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Sabato 24 febbraio 2001

Mi vestivo bene per andare alle cene dei tizi con cui mi costringeva ad avere a che fare il Turci. Che quasi non mi riconoscevo guardandomi allo specchio. Mi odiavo così, ero costretto in abiti che non mi piacevano, con modi che non mi piacevano, in luoghi che trasudavano ipocrisia. Eppure, nonostante quella puzza di umanità marcia, annusavo potenzialità.

Ero a una specie di cena aperitivo a fine febbraio, in una villa figa appena rientrata rispetto alla Appia Antica che il Turci in confronto viveva a Queensbridge. Mi avevano presentato, senza particolare enfasi, diverse persone, a cui avevo ovviamente portato i saluti del Turci stesso. "Almeno si mangia bene" avevo pensato, guardando i camerieri in livrea che portavano a spasso cabaret pieni di stuzzichini, quando mi avevano messo sotto il naso una ragazzina sui quindici, chiattarella, evidentemente annoiata dentro quella festa.

«Anche Teodora sogna un futuro nel mondo dello spettacolo.So che sei iscritto ad Arti e scienze dello spettacolo alla Sapienza. Come ti trovi?»

Il di lei padre indagava, incuriosito più che sospettoso. Io potevo rispondere «Cazzo ne so, non so nemmeno perché ci vado ancora» ma avevo la risposta ben confezionata e l'avevo snocciolata senza incepparmi nemmeno una volta. Flow puro.

Lui, soddisfatto di aver fatto bene la sua parte di padre amorevole che si interessa delle persone con cui interagisce la figlia, era andato a intrattenere qualcun altro. Lei era rimasta lì, a guardarmi, come se non volesse prendersi la briga di dire qualcosa che avrei dovuto capire da solo se non ero un idiota.

«Arti, Giacomo, che bello» aveva poi detto, con un tono abbastanza piatto.

«Eh, si. A te come va al liceo?» avevo replicato, stando sul neutro.

«Hai della coca, vero?»

Ero rimasto spiazzato dalla richiesta così diretta e senza filtri. Una ragazzina, di buona famiglia, in cerca della famosa evasione. Era la potenzialità che sentivo nell'aria, e finalmente eccomela davanti. Il problema era che aveva quindici anni- Potevo in un attimo distruggere tutto quello che mi ero costruito in quei mesi, se qualcosa fosse andato storto. C'era un certo dilemma etico sull'età, ma guardandola mi dava l'idea di una che, se non fosse stato quel giorno, sarebbe stato il giorno successivo, ma se la sarebbe procurata. Perché sprecare così miseramente quella occasione per delle paranoie legate all'età?

«Mi dai un quarto d'ora?» le avevo detto, con voce il più possibile flautata.

«Si capisce, cocco» aveva risposto sbattendo le ciglia palesemente troppo truccate.

Cocco, ma va a cagare nanerottola. Le avevo chiesto dove potevo fare una telefonata. T28 alla mano avevo chiamato Asprilla.

«Asprì devi fare un salto dove sono, tassativo, te non sai che treno perdiamo se non ti presenti qui in dieci minuti.»

«A' Rasso dieci minuti a Roma non sono un cazzo! Come faccio?»

«Prendi un velox, anche due, ti giuro che se arrivi in dieci minuti mi ringrazierai per il resto della vita» lo avevo sollecitato con il tono più perentorio che ero riuscito a trovare.

Gli avevo poi dato l'indirizzo, rimanendo in attesa che si districasse dal quartiere giù per l'asse dell'Appia Pignatelli e poi dell'Appia Nuova. Quando mi fece uno squillo tredici minuti dopo, ero arrivato in fondo al giardino, scambiato due parole inutili e recuperato quanto mi serviva. Teodora aspettava tutta gasata.

«Te la regalo se mi dici una cosa» le avevo detto, mettendole il cartoccino nella tasca della felpa con un gesto fluido.

«Spara, cocco.»

«Quanto la paghi quando la prendi?»

Come mi aspettavo, il prezzo era più alto di quanto costava giù nelle zone popolari. C'era qualcuno che, siccome si parlava di tizi benestanti, faceva delle belle creste. E questa cosa non faceva che girarsi a vantaggio mio.

«Ti stanno derubando Te', ti posso fare sei o settemila in meno facile facile.»


Sinceramente pensavo che fosse molto più entusiasta di questa notizia, ma ci eravamo comunque scambiati i numeri e, il sabato successivo, mi aveva di nuovo colto di sorpresa, ma chiedendomi se facevo un salto a una festa.

Ora, per telefono certe cose non si dicono e non si scrivono, ma friggevo all'idea di non sapere quanta coca dovevo portarmi dietro per far contenti i ragazzini romani "annoiati", e non avevo nemmeno voglia di invitarla per vederci dopo scuola per farle una domanda da pivello, col rischio che magari le venisse pure in mente che mi interessasse altro di lei. Ero rimasto d'accordo con Asprilla che tenesse il cell incollato all'orecchio in caso occorressero rinforzi.

