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Capitolo I - Un'aria diversa


N.d.A. I personaggi di questa storia sono frutto della mia immaginazione. Ho ambientato le vicende dei protagonisti nella città di San Pietroburgo, uno di quei posti che un giorno spero di poter visitare. I luoghi descritti sono, infatti, reali e spero che, nel proseguire questo racconto, io riesca a renderli nel migliore dei modi. Per cui, chiedo scusa se verranno trovati degli errori.
Grazie!


"You come around and the armor falls
Pierce the room like a cannon ball
Now all we know, is don't let go (...)
And I never saw you coming...
And I'll never be the same... "
Taylor Swift – State of grace



1. Un'aria diversa


Luglio 2013


Flavia scartò la stagnola con l'unghia del dito indice e s'infilò in bocca il cioccolatino che la bella hostess le aveva offerto. Fondente, buono.
Posò il capo all'indietro, sul poggiatesta del sediolino di pelle nera, guardando attraverso il vetro spesso del piccolo oblò l'ala grigia del boeing 747 che si stagliava contro il cielo chiaro di quel mattino di inizio luglio.
D'istinto sollevò improvvisamente la mano, ad afferrare il vuoto, sfiorandosi il petto. Senza la sua macchina fotografica al collo si sentiva fragile, esposta. Sperò di non incappare in chissà quali problemi al suo arrivo; soprattutto che il bagaglio stivato nella pancia d'acciaio dell'aereo giungesse intatto a destinazione, col suo tesoro sistemato nella custodia antiurto, infilata tra jeans e camicette.
Flavia poteva perdere vestiti, soldi, documenti. Tutto. Ma non la sua macchina fotografica, una parte di sé fondamentale quanto un braccio o un piede. Chiuse gli occhi, rilassata.
"Credo che tu sia la persona giusta per questo incarico".
Era ciò che le aveva detto il caporedattore della rivista appena qualche giorno prima, proponendole di fare un reportage fotografico nella città di San Pietroburgo, avendo a disposizione ben tre settimane.
La Russia!
Aveva già lavorato all'estero un paio di volte, consumando il lavoro in soggiorni brevissimi, e spiccicava abbastanza inglese da cavarsela senza problemi.
Ma la Russia! Poteva indicarne col dito l'ubicazione geografica su di un mappamondo, ma non conosceva niente di quell'immenso paese, tanto meno di quella città marittima attraversata da fiumi e canali, e perciò definita la "Venezia del Nord".
Aveva accettato senza nemmeno pensarci. E non se ne era pentita nemmeno per un'istante. Era l'occasione di una vita: veder pubblicate le sue foto sulle pagine patinate di una rivista a tiratura nazionale, guadagnando in esperienza, prestigio e, perché no, infilarsi in tasca qualche soldino in più.
Era il trampolino di lancio che agognava da anni.
Da lì, le sue foto avrebbero potuto essere notate da altre riviste o giornali e così ottenere altri incarichi e partecipare a progetti simili.
Inoltre, quel viaggio sarebbe stata l'occasione giusta per vedere un posto totalmente nuovo, fuori dalle solite tappe, e fare bellissime fotografie. L'occasione per incontrare gente diversa, con una cultura differente, e assaggiare i piatti locali.
L'occasione di allontanarsi da Stefano.
Poco prima dell'imbarco, s'era messa a guardare il display acceso del cellulare, che le mostrava le cifre bianche di un numero che conosceva a memoria, indecisa se assecondare oppure no la tentazione di sentire la sua voce. Dopo diversi minuti, Flavia aveva spento il telefonino e l'aveva infilato nella sua tracolla. Qualche passo in avanti, a percorrere il tunnel d'imbarco, ed era salita sull'aereo, accolta dal sorriso cordiale ed affascinante di uno steward.
"Tra me e mia moglie è finita, ormai. Ci stiamo separando".
Dopo due anni, era ancora così: ci stiamo separando, tra me e lei è finita. Talmente finita che quasi non si era sorpresa a vederlo passeggiare mano nella mano con la moglie, mentre guardavano sorridenti la loro bambina pedalare su di una bicicletta rosa fornita di rotelline e laccetti di plastica colorata.
Stefano s'era accorto della sua fortuita presenza e Flavia era rimasta impassibile, scorgendo il terrore negli occhi di lui. Ma aveva girato sui tacchi, volgendogli le spalle, e si era allontanata.
Quella sera stessa, lui l'aveva cercata. Lei lo aveva mandato a quel paese. Era accaduto già altre volte, per diversi motivi. E tutte le volte era ritornata sui suoi passi, illusa dalle scuse e dalle promesse. Promesse di amore, normalità e vita assieme, nelle quali Flavia ci cascava di continuo.
