Gravity (Parte 1)
I will do such things,
What they are, yet I know not; but they shall be
The terrors of the earth.
(William Shakespeare – King Lear)
Il 2 ottobre 1982 a Orangetree, Florida, dal cielo piovvero rane.
Fu una tempesta rapida, quasi senza pioggia, rumorosa al solo scopo di scagliare a terra creature di Dio che ancora si muovevano.
Ne caddero a decine, forse un centinaio, poi tutto – anche il vento – tacque.
Gli occhi di Enrico, destatosi dalla pigra indifferenza che gli impastava il cuore, si soffermarono sulla ferita sottile tra le nuvole da cui quei corpi erano precipitati, sperando di vedere la mano dell'angelo che, con disprezzo, li aveva esclusi per sempre dal Suo regno.
Non accadde. Quelle a terra erano solo rane morte, stroncate dalla Gravità.
Non fu la prima volta che Enrico ritenne necessario fornire a un animale un funerale cristiano. Piccoli passerotti innocenti, caduti dal nido. Un gatto trovato in mezzo alla strada, con la testa fracassata e le cervella che bagnavano il suolo. Perché loro non avrebbero dovuto, come gli uomini, essere degni dell'odore d'incenso, di una croce sulla tomba, delle litanie in latino che accompagnassero la loro anima in Cielo?
Le sue dita da bimbo si mossero sulla terra che profumava di pioggia, ricoprendo con un dignitoso affetto i cadaveri delle rane. Poteva essere solo lui, il devoto prete di quella messa.
«E se da questa vita
rimane in lui qualche traccia di peccato
il tuo Amore misericordioso lo purifichi e lo perdoni».
Il cielo, in un ultimo atto di pietà, rispose alla sua preghiera con un tuono lontano. C'era forse qualche differenza tra l'anima del più pio tra gli uomini e quella del più deviato? C'era qualche differenza, poi, tra la loro e quella di un animale?
(Gli animali non desiderano il Paradiso.)
1987.
Enrico Pucci sentiva la pressione della terra sotto le unghie, nonostante fossero trascorsi cinque anni da quando aveva seppellito l'ultimo animale. Dopo quelle rane, di fatto, era finito il tempo del dolore immaginato, condiviso con tutte le creature del cosmo, ed era arrivato, come in una rivelazione, quello reale.
Ma quando aveva scoperto del fratello morto neonato, il cosmo non aveva pianto con lui. Non aveva innalzato lamenti per la sua anima, e nemmeno lo ricordava. Come lui, del resto, ma era un non volere diverso dal suo non potere.
Enrico si era allora affidato a Dio, nella speranza di comprendere – per quanto un essere limitato potesse comprendere – la bontà infinita.
Era immerso in questi pensieri e in questi ricordi quando la sua gamba più debole, quella di cui doveva dissimulare una zoppia che gli veniva dalla nascita, cedette trascinandolo al suolo. Allora all'odore della terra umida si sostituì quello soffocante dell'incenso che permeava la sagrestia. La Bibbia, i due libri e la torcia che reggeva sfuggirono alla presa delle sue mani e lui rovinò nella realtà, sulle candele accese sotto un Cristo d'ottone.
Il suo primo pensiero fu quello di raddrizzarle, come se l'icona avesse potuto dispiacersi per il loro cadere, o deriderlo di quel suo gesto.
Stava ancora premendo i pollici su uno dei ceri, imprimendo il segno delle unghie dove la fiamma lo aveva sciolto, quando l'immagine residua della caduta gli tornò alla mente, accompagnata da un dolore che gli aleggiava come un'aureola attorno al ginocchio.
Non aveva semplicemente messo il piede in fallo, come gli succedeva da bambino. Era inciampato su qualcosa.
I suoi occhi si diressero verso le panche allineate nella cappella, e proprio sotto a una di loro gli parve di scorgere un'apparizione dorata, rapida come una lampadina che appena accesa si fulmina.
«Chi è lì?» chiamò Enrico, e la stanza vuota gli restituì la sua voce. Non poteva essere una manifestazione divina, no, certe cose avrebbero potuto anche essere vere, ma non erano per lui. «Che cosa vuoi?»
Chiuse gli occhi e si premette con forza le dita sulle palpebre, poiché aveva sentito che ad alcuni seminaristi l'esposizione prolungata all'incenso aveva dato le visioni. Quando li riaprì notò delle scarpe.
