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Heresy (Parte 3)

Erano già passati cinque giorni dal loro ultimo incontro quando Enrico accettò di andare a fare la spesa anche se ormai era il tramonto. Era certo che DIO fosse tornato in Egitto, come gli aveva annunciato, e comunque che non ci fossero rischi di incontrarlo nella breve strada tra la chiesa e il supermercato.

Si rese conto di non aver creduto nella gravità quando lo vide davanti a sé, seduto fuori da una caffetteria all'angolo dell'unica via che poteva percorrere per tornare indietro. La borsa che stava portando per poco non gli scivolò dal palmo sudato e qualcosa dentro di lui schioccò come legna nel fuoco.

«Enrico,» lo chiamò DIO dopo averlo inchiodato con lo sguardo, precludendogli ogni via di fuga. Era su una sedia troppo piccola per lui, con le gambe allungate sotto al tavolo. Aveva una seconda sedia, vuota, davanti a sé, come se stesse aspettando qualcuno. Come se stesse aspettando lui. «Vieni, mio caro ragazzo».

Il giovane fece qualche passo verso di lui, ipnotizzato dal rossetto verde sulle sue labbra e dall'improvviso desiderio di vedere le proprie sporcate dallo stesso colore. Tornato in sé, prese posto di fronte a lui e appoggiò a terra la borsa, rischiando di rovesciarla.

«Sono... andato a fare la spesa,» spiegò senza alcun motivo: la spada di Damocle dell'attrazione pendeva in modo evidente sul suo collo ed era proprio lì che stava guardando DIO. Enrico sentiva il profumo dei suoi capelli – brillavano rapendo gli ultimi bagliori del sole, come quel giorno in chiesa in cui gli era sembrato un santo bizantino –, il calore seducente che tutta la sua figura emanava. Pentirsi lo aveva reso puro, quindi era certo che non si trattasse del desiderio carnale per un mortale, ma di quello più alto per una creatura divina.

«Sul serio?» domandò l'uomo, interessato. «Non sapevo che anche voi preti vi dedicaste a queste attività triviali».

«Te l'ho già detto,» ribatté Enrico, «non sono ancora un–». S'interruppe, confuso dalla necessità di ripeterglielo e rendendosi conto di aver frainteso le sue intenzioni di rivolgergli una semplice battuta. «Scusa».

DIO rise sommessamente, per poi all'improvviso farsi serio.

«Sono io che dovrei chiederti scusa,» gli disse.

«Perché?» replicò Enrico, la cui saliva si era del tutto prosciugata.

«È da qualche giorno che non riesco a dormire bene,» continuò DIO. Il ragazzo fu sul punto di dirgli che anche per lui era così, perché non faceva che pensare a lui, e fu colto dall'infantile desiderio di sentirsi rispondere che le loro insonnie avevano la stessa motivazione. Poi si riscosse. Un uomo adulto, al di fuori delle sue fantasie, non avrebbe mai potuto pensare una cosa simile. «Temo di averti offeso quando ti ho chiesto di venirmi a trovare, insinuando che tu potessi fuggire dai tuoi doveri e lasciare la città».

«Al contrario,» provò a obiettare Enrico, sentendo il calore che dalle guance gli risaliva fino alle orecchie, «mi ha fatto piacere».

«Davvero?»

«Sì».

Il sentimento che stava provando era lo stesso che aveva travolto Perla quando aveva posato i suoi occhi su Wes?

DIO si voltò verso la notte che stava ammantando i tetti e le vie, verso le stelle d'estate che cominciavano a risplendere del loro bagliore lontano. Enrico voleva essere sfiorato, sentire di nuovo la gamba di DIO che premeva sulla sua, ma lui si era allontanato, come per confinarsi nella sacralità di uno spazio personale.

«Estate per te, fa' ch'io sia | quando i giorni d'Estate si saranno involati!» recitò l'uomo, con gli occhi persi nel colore indefinibile del cielo e il mento appoggiato su una mano. Il polso piegato con grazia gli reggeva il capo come se non avesse peso.

