Gravity (Parte 3)
Nulla in quella stanza o nella persona che aveva davanti suggeriva a Enrico che si potesse fidare. Entrambe avevano uno stantio odore di tabacco, sudore e whisky da fognatura.
«Ma tu non sei quel ragazzo di buona famiglia che frequenta il seminario?» gli domandò, divertita, la voce di Smith.
L'investigatore privato Nixon Smith – nome della cui autenticità molti dubitavano – se ne stava seduto alla sua scrivania marcia e guardava Enrico con i pugni affondati nella carne flaccida del mento. I suoi occhi porcini lo squadravano con la tenerezza feroce di un lupo che si trova davanti una preda già ferita.
«Torna a casa, piccolo».
Enrico, investito da una zaffata di fumo, tossì. Pensò a casa, alla propria sorella a cui voleva risparmiare a ogni costo una sofferenza maggiore di quella di una relazione terminata sul nascere.
Smith, coi suoi capelli unti e i baffi che si univano ai peli che scendevano dal naso incrostato, con la sua voce raschiante e il suo atteggiamento viscido, era il perfetto contraltare al fascino altero di DIO. Tuttavia, era l'uomo giusto per il lavoro: Enrico appoggiò con gesto vigoroso una mazzetta di banconote sulla scrivania e formulò la sua richiesta con voce impostata.
«Se farà quello che le dico, le darò il doppio di questa cifra».
Nixon, con una consapevolezza dovuta all'esperienza, contò le banconote a colpo d'occhio e rivolse a Enrico un'alzata di sopracciglio. Solo allora il seminarista gli porse le fotografie di due bei giovani, un ragazzo e una ragazza, che parevano avere circa la sua età.
«Voglio solo due cose: non faccia domande e faccia sì che si lascino. Tutto qui».
Enrico conosceva la fama di Smith. Per lui si trattava di soldi facili: gli sarebbe bastato mandare qualche sant'uomo che gli doveva un favore a minacciare Wes.
E tutto si sarebbe chiuso.
Smith proruppe in una risata roca che si trasformò in violenti colpi di tosse da fumatore.
«Va bene, angioletto,» rispose, arraffando i soldi dalla scrivania prima che il suo cliente ci ripensasse. «Consideralo fatto».
«Giovedì,» aggiunse Enrico. «Giovedì tornerò a darle il compenso».
Quando uscì dall'ufficio di Smith e si inoltrò nell'ombra delle vie, Enrico aveva ancora negli occhi l'immagine della sua smorfia di sufficienza, nelle orecchie il rintocco ritmico della vecchia pendola e nel naso un odore che diventava sapore di sangue.
Rilasciò dai denti il labbro che aveva morso sino a romperlo e si affrettò verso il seminario, con l'intenzione di pregare per tutta la notte e chiedere perdono.
Dio avrebbe capito: il Suo disegno tendeva sempre a un bene superiore.
Enrico sentì un rumore secco, uno sguardo che lo seguiva, e trasalì. Quando si voltò, notò un mendicante sdentato che, tentando di frenare il tremore delle mani che agitavano il piattino, lo fissava. A terra, sotto i pioppi del cimitero, Enrico aveva visto rametti meno fragili delle sue dita. Nel suo occhio guercio sembrava sepolta una tacita condanna.
(Ora, dunque, rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. La fede finirà, la speranza finirà, ciò che rimarrà è la carità.)
Il ragazzo aprì il portamonete e lasciò i suoi ultimi cinque dollari nel piattino del mendicante.
In quell'esatto momento un topo, con uno squittio sottile, passò accanto ai suoi piedi e si rifugiò nella spaccatura di un muro.
«Che Dio ti benedica, figliolo,» ringraziò l'uomo, facendosi il segno della croce come se sapesse chi si trovava davanti. La sua voce, parola dopo parola, si trascinava dietro uno stridore ritmico, identico al fischio del ratto. Il disgusto che Enrico provò per quell'anima solitaria poteva essere solo il fantasma d'un disgusto per se stesso.
(Perdona noi peccatori.)
Tre giorni dovevano passare – come le tre Ave Maria devotamente recitate ogni mattina sgranando il rosario – e in essi Enrico si dedicò alla preghiera, alla penitenza e alla carità, non riuscendo tuttavia a ricavarne un giusto sonno.
