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Lunedi 3 luglio 2000

Finita la maturità con lo stesso impegno di un pornomane che legge i titoli di coda, ero partito assieme ai miei per Roma. Era luglio, era caldo e la Città Eterna non era molto diversa da Cesena per la sua voglia dei suoi abitanti di essere il più altrove possibile. L'appartamento era piccolo per come ero abituato: non era un project sull'Hudson ma un condominio di tre piani al quartiere Appio, in una zona che sembrava un altro pianeta rispetto al casino urbano dell'Urbe. Il terrazzino dava una veduta parziale della zona, non si distingueva nessun profilo "celebre" di Roma.

Non era un balcone da cartolina.

Avevo scelto Arti e scienze dello spettacolo alla Sapienza. La convinzione fortissima era che non mi sarebbe servita a una minchia, ma il mondo della musica era pur sempre parte di quello dello spettacolo. Ci avevano provato con la questione dell'università privata magari cattolica, ed il Turci si sarebbe sborrato addosso da solo se gli avessi dato l'ok a quell'idea di merda. Ma io ambivo a conoscere il giro, mica a masticare figli di papà in attesa di avere l'età per la raccomandazione.

Lui invece aveva intenzioni molto molto chiare, seppur di merda. Ne avevamo parlato già a casa, quando il bubbone dell'università fuori sede era esploso con tutto il suo carico di pus infetto, e le discussioni erano diventate all'ordine del giorno. Volevo andarmene a Milano, perchè Bologna mi sembrava persino troppo vicina, raggiungibile da quegli scassacazzo pressochè in qualsiasi momento. Volevo starmene per i cazzi miei lontano da loro, vedere la scena, respirare l'hip hop vero, ma per loro era fuori discussione, troppe spese, troppo rischioso l'investimento di un figlio fuori sede con tutti i guai che potevo potenzialmente combinare.

Un bel giorno era arrivato con una proposta. Gli si vedeva dalla faccia da culo sorniona che portava a spasso con una incapacità solenne.

«Lavorerai per me, e la paga sarà avere tutta l'università spesata» aveva detto.

«Lavorare? Da Roma?» avevo chiesto sbuffando.

«Ci sono tante cose che si possono fare, specialmente di relazione esterna. Hai diciotto anni, non sei un bambino. Ci sono cortesie e commissioni che puoi perfettamente fare, ti occuperanno poche ore alla settimana, ma ti daranno modo di capire il valore delle tue azioni.»

«Di' cosa devo fare senza tante stronzate di contorno.»

Il «GIACOMOOOOOO» di mia madre era stato più scontato delle mozzarelle in scadenza.

«Qualche visita di cortesia, qualche invito a cui dovrai dire di sì» per poi aggiungere dopo una brevissima pausa, «E mostrarti praticante.»

«Di basket?»

«Non fare il finto tonto. Sai perfettamente che viviamo perché esiste la religione, questa cosa che ci rassicura sulla morte a patto di fare un bel funerale, e i funerali non si fanno bene se non c'è un bel cofano funebre.»

«Quindi devo presentarmi in chiesa. Stai scherzando spero?»

Di idee di merda ne aveva partorite tante che mi coinvolgevano, ma quella le aveva superate tutte e di molto. Non era affar mio se lui campava vendendo bare.

«No, per nulla. Ti do un compito fondamentale: mostrare a certa gente che siamo perfettamente devoti anche lontano da casa, che siamo perfetti per diventare i loro fornitori di cofani funebri.»

Mi era sembrata un'idea di merda, come già detto twice, e gliel'avevo detto, ma il casino che si era sviluppato nei minuti successivi non aveva portato a niente. Potevo scappare di casa, in quel momento avevo iniziato a pensare seriamente all'idea.

Chiariamo: l'avevo pensato centinaia di volte, perchè tutto quello che mi circondava era un calcio nelle palle alla thug life. Ma c'era un problema molto serio: il mio carattere di merda non mi aveva procurato molti amici. La crew che avevo frequentato a Cesena mi stava sulle palle perchè erano impregnati di conscious e altre cazzate che la facevano sembrare la bruttissima copia, peraltro slavata e in salsa romagnola, della Rawkus Record.

Altri contatti seri, in giro, non ne avevo, o meglio, seri abbastanza per farmi da base in attesa di trovare un aggancio verso lidi migliori per me. Contatti ne avevo, ma talmente sottili che me le potevo immaginare le chiamate.

«Ehy bella Dope, ti ricordi sono Jay.»

«Ah, bella... Jay, ci siamo beccati...?»

«A vedere Callaman a Rimini.»

«Ah, sì, sì ok.»

«Bella ascolta: hai mica un letto che me ne devo andare di casa?»

«tu tu tu.»

La persona più vicina era il Vecchio che faceva parte della crew che vi dicevo ed era il meno lobotomizzato. Ma doveva ancora diplomarsi, viveva ovviamente con i suoi ed aveva una fidanzata senza un senso al mondo, oltre che chiatta.

Dare un'immagine positiva della famiglia agli uomini potenti nell'agenda del Turci era ripugnante. Entrare in una chiesa consapevolmente lo era altrettanto se non di più. Avevo davvero urlato come un pazzo, altro che crunk. Gli avevo detto cose inenarrabili, ma era stato irremovibile: qualsiasi spostamento da Cesena sarebbe stato spesato solo per Roma, e solo a quelle condizioni.

