.

«Vieni con me Fŭfcio» disse perciò, prendendo il figlio per mano. Lanciò un'ultima occhiata alla sua famiglia che si disperdeva nella radura fiorita, imprimendosi quella bellissima immagine di serenità nella mente, poi si inoltrò fuori dal sentiero, mentre le lacrime si estinguevano dal visino tondo del piccolo come neve esposta al sole.

«Questa è una tradizione molto importante, lo sai? Per questo devi scegliere l'albero migliore di tutti, così il tuo desiderio sarà il più puro e unico. È una cosa solo tua, perciò dimmi quale preferisci.»

Sul viso del figlio si aprì un ampio sorriso, nel quale si intravedeva una piccola finestrella al posto dell'incisivo sinistro. Yordanka se ne sentì inondata e travolta come da un'onda. Per un attimo le era parso di vedersi fuori dal suo corpo, e di scorgere Violeta al suo posto.

Filip aveva la stessa età di Liuben quando...

Non poteva crederci. Perché la venivano sempre a trovare quei pensieri, anche e soprattutto nei momenti più felici e che parevano allontanare tutto il dolore che aveva provato?

«Tutto bene, mamma?»

«Da, moe slŭncize» quella parola la usava spesso Silviya... «Va benissimo. Perché oggi tu sceglierai un albero stupendo, con cui ringraziare Baba Marta di questa bellissima giornata. Altrimenti rischia di arrabbiarsi, lo sai no? E quando si arrabbia... fa freddo.»

Yordanka mimò il gelo dell'inverno stringendosi nelle spalle, e facendo una faccia buffa per far ridere il bambino, con un tiepido risultato.

«È l'ultimo giorno di tempo che abbiamo. Se entro domani non restituiamo le nostre martenitze potrebbe infuriarsi. Vuoi davvero che lo faccia? Sembra tanto buona e simpatica, ma se si rompe questa tradizione, lei fa...» Emise un profondo soffio con espressione irata, «... così!» Prese a inseguire il figlio, con le mani protese in avanti minacciando di afferrarlo, a cui lui sfuggì con un risolino inoltrandosi nella boscaglia in un fuggi fuggi che, con grande fortuna del piccino che le cresceva in grembo, non si protrasse troppo a lungo, forse perché Filip stesso sapeva che non poteva muoversi troppo quando la pancia era così ingombrante.

«Questo!» scelse infatti subito dopo il bambino. Lei lo raggiunse in pochi passi, scoprendo che si trattava di un albero di cui alcuni rami scendevano fino alla sua altezza. Bravo piccolo. Yordanka l'aveva sempre saputo che era più intelligente di quanto mostrasse!

Inoltre, forse perché nascosto nella boscaglia e quindi isolato dagli altri, l'albero scelto era ancora totalmente privo di martenitzi, e questo significava che quell'anno Filip era stato il primo a trovarlo e sceglierlo. Era solo suo.

«Ma se Baba Marta fa andare via il freddo quando è felice, allora perché a casa c'era ancora tanta neve, mamo? Con noi è arrabbiata?» chiese Filip, mentre Yordanka lo aiutava a sfilarsi il suo piccolo braccialettino di fili intrecciati rossi e bianchi.

Un mesto sorriso le si disegnò, inconsapevole, sul viso. «Nessuno è arrabbiato con noi, Filip. E anche se lo fosse, noi ce ne freghiamo, nalì³?» Gli accarezzò con affetto alcuni ciuffetti che gli coprivano parte della fronte.

«Il vero motivo per cui da noi c'è ancora tanta neve è un altro. Vedi questa martenitza, Fŭfcio?»

Lui annuì, concentrato a fissarne le trame che lei aveva intrecciato nelle settimane precedenti al primo di marzo, realizzando quello e altri dei bracciali che si erano scambiati.

«Il bianco rappresenta la neve, e dunque l'inverno. Il rosso, invece, è un richiamo al calore, al sole che in primavera scioglie la neve, come quello che c'è in questo momento. Legati insieme, diventano una sola cosa, un solo grande rito di passaggio dal freddo al caldo, dall'inverno alla primavera, di cui marzo è il mese transitorio di passaggio, durante il quale gli umori altalenanti di Baba Marta si riversano su di noi con repentini cambi climatici da un giorno all'altro. Scendendo da Vitosha, dove ancora la neve ci faceva rabbrividire, e arrivando fino a qui, abbiamo compiuto noi stessi un rito di passaggio, non credi?»