Fu all'alba del quarto, mentre giaceva in un torpore doloroso, che sentì suonare il campanello della canonica. Lo stomaco gli si strinse e il cuore gli accelerò i battiti, nel ricordo di come quel suono a una certa ora della mattina potesse essere soltanto l'annuncio di una disgrazia.
Udì, distante, la voce del prete che rispondeva. Poi, più vicini, dei passi e la porta della camera che si apriva.
«Enrico,» disse il padre, con una voce grave che non poteva che confermare i suoi timori. La luce che entrava dalla sala lo ferì sotto gli occhi come una lama sottile. «Vieni».
Il ragazzo, tentando di combattere l'ansia che minacciava di farlo svenire, si diresse con passi traballanti e meccanici verso la porta d'ingresso, nella speranza che l'istante prima di raggiungerla si estendesse all'infinito, insapore come una zuppa annacquata.
Quando arrivò sulla soglia, e tutto diventò reale, vide prima un uomo in uniforme e poi la donna in borghese che gli stava a fianco, mostrando un distintivo.
«Sono Donna Palmer, sceriffo della contea di Collier. Lei è Enrico Pucci?»
«...sì,» rispose il ragazzo, con un filo di voce. Era troppo piccolo di fronte a quella forma di cortesia. «Che... che cosa è successo?»
In quel momento, lo sguardo della donna, che gli era parso di una durezza inflessibile, si ammorbidì. Lei si riavviò dietro l'orecchio una ciocca che era sfuggita al suo chignon impeccabile, rendendola più umana.
«Possiamo entrare?» domandò.
Padre Flanagan si scostò dalla porta e permise loro l'ingresso con un cenno della mano. Lo sceriffo entrò per primo; dopo di lei, il più timorato agente si tolse il cappello e si segnò con discrezione il petto varcando la soglia.
I due si sedettero senza una parola e attesero che anche Enrico facesse altrettanto.
«Mi dispiace doverle dare questa notizia,» esordì lo sceriffo Palmer. «Questa notte Perla Pucci, sua sorella, non è tornata a casa». Si interruppe e si tormentò il labbro inferiore con i denti, deglutì, poi ricominciò: «All'alba abbiamo trovato un co—o...»
La Provvidenza coprì quel termine nelle orecchie di Enrico con un fischio acuto.
«—lago— identificazione. Sua madre ha perso i sensi quando le abbiamo comunicato la notizia, — essere presente...»
Il ragazzo fu piegato da un violento conato. Si portò entrambe le mani alla bocca, sentendo il sapore dell'acido che risaliva in gola, poi si alzò e corse alla cieca verso il bagno, inciampando nei suoi stessi piedi. Lontane, delle voci che non riconosceva più lo stavano chiamando.
Enrico fece in tempo a chiudersi la porta del bagno alle spalle prima di rovinare sulla tazza e vomitare il poco che gli era rimasto nello stomaco. Il suo corpo, preda del panico, tremava. Ma la sua mente sapeva che c'era stato un errore: quella ragazza sfortunata non era Perla. Non poteva essere lei: Perla era a casa.
Perla era a casa.
Enrico tossì, con gli occhi fissi sul filo di saliva lungo e denso che gli usciva dalle labbra. Sputò, e alzandosi si pulì come meglio poteva con la manica del pigiama, che subito dopo venne tolto e lanciato con noncuranza a terra.
Perla era a casa, però – lo realizzò solo mentre chiudeva i bottoni della tonaca – lui aveva il dovere di andare a benedire quella povera anima che si preparava per l'estremo viaggio. Lo pensò ancora una volta, aprì la finestra e fu investito dall'aria del mattino. Sì, doveva proprio andare.
Quando lo sceriffo e padre Flanagan, allarmati, entrarono nel bagno a cercarlo, Enrico era già quasi al lago. Sentì la sirena delle auto della polizia che venivano messe in moto e la risposta disarmonica dell'ambulanza.
Vide le volanti, i mezzi rettangolari dei sommozzatori e della Croce Rossa allineati sulla riva come i soldatini con cui lui e Perla giocavano da bambini.