«Emily Dickinson,» commentò Enrico.

DIO gli rivolse un'occhiata indecifrabile.

«Sicuro?» gli domandò, come un insegnante che tenta di mettere alla prova il suo allievo.

«Sì».

«Oh, amico mio, mi dai così tanta soddisfazione. Davvero, non pensavo che potesse succedere, tantomeno con un...» si interruppe e rise di nuovo a bocca chiusa, con la leggerezza del vento che scuoteva le chiome degli alberi. «Non ti arrabbi più, eh? Peccato. Facevi una faccia buffa. Oh, e a proposito: in questi giorni ho scoperto una cosa davvero bizzarra che mi ha fatto pensare a te».

«Quale?» domandò Enrico, a cui l'idea che DIO avesse potuto pensare a lui in sua assenza stava riaccendendo quel fuoco di desiderio che aveva tentato di soffocare.

«C'è un passaggio della Bibbia, lo saprai meglio di me, in cui c'è scritto,» s'interruppe e scandì bene le parole che seguivano, con atteggiamento quasi teatrale, «Sole, fermati!».

«Giosuè 10:12,» confermò Enrico in modo meccanico.

«E quindi hanno pensato: ecco!, un popolo che pensava che il Sole girasse attorno alla Terra. E di certo non poteva conoscere la gravità. E va a finire che forse è un errore di traduzione, e che quella frase vuol dire Sole, taci! Non è strano come la nostra interpretazione può costruire mondi interi?»

«Beh, sì, in effetti lo è».

(Errore di traduzione. Forse è stato questo a farmi pensare che DIO potesse provare un interesse per me che vada oltre alla semplice amicizia. Un gesto mal trascritto, un occhio scivolato sulla riga sbagliata del dizionario. Ma come lo si scopre, un errore di traduzione?)

Il ragazzo, temendo che l'altro potesse leggere ciò che provava nelle palpebre dei suoi occhi abbassati, li alzò di nuovo verso di lui. DIO aveva estratto dalla tasca un foglietto identico a quello su cui tempo addietro gli aveva scritto il numero di telefono e ora glielo porgeva, senza però quel gioco di sguardi che aveva caratterizzato i loro incontri precedenti.

«Tieni, avevo dimenticato di darti il mio indirizzo,» gli disse, anche se sembrava un uomo che non dimenticava mai niente. «Mi chiedevo se avessi bisogno di... ah, ti chiedo scusa. Stavo per mancarti di rispetto di nuovo».

Enrico aggrottò le sopracciglia.

«Non m'offendo,» replicò, curioso. «Se avessi bisogno di cosa?»

DIO rigirò la tazzina vuota che aveva di fronte.

«Di soldi per il viaggio,» ammise, non senza vergogna. «Mi rendo conto che non sia un pensiero adeguato».

«Ti ringrazio,» rispose Enrico, con una certa durezza nella voce. Raddrizzò la schiena e si guardò attorno di sottecchi, avvertendo la presenza di qualcuno che non avrebbe dovuto essere presente. «Non ne ho bisogno».

(Perché non vuoi toccarmi?)

DIO gli rivolse un sorriso enigmatico.

«Ora devo andare, mi stanno aspettando,» si congedò il giovane, e lanciò uno sguardo verso l'incrocio con la via che portava alla chiesa, dove si diresse dopo che DIO ebbe ricambiato il suo saluto.

Lo sceriffo Palmer stava camminando in cerchio, senza una meta apparente: talvolta lanciava delle occhiate sospettose a una vetrina, ma Enrico aveva notato che i suoi occhi si dirigevano sempre, come attratti da una calamita, verso il tavolo dov'erano seduti lui e DIO. Decise quindi di rivolgerle un sorriso e di cominciare per primo la conversazione.

«Buonasera, sceriffo Palmer».

Lei si voltò, fingendo un'espressione di leggera e piacevole sorpresa. I suoi tacchi spessi, con cui compensava la bassa statura, picchiettarono sul marciapiede.