Anche il sole, quasi a rispondere al richiamo di Baba Marta, si fece largo tra le nubi per manifestarsi nel pieno della sua vastità e investirli con un'ampia onda di calore.

«E ora tu lo porterai a termine» concluse con un sorriso, restituendo al figlio la martenitza che il piccolo aveva portato al polso durante quel mese. «Ed esprimere un desiderio speciale, che Baba Marta esaudirà, e che solo lei può conoscere... sarà un segreto solo tra voi, quindi non dirmelo, mi raccomando!»

Il bambino annuì vigorosamente, assumendo l'espressione più concentrata possibile, per far capire che aveva preso seriamente le sue parole e avrebbe fatto esattamente come diceva lei. Chiuse per un attimo gli occhi, attimo durante il quale Yordanka restò a fissarlo trovandosi a pensare che sì, i fiori erano stupendi e non si poteva evitare di rimanerne incantati, ma che nulla poteva superare la bellezza pura e semplice dei suoi bambini, dal primo all'ultimo.

«Fatto!» esclamò Filip non appena, tutto da solo, ebbe completato la procedura di legare con un nodo la martenitza al ramo scelto. «Tu, invece, mamma? Quale albero scegli?»

«Bella domanda.»

Yordanka si guardò intorno. C'era l'imbarazzo della scelta, un albero più bello dell'altro. Si pentì di non aver mai studiato un po' di botanica per saper dare dei nomi a quei fiori, dato che in quel campo – come in molti altri – era proprio impedita.

Il bambino nel grembo manifestò la sua presenza con una lieve contrazione, quasi volesse convincerla a desistere nel rimuginare troppo sulla sua scelta. Così smise di guardare lontano e tornò all'albero più vicino, proprio accanto a quello selezionato dal figlio. La scelta migliore era sempre quella di restare vicino alla propria famiglia. Perché erano tante creature individuali, ma parte di un insieme più vasto e profondo di quanto potesse sembrare in apparenza.

Le loro radici scavavano talmente in profondità che non potevano mai essere spezzate del tutto, nessuno poteva recidere il loro legame, per quanto in molti ci avessero provato. La terra era legata a loro e loro respiravano in essa, miglia e miglia nel sottosuolo, dove ancora si stagliava l'imponente albero della civiltà sommersa.

Non aveva importanza quale pianta avesse scelto; qualunque ramo, ogni fiore, fino al più insignificante filo d'erba, non erano che estensioni dello Jivonhir. Non si poteva estirpare la natura stessa.

Ne avevano passate davvero tante, decine di volte Yordanka aveva creduto che fosse giunta l'ora, e che lo Jivonhir non avrebbe più retto, dato che certe situazioni erano davvero sembrate senza punto di ritorno o soluzione. Invece, inspiegabilmente, ognuna di quelle volte si erano sollevati, anche se il terreno era arido e la neve era fredda. Con i loro tempi, non senza le rispettive fatiche, eppure ce l'avevano fatta.

Non tutti, ma alcuni sì. Quello che contava era l'insieme della loro famiglia. Il loro spirito – lo spirito di Grigor, lo spirito dello Jivonhir – non avrebbe mai potuto smettere di respirare vita, così come non si poteva impedire al sole di sorgere ogni mattina e l'immortale manto di stelle nel cielo non avrebbe mai potuto essere cancellato con un gesto della mano.

Si sfilò la martenitza, facendo un occhiolino a Filip, e tornando poi a guardare i fili rossi e bianchi intrecciati tra loro. Colori accesi e intensi, a marcare l'intensità di quel fondamentale passaggio. Se per tutti gli alberi le stagioni duravano quattro mesi, per il loro albero millenario i cambiamenti ciclici si svolgevano anche nel giro di anni. Quello che stava celebrando, mentre legava la martenitza a un ramo, non era semplicemente l'inizio di quella primavera, bensì l'accoglienza a una stagione di benessere e rinascita ben più lunga e duratura.