I fine settimana passati da sola, le feste comandate trascorse ad aspettare telefonate che puntualmente non arrivavano. O se arrivavano, duravano il tempo degli auguri e dei "Ti Amo" sussurrati a mezza bocca, col rischio che qualche orecchio indiscreto lo sentisse. L'amore consumato nel suo letto in modo frettoloso, quando lei avrebbe semplicemente desiderato svegliarsi la mattina accanto a lui. Anche una sola volta.
"Conosci la mia situazione. Ho bisogno del tempo necessario per sistemare le cose. Abbi pazienza, non voglio che qualcuno soffra".
Lei non era qualcuno, evidentemente, perché ci soffriva.
Nello spegnere il cellulare senza averlo prima chiamato, Flavia era finalmente riuscita a mettere la parola Basta in quella storia.
A trentuno anni, Flavia poteva dirsi più che soddisfatta della sua vita: aveva una passione che aveva trasformato in lavoro, una splendida famiglia, un bilocale a Roma dalle pareti coperte delle sue foto più belle e tanti amici. Fece una smorfia appagata, riflettendo sul fatto che aveva già tutto ciò di cui abbisognava.
Si era innamorata dell'uomo sbagliato: un evento banale, di quelli che ci facevano libri e film altrettanto banali; era accaduto a lei, così come era accaduto a milioni di altre donne.
Forse la questione era un'altra: si era innamorata dell'uomo sbagliato, sapendo sin dall'inizio che lo era. Contro il parere di tutti e forse anche contro quello razionale della sua testa, Flavia aveva voluto dare una possibilità ai sentimenti che provava per quell'uomo dall'aria matura e sicuro di sé, affascinante e dolce, che l'aveva corteggiata romanticamente, senza darle altra scelta se non quella di innamorarsi, nonostante sapesse che era già sposato.
Un uomo dimostratosi, però, incoerente e profondamente privo di coraggio. Diceva che l'amava e, col tempo, aveva abbondantemente dimostrato l'opposto. Flavia ci passava sopra, ostentando, difronte agli altri, una superiorità che in realtà non aveva.
"Ascoltami, non si separerà mai! Si trova in una situazione di comodo, con la moglie a casa e l'amante sempre a disposizione" le ripeteva Mary, la sua migliore amica "Mollalo! Meriti qualcosa di più".
"Si sta separando" ribatteva Flavia "Ha una figlia, non posso pretendere chissà che cosa... e poi va bene così. Ho le mie cose, i mei spazi. Non sarei comunque pronta ad una relazione stabile".
Ogni volta, Mary la fissava con aria stanca, rassegnata ad ascoltare quelle sfacciate bugie.
La sera in cui l'aveva cercata, Stefano aveva provato persino a giustificarsi; e mentre lo ascoltava, Flavia scuoteva la testa, con le lacrime agli occhi e il fiato corto. Il velo era caduto, mostrando ciò che lei aveva volutamente occultato, dando spazio ad una dimensione ben diversa da quella che si era costruita.
E poi va bene così. Non era vero. Era andata male ed era finita peggio.
Deglutì a vuoto, sperando che la bella hostess ritornasse da lei per offrirle un altro cioccolatino. Non riuscì a vederla e sbuffò.
Che se ne faceva di un uomo come quello? Due anni completamente buttati a trincerarsi nella sciocca idea che un giorno non lontano, loro due sarebbero stati finalmente assieme.
Si diede della stupida, senza riuscire a capacitarsi che le fosse servito tutto quel tempo e la vista della bella e felice famigliola a capirlo. A capire che, probabilmente, era lei la peggiore tra loro: un'emerita deficiente, col prosciutto sugli occhi.
Un giorno avrebbe trovato la persona adatta, ma non era quello il momento. Flavia sentiva di dover staccare la spina e quell'ingaggio improvviso e inaspettato era stato una manna dal cielo. Dopo un periodo di stallo professionale e personale, il reportage a San Pietroburgo era davvero una benedizione, in tutti i sensi.
Il tempo di passare in agenzia a ritirare i biglietti e a confermare la prenotazione fatta dalla segretaria; aveva poi sistemato le ultime cose e preparato la sua strumentazione, lasciato la gatta all'anziana vicina e telefonato alla mamma e a Mary, ancora più entusiaste di lei per la notizia di quel nuovo progetto.
In capo a due giorni dal colloquio col caporedattore, Flavia era pronta.
Aveva fatto la valigia senza nemmeno ricordare cosa ci avesse ficcato dentro, talmente era forte la frenesia di partire, e aveva lasciato l'Italia per andare a trascorrere tre settimane a San Pietroburgo, pagata per fare ciò che amava di più al mondo: scattare fotografie.
Mosse di nuovo le dita, nervosamente, immaginando di impugnare la sua macchina fotografica.
Una parte di sé. Il suo tesoro.