Barcollò verso il lago e continuò a camminare fino a quando l'acqua gli arrivò al polpaccio.
(Perché.)
Poi si fermò. Davanti ai suoi occhi, degli uomini su di una barca stavano pescando qualcosa dal fondale.
(Perché è successo? Quando siamo nati, perché quella donna ha preso mio fratello e non me? Perché non me? Perché ho ascoltato la confessione di quella donna? Perché me?)
Emettendo suoni alieni, uno degli uomini sulla barca impartì un ordine agli altri. Allora, con un ultimo sforzo delle loro braccia, ciò che era affondato venne a galla.
(Perché ho voluto diventare un prete? Perché due persone si incontrano? Addirittura uno della mia famiglia è stato un papa – ah! un papa, cos'è che significa poi?)
«Fermi...» rantolò Enrico. Avanzò ancora, l'acqua che gli impregnava la veste e gli rendeva difficili i movimenti.
Quando vide il cadavere che avevano tra le braccia, la mente di Enrico si rifiutò di collegare quei lineamenti lividi a quelli di Perla. Anche se le due ragazze avevano gli stessi capelli chiari. Le stesse forcine con cui Perla si scostava le ciocche, regalo dell'ultimo giorno in cui papà era tornato dalla Francia.
Uno dei due soccorritori si tolse il cappello.
«Vi ho detto di fermarvi!» urlò Enrico, e cominciò a correre con una forza che ignorava la resistenza dell'acqua. «Non segnatevi davanti a mia sorella!»
Si ritrovò, senza rendersene conto, col corpo di Perla tra le braccia, immerso nel motivo per cui i campanelli suonano la mattina. La carne che sentiva sotto le dita era brutta: molle, gonfia e pesante. Gli uomini che l'avevano recuperata lo guardavano spaventati dal gesto ferino con cui la aveva afferrata.
Enrico non riuscì a urlare.
«N-non prenderti la sua vita... non è stata colpa sua... d-dimmi come fare per riportarla indietro...» biascicò, col sapore del sangue in bocca e gli occhi fissi su di lei. Solo allora fu in grado di alzare la voce. «Dio! Sono io quello che deve essere dannato!»
Le labbra bluastre di Perla avevano ancora qualche residuo di rossetto. Enrico fece perdere lo sguardo in quella macchia rosa, immaginando lei che apriva gli occhi e gli parlava. Si sarebbe svegliata, perché stava solo dormendo e non lo faceva mai fino a tardi.
(Pregherò per la sua anima a che cazzo serve A che cazzo serve?)
C'era la voce di DIO nella sua testa, la sua sagoma nelle nuvole del cielo.
«Credi nella gravità?» gli chiedeva. «Credi che ci sia un motivo per cui ci siamo incontrati?»
Enrico, ancora stringendo tra le braccia la sorella, si voltò di scatto.
«Se vuoi, vieni da me».
Era come se lui fosse lì, pronto ad ammaliarlo con le sue promesse di salvezza, ma dietro di loro non c'era nessuno. DIO. Voleva vederlo.
Il sapore metallico sulla lingua di Enrico diventò più intenso; un dolore acuto e spirituale gli lacerò il petto. Qualcosa gli stava penetrando nella carne, gli stava premendo sulla gabbia toracica.
La tempia di Perla si strappò come un foglio di carta, e lui sentì le mani muoversi da sole. La sinistra corse al petto, dove la freccia che gli aveva dato DIO continuava ad affondare, e si inumidì di un liquido tiepido. La destra afferrò qualcosa che usciva dal cranio spaccato della sorella.
Il ragazzo aveva cominciato a vomitare sangue e fu costretto a lasciar cadere Perla nell'acqua. Lei ricadde come una bimba nel liquido amniotico che l'aveva portata alla luce. Acqua all'inizio, acqua alla fine.
Con le ultime forze che gli restavano, Enrico riuscì a portarsi davanti al viso l'oggetto che aveva preso.
(«Tu desideri fortemente che nessuno debba più soffrire... che nessuno debba più morire. Tuttavia, sai bene che una vita perduta non può più essere recuperata».)