«Buonasera, Pucci».

«Sta tornando a casa anche lei?» domandò Enrico, accortosi che proseguivano nella stessa direzione.

«Sì, abito sulla May Street,» gli rispose lo sceriffo. «È una serata tranquilla, non è vero? Una bella serata. Ma chi era l'uomo con cui stava parlando? Non è del posto, vero?»

Il sorriso sulle labbra di Enrico si allargò, andando a coinvolgere anche gli occhi. Egli le rivolse un sereno gesto di noncuranza con la mano.

«Oh, no, viene da St. Petersburg, è un conoscente di mia madre. Vuole essere battezzato con rito cattolico e mi stava chiedendo informazioni».

I lampioni si accesero sopra le loro teste ed Enrico si crogiolò nel pensiero che DIO non avesse voluto un contatto fisico con lui perché si era reso conto di essere osservato.

«Allora dovrebbe chiedere al prete».

«Sì, è quello che gli ho consigliato».

Davanti a loro, un uomo in bicicletta seguiva lentamente l'argine di un canale oltre il quale spuntava qualche ciuffo d'erba inaridito dall'insistenza del sole. La pipa che aveva in bocca sbuffava volute irregolari di fumo come una vecchia locomotiva.

«Sa,» disse Pucci, spostando la borsa della spesa dalla mano sinistra alla destra, «ultimamente stavo pensando alla triste sorte del maschio della rana pescatrice».

«Il maschio... della rana pescatrice?» ripeté lo sceriffo Palmer, con sorpresa questa volta autentica.

«Sì. Parlo di quei pesci predatori che vivono negli abissi. Quelli che sembrano avere una lanterna sulla testa».

«Ho presente».

«Ho letto che durante l'accoppiamento il maschio si fonde con la compagna,» continuò Enrico. «È più piccolo di un pollice. I pesci dalla forma che conosciamo sono tutte femmine».

«Ah,» replicò Donna Palmer, interdetta, «non lo sapevo».

Non sembrò notare in alcun modo Whitesnake che le era comparso di fronte, nemmeno quando lo Stand le appoggiò una mano sui capelli.

«Dopo averla morsa, rilascia un enzima che lo fa sciogliere completamente. Quello è lo scopo della sua vita. Non è bizzarro?»

Mentre lei socchiudeva la bocca per rispondere, lo Stand le fece scivolare un CD all'interno della fronte. Era la prima volta che Enrico provava a impartire un ordine con Whitesnake, e lo pervadeva una sorta di eccitazione.

Dimentica questa conversazione.

Sul volto dello sceriffo si dipinse un'espressione spaesata, e la singola ruga tra le sue sopracciglia si fece più profonda.

«... di cosa stavamo parlando?» domandò. Pucci trattenne il sorriso di vittoria di una fiera.

«Le rose del giardino di mia madre. Mi ha chiesto di che varietà sono, ricorda?»

«Ah, sì. Certo».

«Non sono un grande esperto, ma le prometto che glielo chiederò,» concluse Enrico, voltandosi verso la luce calda e tremolante che proveniva dalla canonica. «Buona serata, sceriffo Palmer».

Whitesnake prese tra le dita il viso della donna e le inserì un secondo disco, questa volta nella tempia.

Dimentica l'uomo che hai visto assieme a me.

«Buona serata, Enrico».

Un brivido di piacere scosse il ragazzo mentre guardava lo sceriffo che se ne andava. I poteri di Whitesnake avevano funzionato, e questo significava una cosa sola: non c'erano più ostacoli che si potessero frapporre tra lui e DIO. Avrebbe potuto coronare il suo amore disperato e finalmente unirsi a lui.

E finalmente dargli tutto se stesso.

(Può essere solo per volere divino che due creature come noi si sono incontrate.)