Appena recuperata la valigia dal nastro trasportatore, Flavia aveva subito controllato che la sua reflex non avesse subito colpi o danni. Aveva aperto la cerniera del trolley, infilando il braccio tra i vestiti e sorridendo sollevata nel sentire sotto i polpastrelli il contorno della custodia chiuso ed intatto, così come lo aveva sistemato alla partenza. Lo tirò fuori e se l'appese al collo, con una profonda sensazione di liberazione.
Uscì dall'aeroporto e avvertì il calore del sole sul viso. Si calò sugli occhi le lenti da sole e prese un grosso respiro. L'ossigeno era uguale a quello che c'era in qualsiasi altro luogo del pianeta e fuori da quell'aeroporto non aveva alcun odore particolare.
Eppure Flavia avvertì distintamente che quell'aria era diversa. Era nuova, tiepida, rassicurante. Eccitante.
Sincronizzò l'ora del suo orologio al nuovo fuso orario: nonostante tutto, era ancora presto. Riuscì a chiamare un taxi e decise di mettersi subito al lavoro, prima di andare in albergo.
"Hermitage Museum, please".

Piazza Dvortsovaya era immensa, circondata da edifici eleganti dalle facciate imponenti e squadrate. In un inglese un po' stentato, il tassista aveva informato la sua cliente che quello era giorno di chiusura del museo.
Flavia aveva arricciato le labbra, delusa; poi aveva pensato che fare comunque un sopralluogo preliminare non sarebbe stata per niente una cattiva idea. Era appena arrivata e sentiva il bisogno di non sprecare l'energia che le bruciava addosso in quel momento e, quindi, di non perdere tempo.
Scesa dal taxi, Flavia aveva fatto un largo sorriso, accecata dai riflessi del sole sul fiume Neva, che sfociava in mare. Sorriso che si era allargato ancora di più quando aveva messo piede nella grande piazza, già affollata di turisti, ricevendo il benvenuto dal cielo azzurro e dallo stile neoclassico delle architetture.
Ed era solo una parte, forse la più conosciuta, di quella città.
Avrebbe fatto delle foto grandiose.

Nella vasta piazza, seduto al tavolino del piccolo bar, cacciò il fumo dalle narici e spense il mozzicone di sigaretta nel posacenere di plastica bianco. La tazza del caffè era vuota; l'aroma del liquido denso e scuro che il contenitore di ceramica colorato aveva contenuto poco prima, si spandeva ancora nell'aria di mezzogiorno.
Recuperò il quotidiano comprato poco prima e aggrottò la fronte, scorrendo velocemente i fatti di cronaca; aveva appena aperto il giornale alla sezione delle notizie sportive, quando la vide.
Lunghi capelli castani svolazzanti, occhiali da sole dalle lenti grandi e nere, camicetta azzurrina di lino, jeans aderenti alle lunghe gambe, Superga bianche. Attraversava la piazza a passi svelti, trascinandosi dietro un trolley e indossando al collo una custodia nera, forse a contenere una macchina fotografica. Una turista.
Sollevò un sopracciglio alla vista del sedere tondo e sodo, che si muoveva invitante ad ogni passo. Una turista niente male, pensò.
La seguì con lo sguardo finchè non la vide scomparire dietro la base monumentale della colonna posta al centro della piazza.
Tirò su col naso e cominciò a leggere i risultati delle ultime partite di campionato.