Era sporco, incrostato di sangue, ma la sua superficie mandò un baluginio colorato quando fu colpita dal sole. Era un CD, si rese conto Enrico prima di svenire, perso in un dolore che pregava non finisse, con l'immagine di Perla ancora impressa sulle retine.
Bella.
Sorridente.
Viva.
*
Il 14 giugno 1988 a Orangetree, Florida, dal cielo piovvero lumache.
Senza che nessun telegiornale, da nessuna parte d'America, avesse previsto un ciclone, a centinaia caddero dalle nuvole. Con loro lo fecero anche i meteorologi, incapaci di spiegarsi quel fenomeno che stava riempiendo di raccapriccio i cittadini e danneggiando le coltivazioni.
Nei giorni successivi ne comparvero altre, ovunque: fuoriuscivano dai cellulari, dalle borse della spesa, dalle lattine chiuse e dalle orbite oculari dei cadaveri. Non facevano altro che strisciare lente, indecifrabili, lasciando la loro scia di bava sulle superficie su cui passavano, senza comporre alcun disegno.
L'unico che sarebbe riuscito ad addentrarsi in quel mistero, Enrico Pucci, giaceva su di un letto d'ospedale. Sentiva la pressione della fasciatura sul petto e della flebo attaccata al braccio. Sotto le palpebre chiuse, i suoi occhi si muovevano a scatti.
Sognava – se nel suo sonno leggero e inquieto poteva esistere un sognare – una villa dai porticati coperti di rose, una ragazza bionda che gli correva incontro, radiosa nella sua bellezza appena sbocciata e nel suo profumo di agrumi e cannella.
Come era possibile che, nonostante nessuno avesse alcuna colpa, tutto fosse finito in quel modo? Lui era vivo e Perla non c'era più – Wes era vivo, lo sentiva, e Perla non c'era più – lei non c'era più e il mondo continuava a girare, ma era un mondo di pietanze senza sale.
La voce dello sceriffo Palmer era stata fredda nell'annunciargli che avevano chiuso le indagini: suicidio, aveva decretato, prima di riporre la vita di Perla in un rettangolo di cartone assieme ad altre pratiche. Enrico aveva provato il desiderio di strangolarla, di portare le dita alla sua gola e stringerle, poi allentarle e prolungarle la sofferenza, poi stringerle di nuovo.
Non lo aveva fatto solo perché gli avrebbe provocato troppo dolore tentare di alzare il busto.
La sua Perla non poteva essersi tolta la vita. Era stato Weather a ucciderla.
Era colpa sua.
Enrico guariva velocemente, e il giorno dopo riuscì a trascinarsi fino alla finestra. Si lasciò cadere sulla sedia lì accanto e appoggiò il capo sul vetro, sul quale picchiettavano le prime gocce di pioggia.
Chiuse gli occhi.
Quando sentì il rumore della grandine, li riaprì. Con sguardo apatico osservò delle lumache infrangersi sul piccolo balcone davanti a lui, i loro gusci frantumarsi in mille pezzi, alcuni dei quali trapassavano corpi senza vertebre.
Tlac tlac tlac sbattevano sul vetro.
Enrico seppe che era colpa di Weather perché, anche se DIO non glielo aveva detto, il risveglio dei poteri di un gemello corrispondeva al risveglio dei poteri dell'altro. Come la sua anima, più pura, voleva custodire in eterno i ricordi, così quella torbida di Wes nutriva un desiderio di lumache.
Si ritrovò di nuovo seduto sul letto e si coprì con il lenzuolo le gambe che gli parevano più sottili del solito, lunghe e dritte come due bastoni di liquirizia.
Le lumache avevano ormai invaso la camera, gravitavano attorno a lui col loro moto oleoso, lasciavano nella loro scia scarti d'un colore arancione brillante. Piano, sfruttando un attrito che solo loro conoscevano, le bestie si arrampicarono sul materasso; cominciarono a ungere il lenzuolo bianco dov'era posata la mano del ragazzo che tendeva l'indice, appariscente quanto l'icona di un santo dentro una teca.
Nel guardarle, ricambiato dalle loro antenne mobili, Enrico se ne rese conto. Se quelle lumache avessero cominciato a salirgli sul braccio, sarebbe stato il momento di uccidere suo fratello.
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