Ed erano serviti: per i sedici anni della festeggiata c'era una discoteca completamente affittata, con tanto di sicurezza all'esterno, lista d'ingresso e compagnia cantante. Anche se il Turci era benestante, non avevo mai preso in affitto nemmeno la pizzeria del centro sportivo, al massimo c'era stata l'animatrice. L'imbarazzo che avevo avuto era stato trattenuto a stento quando ero arrivato alla porta. Avevo pensato "ma che ci faccio qui? Passo il tempo a fare freesta con gente disoccupata cronica e qui ci sono tipi che hanno le Ferrari parcheggiate in garage". Ma con i minuti che passavano, gli abbracci e i baci come se mi conoscessero da una vita e tutte le dosi smerciate, ero uscito gioioso. Avevo perfino ballato un po' con qualche tipetta meno bamboccia, che guardava continuamente il tatuaggio HELLRAZOR.

Per loro probabilmente ero zarro, o tamarro, o come preferivano definirmi da quelle parti, con la fiammante 21 dei San Antonio Spurs sotto la felpa. Anche Miss Teodora probabilmente si era chiesta chi ero veramente, tra il damerino da aperitivo e lo zarro da locale, propendendo per il secondo. Mi ero segnato diversi numeri, avevo dato il mio a diversi tipi, ero felice e su di giri.

Sessantaquattro dosi nel giro di due ore e mezzo. Asprilla sembrava un tredicenne che guarda il primo porno. Mezzo milione di incasso in un colpo, il portafoglio era una delle due cose gonfie che avevo. L'eccitazione mi andava su e giù per le vene: le scene di quella sera, dei tavolini e dei ripiani dei cessi impolverati, erano diventate una sorta di icona, che rivedevo nella mia mente in loop, incapace di fermarne la forza.

Chiaramente, una festa di quel genere non poteva essere che un episodio in una fila di giornate quasi senza introito, ma il giro mi era servito, in molti sensi. Anche quello estetico: un sacco di ragazzetti "perbene" erano attirati da uno stile che aveva lasciato stare i baggy enormi e le felpe della Kani per qualcosa di più glam, che mi permettesse di non essere automaticamente perquisito se entravo in un locale serio, ma che conquistava in fierezza con la presenza fisica. Si, per la prima volta ero riuscito ad essere come avrei voluto essere alle jam: ammirato.

Erano ragazzetti, me ne rendo conto. Era normale che ammirassero quelli più grandi. Ma non è così semplice da ottenere quel sentimento, se davanti hai una banda di figli di papà che possono avere più o meno tutto, se lo chiedono nel modo giusto.

Ricapitolo un po' la situazione romana a marzo: la primavera mi aveva portato due inquilini, una mini-sala incisione nel disimpegno di casa e un certo smazzo di coca ai signorini capitolini. Sul versante hip hop la questione era più complessa: facevo un po' di writing preferendo i piloni alle metropolitane, da quando avevo scoperto che le carrozze venivano ripulite piuttosto di frequente. Odiavo prendere quei rischi sapendo che poteva scomparire tutto nel giro di una settimana, che cazzo me ne facevo delle foto dei treni con le mie opere sopra? Volevo che la gente vedesse quella roba a lungo, volevo che rimanesse in modo che tutti potessero paragonarlo alle altre cose di quel tipo. Dovevano diventare parte "dell'arredo urbano": vederli invecchiare e pensare magari a quello che avevo in mente quando li avevo fatti.

Alla voce "rime" continuavo a variare le punchline e lavoravo sulle assonanze, sulle similitudini fonetiche di alcune frasi, sulle inversioni tipo la mia voce è maledetta/la tua barra è detta male. Avevo iniziato a incorporare pesantemente ciò che a tutti rimanevano più in mente: slogan e marchi commerciali, cose che in fondo oltreoceano si sentiva fare già dai tempi dei Run DMC.

Roma mi stava cambiando anche a livello di temi per le rime da pezzo: sembrava che sentissi meno l'urgenza di fare la morale, e più l'urgenza di fare storytelling, anche brutale, anche esagerato. Se c'era qualcosa che avevo imparato dal gangsta è che se la spari bene, puoi anche spararla grossa.

Era una modifica profonda rispetto alla mia vita cesenate, dove la crew impostava tutto il lavoro di rima su temi sociali, sullo sferzare le coscienze, e quella roba lì. Ora mi sentivo più libero di ritornare a quello che era stato il primo vero tema del rap, ai tempi dei primi block party: raccontarsi bene.

Con Santo e Cirì avevo iniziato a fare un lavoro di affinamento della voce e della sua presenza nella traccia. Santo mi mostrava le onde mentre andava la mia voce sul beat, segnalava dove calavo, come un motore che prende male una salita, oppure dove diventavo troppo stridulo per dare una urgenza in realtà necessaria. Mi faceva da metronomo, e io lo facevo "giocare" con una strumentazione che andava migliorando.

Infine, avevo contattato un professionista per cercare di migliorare la dizione: volevo far sparire l'inflessione romagnola e nello stesso tempo volevo evitare di assorbire troppo quella romana.

Infine, c'era un cruccio, e non era da poco: la storia con la tipa americana, che già si trascinava. Faceva un po' ridere pensarci ma in effetti il desiderio era di "svagarsi" da quello svago. Temevo le conseguenze, soprattutto economiche, del chiudere quella faccenda, ma mi si chiudeva lo stomaco al pensiero di trascinarla ancora per molto.

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