Erano di tessuto d'oro, con una punta arricciata che Enrico aveva visto solo in certi quadri in cui sovrani osmanici sedevano immobili, avvolti in vesti di stelle e presagi. Appartenevano a qualcuno che stava disteso supino sotto la panca.
«Chi sei?» ripeté il ragazzo, e temette che la propria vita finisse così, con una battuta che avrebbe potuto venire da uno dei film sempre uguali che i suoi genitori, la sera, guardavano senza ascoltare.
Le scarpe scomparvero sotto al legno, e lui fu colto dall'improvviso desiderio di battersi. Di tentare di aggredire l'intruso, prima di subire un attacco.
Così si inginocchiò a terra, stringendo con una mano il legno decorato di una panca e fingendo di ignorare i battiti forti della carotide. Si sporse per vedere chi vi fosse nascosto, ma prima che potesse dire qualcosa una voce lo raggiunse.
«È tuo, questo libro?»
Era alle sue spalle. Aveva il timbro baritonale di un uomo adulto, a confronto del quale la sua voce – a cui l'adolescenza ancora non aveva dato una forma – sembrava gracchiante, sgraziata.
Enrico si voltò di scatto, ma riuscì a scorgere solo, dietro a una colonna, un braccio dai muscoli in evidenza che raccoglieva il suo libro.
«È la famosa biografia di un prete che, dopo aver commesso adulterio, scappa per diventare un artista. Leggete questo genere di cose, voi che andate in chiesa?» commentò l'estraneo.
La mente di Enrico, nonostante la pericolosità della situazione e forse proprio per difendersi, fece sì che il suo corpo fosse percorso da una sensazione di vergogna. Ricordò il perché custodisse tanto gelosamente quel volume e la calda curiosità erotica che alcune delle sue pagine, nei momenti in cui era solo, gli avevano provocato. Allora sentì il bisogno di contare i numeri primi.
(Due tre cinque sette undici tredici diciassette.)
L'uomo, forse attratto da qualche frase, si avvicinò alla pagina che aveva davanti, bianca e piatta come lo schermo di un cinema all'aperto. Per farlo, dovette uscire dal cono d'ombra della colonna. In quell'istante, Enrico poté vedere le sue labbra carnose, la sottile ruga d'espressione che sembrava marcargli un costante sorriso.
«Lei invece non si reca molto spesso in chiesa, non è così?» domandò il ragazzo, ingoiando la paura. «In caso contrario saprebbe che questa sala è chiusa se non è domenica».
Il sole, che stava scendendo verso il suo soffuso annegare, illuminò un sorriso ferale, divertito, che fece correre un brivido lungo la spina dorsale d'Enrico.
«Vieni alla luce,» gli ordinò lo sconosciuto, con una risata trattenuta. «Voglio guardarti».
Il ragazzo, ben conscio di non poter disobbedire, mosse qualche passo verso di lui e fissò gli occhi sulla vetrata che aveva di fronte, dove la colomba dello Spirito Santo volava, reggendo il ramoscello d'ulivo, verso un regno di pace che in quel momento gli appariva grottesco.
Timoroso di spostare lo sguardo, Enrico alzò il mento e vide, come se si guardasse dall'esterno, il suo corpo di ragazzino che si atteggiava a uomo, gli ultimi raggi del primo pianeta che gli colpivano la pelle scura del collo.
«Sono allergico alla luce del sole,» gli disse l'uomo, senza commentare ciò che aveva davanti. Bastò una frase del genere a far abbassare gli occhi di Enrico, che subito si fissarono in quelli dello sconosciuto.
Erano dorati, come i suoi capelli e i suoi vestiti e come l'aura che aveva alle spalle, che lo faceva sembrare la miniatura di un santo. Lo fissavano senza spostarsi e senza tremare, a differenza di quelli del giovane che, per paura, si erano spostati nell'incavo nudo tra le sue spalle e il collo. Lì, l'uomo aveva un tatuaggio – o una voglia – a forma di stella a cinque punte.
«Questa sera, se non sbaglio, il sole tramonterà alle sei e diciannove, – (diciannove) – quindi fino a quel momento non posso tornare a casa, e sono entrato qui a riposare». Lo sconosciuto fece una pausa in cui strizzò gli occhi, come se volesse guardare meglio il ragazzo. «Sei un prete. Vedo che fanno anche la versione giovane, adesso».
Enrico, non meno spaventato di prima, si tormentò le mani e tentò di asciugarsi i palmi sudati sulla tonaca.