Flavia inforcò la sua reflex e prese a scattare qualche foto di prova alla facciata barocca del museo, controllando il risultato sul display digitale. Poi si appoggiò con la schiena contro la cancellata di ferro che circondava il piedistallo cubico di una colonna di marmo, al centro della piazza.
Si guardò attorno, con fare pensoso. Percorse per intero il perimetro del monumento, ritornando allo stesso punto da dove era venuta. Lasciò il suo trolley e studiò il panorama.
Si aggrappò all'inferriata, infilò un piede tra gli interstizi e si tirò su. Salì ancora e, facendo forza sulle gambe, cominciò a fare qualche foto.
Mugolò soddisfatta rendendosi conto che le inquadrature fatte da quel punto rialzato erano migliori.
Continuò a scattare, concentrata, senza far caso al poliziotto che le si stava avvicinando.

Si accese un'altra sigaretta e cominciò ripiegare il giornale, annoiato. S'accorse di alcuni avventori, seduti al tavolino del bar difronte a lui, che avevano cominciato a guardare e a commentare qualcosa al centro della piazza, divertiti.
Si voltò e vide la bella turista che aveva notato poco tempo prima: si era arrampicata sulla cancellata del monumento e aveva cominciato a scattare delle foto. Un poliziotto si stava avvicinando a lei, a grandi passi, e rivolgendole alcune minacce. Lei sembrava non averlo visto né sentito, troppo presa nel fare fotografie.
Inspirò un tiro e piegò la sigaretta dalla punta appena consumata nel posacenere, poi si sollevò di scatto in piedi. In tutta fretta, lasciò i soldi del caffè e il giornale spiegazzato sul tavolino e si mise a correre attraverso la piazza.

Una mano enorme afferrò Flavia per un braccio, cercando di tirarla giù. Lo strattone le fece perdere l'equilibrio ma fece leva sulle gambe e riuscì a non cadere; poi guardò in basso e borbottò infastidita contro il poliziotto che continuava a tirarla con forza, pronunciando parole incomprensibili al suo indirizzo.
"Hey! Keep calm! I'm going down!" gli disse.
Quello tirò ancora, con violenza, e Flavia si rese improvvisamente conto che forse il poliziotto aveva intenzioni serie. Per quanto non capisse nemmeno una sillaba di ciò che le stava dicendo, il tono usato non era per niente rassicurante. Con un saltello, riuscì a mettere entrambi i piedi a terra, rischiando di finire addosso alla guardia.
Fece per divincolarsi, quando un ragazzo biondo arrivò di corsa, interponendosi tra lei e l'energumeno in divisa scura. Vide il nuovo venuto parlare con lui, con fare conciliante; il poliziotto mollò la sua presa ma senza smettere di rivolgerle occhiate furibonde.
Da quel che Flavia riuscì a capire, più dai gesti che dalle parole, quello sconosciuto si faceva garante che lei non prendesse in futuro altre iniziative simili. L'uomo annuì e si allontanò, senza mancare di lanciarle un ultimo sguardo di traverso e mormorare quella che sembrò essere un'imprecazione stizzita.
Flavia depose la macchina fotografica nella custodia, pensando che, come primo giorno, forse aveva davvero esagerato: "C'è mancato poco" mormorò.
Il ragazzo biondo si voltò verso di lei, aggrottando la fronte in un'espressione perplessa.
"I want to thank you..." cominciò a dirgli.
"Sei italiana?" domandò il giovane, con una lieve inflessione nella voce.
"Parli la mia lingua?".
Il ragazzo sorrise, rivelando una fila di denti dritti e bianchi tra le labbra spesse e rosse; per un'istante Flavia ne rimase abbagliata.
"Certo! Per certi versi, posso considerarmi italiano" allungò la destra verso di lei "Mi chiamo Youri".

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