Prima di sigillare il nodo intorno al ramo, calò le palpebre sugli occhi facendo calare il mondo in un'oscurità intervallata da macchie rossastre in movimento, derivate dagli artigli della luce. Non aveva bisogno della vista per vedere.

Espresso il desiderio, riaprì gli occhi. Lentamente, con consapevolezza.

Sorrise. Una lacrima le solleticava una guancia. Mai prima di quel momento si era trovata a provare quel misto emozioni, che spaziavano da gioia pura e intensa alla più profonda delle melanconie, permeate tutte però dal sentimento più forte che conoscesse, l'unico su cui non doveva mai smettere di contare, lo stesso che le aveva permesso, non senza incrinamenti, di sopravvivere fino a quel momento: la speranza.

«Qual è il tuo desiderio?» chiese la vocina di Filip.

Yordanka ridacchiò con fare misterioso, prese il figlio per mano, e insieme presero a incamminarsi verso gli altri. In risposta allo sguardo curioso che proveniva dal figlio, si chinò a sussurrargli: «È un segreto tra me e Baba Marta, no? Ma chissà, forse un giorno lo scoprirai da solo».

Il bambino sbuffò. «Però posso dirti un'altra cosa» riprese subito lei. «Ho finalmente scelto il nome del piccolo che mi cresce qui dentro.» Indicò il proprio grembo.

Sarebbe stato l'ultimo. Il più piccolo di quella nuova generazione di Grigorov.

«Ovvero?» incalzò Filip.

Yordanka si asciugò una seconda lacrima prima che anche lui potesse vederla.

«Liuben. Si chiamerà Liuben.»

Non c'era altro nome che avrebbe potuto identificarlo meglio.

Perché lo Jivonhir non dimenticava, e soprattutto ricordava. Tutto.

E non erano che echi del passato, che si rimescolavano di continuo in un limbo senza fine. Non erano che rami dell'albero, rami che crollavano al suolo rigenerando le radici che sorreggevano l'intera famiglia. La primavera veniva dopo l'inverno ma veniva anche prima di un'ennesima stagione di gelo e morte.

Vorrei ricordare, era stato il suo desiderio. Ricordare tutto, a qualunque costo. Qualunque fosse stato il prezzo, era disposta a pagarlo; non poteva sopportare di dimenticare Ilia.

Desiderava ricordare anche qualcun altro.

Una Damnazione fallita, un ramo che aveva creduto perso, staccato e divelto per sempre. Lo Jivonhir, ancora una volta, si era dimostrato più forte.

Fioriva. Inspiegabilmente, nuovi colori sbocciavano tra le sue fronde affaticate e sofferte, e Yordanka si sentiva rinascere ancora con lui.

Per l'ultima primavera.


E così si conclude anche questo ultimo capitolo 😢 Non sto piangendo, mi è solo entrato un albero nell'occhio... NON MI ERO ACCORTA DI QUANTO ACCIDENTI MI ERO AFFEZIONATA A QUESTA STORIA 😭

Vabè, comunque spero che vi sia piaciuto il finale 💔💐
In fin dei conti, la terza parte è davvero stata tutto rose e fiori...

E in queste ultime frasi c'erano delle piccole anticipazioni di eventi del secondo volume di Cerebrum, pertanto vi consiglio di non considerare Jivonhir solo come uno spinoff a parte, perché moltissime parti verranno riprese nella saga principale. Riguardo alla Damnazione "fallita" Yordanka si riferisce al fatto che rivede Dimitar nei ricordi che Ilia evoca in lei, come aveva accennato anche Violeta, capitoli or sono. Quanto all'ultima primavera... vedrete.

Comunque, queste sono le martenitze:

E ora... l'ultimo Jivonhir genealogico! È in realtà leggermente più avanti del momento in cui siamo, come vedete dalla presenza del piccolo Liuben. È lo stesso che userò in Cerebrum, perché quando Liv e gli altri li conosceranno saranno così:

Bene, ora... passiamo all'epilogo. Ci tengo a precisare che è l'epilogo dell'intera storia, e non solo della Terza Parte, e non è quindi da considerare parte della porzione di storia in cui vi avevo promesso che non sarebbe morto nessuno.

*Fugge*

ꟻAᴎTAꙅilɘᴎA

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