«Sono- sono un seminarista,» balbettò, per poi subito interrompersi. Perché glielo stava dicendo? Probabilmente quell'uomo non sapeva nemmeno cosa volesse dire. «Posso... fare qualcosa per lei?»
Lui sorrise di nuovo, nello stesso modo freddo e misterioso in cui lo aveva fatto la prima volta.
«Niente di particolare. Come ti chiami?»
«Enrico,» sfuggì dalle labbra del ragazzo, indifferenti all'irrazionale paura di firmare un contratto per la dannazione eterna.
(Sì, diglielo. Enrico. Gli assassini spersonalizzano le proprie vittime prima di infierire a coltellate. Ripetendoglielo ti potrai salvare.)
«Oh, Enrico... che nome da re. Io sono DIO,» rispose l'estraneo, con marcato accento britannico.
«La... La prego di smettere di dire cose blasfeme».
La risata dell'uomo, questa volta, salì verso la cupola, tonante e decisa. Risuonò tra le panche e gli inginocchiatoi, sull'altare, s'insinuò sino all'interno del torace di Enrico.
«Non devi prendertela con me,» replicò poi, «è così che m'hanno chiamato».
«Non-» rispose Enrico, «non dirò nulla al prete fino alle sei e diciannove. La prego di andarsene quando il sole calerà».
«Sei interessante,» commentò l'uomo, con quella che sembrava una smorfia soddisfatta. Gli porse il libro, che il ragazzo afferrò con mano tremante per poi subito evitare il contatto visivo e chinarsi a raccogliere gli altri.
«Perché?» non riuscì a evitare di domandare.
«Non mi butti fuori? Potrei essere un ladro di opere d'arte,» disse lo sconosciuto, poi fece una pausa teatrale e gli scoccò uno sguardo indecifrabile. «Oppure anche peggio».
All'improvviso quell'eventualità, che pure era stata tanto martellante nelle tempie di Enrico, detta ad alta voce gli sembrò uno sciocco timore e nulla più.
«Non penso che un ladro avrebbe detto di essere allergico alla luce del sole,» gli rispose, tutto d'un fiato. «Nemmeno Satana stesso la userebbe come scusa».
Enrico fece qualche passo verso la sagrestia, trascinando il piede sinistro.
«Deve essere vero,» dichiarò, «ed è per questo che si trova qui».
«Aspetta un momento... ti sei storto una caviglia?»
Senza preavviso, l'uomo dai capelli biondi si gettò ai piedi di Enrico e, in un gesto premuroso e quasi devoto, gli afferrò il polpaccio della gamba zoppa.
« È stata colpa mia?»
«No!» lo respinse il ragazzo. Cercò di scuoterlo via, ma la sua presa era troppo forte. «Non è per quello. Per favore, non si preoccupi. Sono così dalla nascita».
Il suo sguardo cadde sulle spalle di DIO, lasciate scoperte dalla canottiera nera che indossava, e vi notò muscoli che su di sé non aveva mai visto.
«Mi hanno detto che sono nato con due dita del piede storte. Tuttavia, questo non mi ha mai dato troppi problemi nel camminare».
Il suo tono era distante, formale. Eppure gli stava rivelando informazioni personali, come acqua che inesorabilmente precipita verso il fondo di una cascata.
Gli occhi dorati di DIO si fissarono di nuovo nei suoi, la mano scivolò verso la sua scarpa.
«Dimmi, ragazzo...» mormorò, in modo quasi intimo, «tu credi nella gravità? Credi che ci sia un motivo per cui, tra tutte le persone con cui poteva accadere, sei inciampato proprio su di me?»
Enrico lo guardò stranito, senza capire. Lui credeva nel Signore, e – se avesse dovuto dirlo con cuore sincero e animo non toccato dal male – nemmeno sempre: c'erano momenti in cui non Lo sentiva. Che cosa significava invece credere nella gravità?
«Di... di che cosa sta parlando?»
Nella mano libera di DIO era comparsa la punta di una freccia, intatta nonostante l'asta fosse spezzata. Ruotava sul suo palmo in modo alieno, come una strana bussola che, dopo tre oscillazioni, puntò proprio verso il ragazzo.
Il viso dell'uomo era vicino, non tanto da risultare allarmante ma abbastanza da mettere Enrico a disagio.
«Grazie per aver creduto alle mie parole,» disse lui a voce bassa. «Voglio farti dono di questa freccia, Enrico».