Tutte le strade portano a Roma, e la richiesta di entrare in chiesa, con tutte le bestemmie che avevo detto dentro di me, rischiava di far crollare l'edificio con tutti i cristi appesi appresso.

Sapeva che mi stava facendo male, e per quello mi rideva in faccia. La sera successiva a quel discorso ero uscito inferocito, attaccando furiosamente un pilone di cemento a Torre del Moro, a colpi di bombolette e rabbia. Ne era uscito un lavoro grezzo e approssimativo, ma aveva avuto il potere di calmarmi.

"Calmati Jay" mi ero detto "devi starci dentro il tempo di mandarlo a fanculo. Vai a Roma, uno dei fulcri dell'hip hop italiano. Entri nel giro, diventi un bboy vero, indipendente dalla merda di Cesena e ciao al Turci". Una parte di me letteralmente ribolliva all'idea di indossare quella maschera, l'altra vedeva la sterminata distesa di occasioni che si apriva davanti a me.

Il giorno dopo avevo parlato al Turci informandolo che pur considerando la sua una idea di merda che mi tarpava le ali delle aspirazioni, la accettavo pur di non doverlo vedere tutti i giorni della mia vita. Pretendendo di andarmene quanto prima, di non dover presenziare a più di una funzione religiosa alla settimana, e di concordare in anticipo qualsiasi altra incombenza.

Era stato d'accordo, tanto d'accordo che nel giro di una settimana aveva trovato casa e, il giorno dopo i risultati, viaggiavamo verso Roma con i miei bagagli e When the Smoke Clears: Sixty 6, Sixty 1 dei Three 6 Mafia in cuffia. Non volevo cazzi per il viaggio.

I miei erano rimasti tre giorni in albergo, mentre io facevo il bullo nella mia nuova casa. Fingevo di girare i dischi sui fornelli della mini cucina, fumavo cannoni davanti alla porta finestra aperta, desideroso di fare quei passi che mancavano alla libertà totale. Ma il Turci me li aveva fatti ben pesare tutti, quei passi: per tre sere mi ero spaccato il cazzo in cene di pubbliche relazioni che, giuro, mi avevano fatto venire voglia di aprire il fuoco con un mitra inondando di piombo tutto il locale.

L'ultima sera mi ero portato il marker, volevo a tutti i costi esprimere nero su bianco quanto apprezzavo quelle cene sulla cassa dello sciacquone del ristorante, ma casualmente avevo notato le telecamere della sorveglianza, e lascia stare.

Avevo sentito il marker nei boxer tutta la sera, come un'idea che ti si pianta nella testa e non ne vuole uscire. Tornato all'appartamento, salutati i miei, mi ero tolto furiosamente quei panni insulsi, massi maglietta e baggy ed ero uscito precipitandomi nel primo parchetto a scrivere JAY ovunque. Era stata una liberazione, una totale liberazione. Era stata una meraviglia, il primo fanculo capitolino di Jay, cazzo.

Poi era arrivato un cane grande come una Panda, e avevo dovuto filarmela alla velocità della luce, sentivo qualche risata alle mie spalle, accompagnate dalle urla «A Jay! Stai a lascià la scia demmerda!! Madò quanto te sei cacato addosso!» Ovviamente avevo giurato di tornare al parchetto con un mitra e falciarli tutti e impiccargli il cane dopo avergli mozzato tutti e quattro gli arti. Anzi meglio prima impiccargli il cane e poi falciarli: sarebbero morti dispiaciuti.

Nel mio palazzo c'era la gattara. E ti pareva.

Avevo già avuto modo di conoscere vecchie di merda che, dopo aver messo in fuga tutti i famigliari, si erano consolate con i gatti, decine di gatti. A cui portava da mangiare cose di solito a tema pesce, che dopo poche ore puzzavano come un cadavere in decomposizione. I gatti, quegli animali stronzi e supponenti, ti guardavano come se tu fossi l'intruso del palazzo e loro i padroni. In quell'estate diventarono meravigliosi bersagli per il fucile ad acqua che mi comprai.

Altri tipi del palazzo che valesse la pena ricordare non ce n'erano. In fondo a casa stavo relativamente poco: giravo su e giù con la metro, guardando i pezzi sui muri. Li ammiravo, li studiavo, e saliva in me la voglia di conoscere chi li aveva fatti, di lavorare con loro. Volevo vero hip hop e non un garage con quattro wannabe.

La domenica, con un cerchio alla testa, andavo in chiesa. Salutavo i tipi delle cene con mio padre, mi mettevo tutto di lato in modo da non farmi rompere il cazzo e mi sparavo i peggio pezzi della 2 Live Crew che se il prete avesse capito solo la metà delle rime si sarebbe incendiato per autocombustione.

Avevo imparato a conoscere diverse famiglie che di volta in volta mi venivano presentate da chi già conoscevo. Scambiavo convenevoli basic, poi uscivo con una gran voglia di pisciare nell'acquasantiera. Il Turci mi mandava sms di controllo e aggiornamento. Ero bravo a dire cazzate, a quanto pare.

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