*

«Sono suoi quei libri sulla biologia marina che ho trovato in camera?» domandò Enrico a padre Flanagan. Nell'attesa di una risposta, passò sotto il getto d'acqua il coltello da pane, con la sua lunga lama seghettata, in modo da sciacquare via tutto il sapone.

«Ah, sì, scusa,» replicò la voce del prete dal salotto. «Sono di mio fratello. Si è trasferito di recente e non sapeva dove metterli. Non mi andava di buttarli via, hanno una rilegatura così bella».

«Capisco,» commentò Enrico. Ripose il coltello da pane e si dedicò a lavare quello da carne, la cui lama era invece liscia e dritta. Il pensiero di doversi nutrire del corpo di altri esseri viventi lo disgustava in modo subdolo. Alcune persone mangiavano anche le interiora. «No, ma li trovo interessanti». C'era qualche alone sulla lama del coltello, forse il sangue di una delle vittime sacrificali. Immòlati, immòlati per la nostra cena! «Ho imparato che in Australia esistono i pesci perla. Si nutrono dei cetrioli di mare, entrando attraverso...»

(La natura a volte è sgradevole. Facciamo bene a mangiarla.)

Gli occhi opachi di padre Flanagan guardavano quelli di Whitesnake, che colavano come in un dipinto di Dalì, eppure non li potevano vedere.

Enrico Pucci era seduto sul divano e aveva le mani giunte in grembo. L'orologio a muro della cucina era stato aggiustato qualche giorno prima, ma ogni cinque secondi lo scatto delle lancette produceva un estraneo ronzio.

«Ah, quasi dimenticavo, tua madre mi ha parlato questa mattina». Le parole del prete erano state all'inizio meccaniche, ma dopo solo qualche istante la sua voce si era scaldata, il suo sorriso aperto in un'espressione cordiale. Quel ricordo era come l'innesto di un ramo di melo su un arancio, eppure Flanagan non se ne sarebbe mai accorto. Il potere di Whitesnake era imperscrutabile, per lui e per la torma informe di umani che aveva ormai ai piedi.

Creature inferiori che non credevano in DIO.

Mentre loro ignoravano, lui invece era stato segnato da mani di cui ricordava alla perfezione ogni piega, ogni nocca, la ramificazione delle vene che conduceva a quei polsi sottili che desiderava baciare in adorazione.

E con eguale perfezione aveva intessuto il suo piano, fatto della certezza che nell'arco di quei cinque giorni sua madre non si sarebbe recata in chiesa, delle banconote arrotolate all'interno della sua valigia, di un biglietto di andata e ritorno per una destinazione che ai più sarebbe rimasta ignota. Della sicurezza che lui lo avrebbe accolto in una casa di cui non riusciva nemmeno a immaginare le stanze.

«Peccato avere solo cinque giorni per tornare in Italia,» commentò padre Flanagan. Enrico scrollò le spalle.

«È il meglio che è riuscita a fare. Sa, il lavoro, i permessi...»

«Certo, capisco,» il prete si voltò verso il punto dove Whitesnake stava scomparendo e il cuore del suo portatore mancò un battito. Poi, però, distese le ginocchia con atteggiamento rilassato e si resse al bracciolo della vecchia poltrona. «Spero che tua madre riesca a trovare pace, almeno per qualche tempo. Tornare alle sue radici le farà bene».

«Certo,» replicò Enrico con un sorriso, «e io, se non altro, avrò l'occasione per vedere Firenze».

Il ragazzo accavallò le gambe e si passò una mano sul mento. Trovò le vestigia di un piccolo brufolo, ormai quasi scomparso, e vi si soffermò per un istante.

La lancetta dei secondi batté il quarto e poi, col suo tono strano, il quinto. Poi tornò a leggere un copione che sembrava non avere nulla di stonato.

«Sa,» commentò Enrico, sovrappensiero. Le sue dita ormai erano arrivate al collo e lo stavano accarezzando, incuriosite dal rigonfiamento del pomo d'Adamo che non ricordava così evidente. «Percy Bysshe Shelley diceva che raramente aveva visto città così belle».

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