Il ragazzo rimase immobile come una statua di sale. Il nome che era suo, una volta uscito da quelle labbra di miele, pareva quasi non appartenergli più. Si accorse solo dopo qualche istante che le sue dita sfioravano quelle di DIO e la punta di freccia, che sembrava fatta in pietra.
«Se non ne avrai bisogno, non c'è problema,» gli spiegò l'uomo. «Tuttavia... non sono forse tutti gli incontri una forma di gravità? Non so cosa hai guadagnato dall'imbatterti in me, però io... viaggio per il mondo in cerca di questi incontri, per così dire. Se mai vorrai rivedermi, affida questo tuo sentimento alla freccia, e a me non importerà quanti anni saranno passati da oggi. Mi ricorderò di te. Mi hai capito?»
(Sei la prima persona che mi dice che si ricorderà di me.)
Enrico rimase a fissarlo, in silenzio ma con il "sì" degli sposi dipinto nel fondo delle pupille.
«Me ne andrò quando il sole tramonterà,» furono le ultime parole di DIO prima che si immergesse nell'ombra lunga degli archi.
Il ragazzo, interdetto, non riuscì a fermarlo. Non riuscì a dire nulla prima di rendersi conto che era rimasto senza la scarpa e senza il calzino sinistro.
Il piede nudo che aveva appoggiato a terra non gli doleva e non aveva nessuna imperfezione. Le dita erano dritte, in linea le une con le altre.
«C-che cosa...» si ritrovò a mormorare, sgomento. «Quell'uomo ha fatto questo? Chi...»
Enrico si sporse nel buio e gridò:
«Aspetta! Chi sei?»
(Gesù a Cafarnao guarì gli infermi.)
«Che cosa sei?»
E il buio non disse niente.
1988.
Le fiammelle delle candele allineate sulla vasca tremolavano nella penombra. Quando Enrico aprì la porta, la lama di luce cadde sul volto di DIO e illuminò il suo sorriso; del corpo, immerso nell'acqua, si potevano invece solo intuire le forme.
Il ragazzo, in silenzio, gli si avvicinò. Lui alzò pigramente una mano e afferrò l'asciugamano che Enrico portava legato in vita, di un bianco in netto contrasto con la sua pelle.
«Cosa c'è, ne vuoi ancora?» gli domandò, con voce giocosa, tirandolo verso il basso e sciogliendo il nodo lasco che lo reggeva. «Vieni qui».
Prima ancora che il giovane potesse rispondere, le mani di DIO lo strinsero in una presa salda sui fianchi e lo trascinarono nella vasca, sopra di lui.
Enrico, con le dita tra i suoi capelli bagnati, cominciò a baciare quell'idolo d'oro con passione crescente. Sentì le labbra dell'uomo, sotto le sue, inarcarsi in un ghigno soddisfatto, e venne percorso da scosse di piacere che come serpenti gli strisciavano fino al ventre.
«Enrico,» mormorò DIO. Di nuovo la strana, inebriante sensazione di sentire il suo nome pronunciato da lui lo travolse. «Vieni un po' più giù. Da bravo».
Il ragazzo, ricevute due lievi pacche sui glutei, obbedì e gli si sedette a cavalcioni in grembo. DIO gli passò una mano sul petto – era cresciuto, e il suo fisico era più definito, anche se gracile a confronto di quello statuario dell'uomo – e gli sfiorò i capezzoli con il pollice, lasciando una lunga striscia d'acqua che poi provvide a leccare.
Lui, che gradiva la posizione e quel tipo di attenzioni, reclinò all'indietro la testa e con arte si lasciò sfuggire un lieve gemito.
Ebbe il risultato sperato: DIO gli affondò le dita nelle cosce e lo attirò verso di sé, poco alla volta, accarezzandogli il viso con una mano quando sentì quello che gli parve un lamento.
«Ti voglio, Enrico».
Cominciò a muovere i fianchi a un ritmo lento, accompagnato dallo sciabordare dell'acqua calda e dagli ansiti del ragazzo, che faticava già a mantenere il silenzio e un respiro regolare.
Enrico si rese conto di essere venuto dopo qualche minuto di quella fantasia, mentre si immaginava avvinghiato alle spalle di DIO. Ai primi tempi se ne vergognava, ma dopo un anno dal loro incontro si era abituato a quei sogni che lo facevano deviare ogni notte di più dalla via che si era scelto.
Non doveva più cercare giustificazioni. Non sentiva neanche più il bisogno di immaginare scopate in posizioni acrobatiche per stimolare la propria fantasia. Gli bastava pensare a lui, al profilo del suo corpo nella penombra e al timbro della sua voce che ricordava così bene.
Gettò la testa all'indietro sul cuscino e, quando sentì il rumore della punta di freccia che raschiava sul comodino, oscillando come un ago di bussola, si forzò a svuotare la mente. Forse era solo una superstizione, una frase che DIO aveva pronunciato sebbene non avesse un significato, ma se davvero quel manufatto lo avrebbe portato da lui grazie al solo desiderio, allora doveva stare attento.
Perché il suo era il desiderio più intenso di tutti.
Si aggrappò al fatto che dopo due mesi sarebbe potuto tornare a casa, in occasione del suo compleanno, in modo da passare una settimana con la propria famiglia. La stessa che lo amava e aveva accettato con buona disposizione d'animo la sua decisione di entrare in seminario; la stessa, eppure, da cui si stava allontanando, perso nell'ossessiva follia per uno sconosciuto.
Forse quella follia serviva, per una mente che non riusciva a pensare di non pensare, a smettere di porsi tutte quelle domande che in sedici anni non avevano trovato risposta. Qual era il disegno ineluttabile del fato? Perché era stato scelto lui e non suo fratello, morto subito dopo essere nato? Come erano collegate la felicità e la disperazione?
Quel giorno, come tante altre volte, a Enrico era stato affidato il compito di aiutare a pulire la chiesa. Mentre bagnava lo straccio nel secchio, e cercava di scacciare i vagheggiamenti peccaminosi almeno in quel luogo sacro, udì la flebile voce di una donna provenire dall'altro lato del confessionale che lo nascondeva alla vista.
«Padre, la supplico, ascolti la mia preghiera,» diceva, «voglio confessarmi».
Enrico sgranò gli occhi e, lasciato a terra il secchio, entrò nel confessionale e prese a tormentarsi le mani, come faceva sempre quando era nervoso.
«Le... le vado a chiamare un prete...» rispose, con un tono troppo poco deciso per essere sentito.
«Sono gravemente malata,» continuò infatti la donna. Da oltre la grata in ferro, Enrico vedeva le sue mani giunte in preghiera. «Ho paura... non c'è nessuna cura che possa aiutarmi...»
Dalla sua voce incrinata, il ragazzo comprese che non le importava chi la stesse ascoltando: le bastava solo che ci fosse qualcuno, dall'altro lato. Allora ricordò la sofferenza condivisa con i cadaveri dei pettirossi e con le rane cadute dal cielo, e scelse di rimanere.
«Quello... quello di cui le voglio parlare però riguarda la mia famiglia,» singhiozzò. «Sedici anni fa, il cinque giugno... Ho scambiato il mio neonato, che mi era morto tra le braccia, con un altro bambino».
Il cuore di Enrico gli saltò in gola. Sedici anni prima, il cinque giugno. Era il giorno in cui era nato. In cui erano nati, lui e...
«Erano due gemelli».
Il giovane sentì il proprio battito fermarsi e poi riprendere, accelerato. Sgranò gli occhi nella penombra e schiuse le labbra, ma un presentimento che era quasi una certezza gli asciugò la saliva e gli impedì di intervenire.
«Li ho scambiati quando nessuno guardava, e... quando penso ai genitori di quei due bambini, mi si spezza il cuore. Ma continuavo a negare che mio figlio fosse morto, e allevai quel bambino con amore... con tutte le mie forze... ed ora è un ragazzo così bello...»
Enrico sentì le ciglia umide e si sporse ulteriormente per tentare di scorgere il più possibile il viso della donna. Aveva i capelli castani, legati a ciocche da elastici rosa.
«Se... se sto davvero morendo...» pianse lei, «allora forse dovrei dirgli che ha un gemello? Ma se lo facessi, allora perderei mio figlio e... non posso... cosa dovrei...?»
«Lei...» mormorò Enrico, con voce spezzata. «Sa chi sono i veri genitori del bambino?»
Era ovvia, la risposta. Gemelli, nati il cinque giugno. In una piccola cittadina.
Suo fratello, un caso di morte in culla.
Voleva sentirlo dalle sue labbra.
«Il loro cognome è Pucci. Abitano in una villa nel paese vicino al mio».
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