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Capitolo 3

La domenica dovrebbe essere un giorno di pace.

Dovrei poter restare a casa con la mia famiglia e passare del tempo con loro, rilassarmi, accantonare ciò che accade in ufficio e lasciare lì le cose che rischiano di farmi esplodere di rabbia, prima o poi.

E invece no, perché al contrario di ciò che pensa il resto del mondo, il mio matrimonio sta andando in frantumi.

La routine di mia moglie è diventata: ignorarmi e circondarsi di più persone possibili durante il giorno, in modo da non rimanere da sola con me. Per poi gettarsi addosso a me la sera, quando restiamo soli e nostra figlia dorme, come se tutto andasse bene. Non parliamo mai, scopiamo e basta.

Sophia era la mia migliore amica, non c'era cosa di cui non parlassimo, eravamo complici, avevamo una sintonia perfetta. Non c'erano segreti tra di noi o problemi che non potessimo risolvere insieme.

Quindi ritrovarsi ad essere all'improvviso quasi due estranei, è un gran bella batosta. Qualcosa di totalmente inaspettato.

E per quanto stia provando e riprovando a far funzionare le cose, non potrà mai succedere se dall'altra parte non c'è un interesse pari oppure minimo. 

«Allora?» la voce del mio migliore amico, Darius Reyes, mi riporta nello studio di casa sua, dove sfortunatamente non siamo soli. «Hai qualche idea per il progetto?»

Annuisco con la testa anche se non ho la minima idea di quale progetto stia parlando. Di solito ascolto con attenzione ciò che Darius ha da dirmi, soprattutto se si tratta di lavoro.

Come posso però concentrarmi se ho davanti una ragazzina che picchietta a ripetizione i suoi tacchi di un rosa osceno sul pavimento di marmo?

Il suono non fa altro che martellarmi nella testa.

Trattengo l'impulso di avvicinarmi e bloccarle le gambe scoperte dalla gonna bianca e troppo corta, in modo da farle smettere di creare questo rumore fastidioso.

Volevo restare a casa mia oggi, dannazione. Non volevo accettare l'invito a cena di Darius ma Sophia mi ha preceduto e l'ha fatto, quindi mi sono dovuto arrangiare in qualche modo.

E poi Kayla, mia figlia, ama passare il suo tempo qui. È molto amica di Dorian, il figlio di Darius. In realtà è molto legata ai Reyes in generale.

«Se te perdió algo?» mi chiede in spagnolo la ragazzina bionda davanti a me.

La stessa ragazzina bionda che da piccola stravedeva per me. La stessa ragazzina bionda che ho visto crescere e che per me era come una sorella minore, tra tutti i Reyes era la mia preferita, avevo un occhio di riguardo per lei.

La stessa ragazzina bionda che ha mandato a puttane tutto baciandomi quando aveva quindici anni, come se fossi un ragazzino della sua età, come se non l'avessi vista crescere, come se facendolo non mi avrebbe messo nei guai.

Guardo Darius per farmi tradurre ciò che ha detto. Funziona così ormai. Lui mi traduce gli insulti che la sua cara e dolce sorellina mi rivolge in una lingua che non conosco.

«Ti ha chiesto se hai perso qualcosa, ignorala», dice il mio amico. Col cazzo però che la ignorerò.

«Sono proprio qui, Darius, ti sento» dice però Irisabelle, precedendo qualsiasi cosa volessi dire. «E mi hai chiesto tu di presenziare a questa... cosa. Potevo benissimo restare di là a mangiare, come stanno facendo tutti gli altri». Poi riporta lo sguardo su di me e assottiglia gli occhi. «Continui a fissarmi con quegli occhi critici, quindi probabilmente hai davvero perso qualcosa».

«Sì», rispondo, «Rischio di perdere la pazienza se continui a picchiettare quei cosi infernali sul pavimento».

Probabilmente farglielo notare non è stata una mossa saggia, perché conoscendola ora lo farà di proposito per darmi sui nervi.

Infatti guarda prima le sue scarpe infernali, poi me e sorride.

«Non riesci a concentrarti, per caso?» chiede e continua con il picchiettio irritante. Ci metterei meno di un secondo a raggiungerla e bloccarla.

«Non mi distrai in alcun modo, mi irriti, il che è diverso».

«Allora spara la tua idea, te ne sarà pur venuta una in mente dato che non ti ho distratto per niente, no?» chiede, «Avanti, ti stiamo ascoltando, Tutankhamon». Incrocia le braccia al petto e mi sfida con lo sguardo.

Dannata ragazzina.

«Lo sai chi era, almeno?» le chiedo, «Lascia stare, mi sorprende già solo il fatto che tu abbia pronunciato un nome così lungo. Sapere addirittura chi fosse, sarebbe uno sforzo enorme per te» aggiungo poi, trattandola con sufficienza, come d'abitudine ormai.

Solo che la ragazzina non si zittisce e nemmeno si offende, anzi, si alza in piedi e mi sorride.

«Tutie, è stato un faraone egizio» inizia, abbreviando il nome, «Precisamente il dodicesimo e faceva parte del Nuovo Regno. È salito al trono a circa nove o dieci anni, non è stato accertato» prosegue, guardandomi dritto negli occhi. «Ora è una mummia, proprio come te», conclude e si stampa in faccia un sorriso più falso dei soldi del Monopoly di mia figlia. «Vuoi che continui con la lezione di storia o arriviamo al dunque?»

«È sempre stata così insopportabile?» chiedo al fratello, ignorandola completamente. Lei contro ogni aspettativa ride e anche forte.

«Tendrías que ver la cara de idiota que pusiste».

Guardo un'altra volta Darius in attesa della traduzione e mi ripeto che devo iniziare ad imparare le basi dello spagnolo. In realtà me lo ripeto da anni ormai, da quando ho conosciuto Darius e ho iniziato a frequentare lui e la sua numerosa famiglia.

«Irisabelle», la rimprovera suo fratello con aria seria.

Mi chiedo spesso come faccia a stare dietro a tutte queste persone, probabilmente io al posto suo non ce l'avrei mai fatta. Ho solo un fratello più piccolo, ci passiamo due anni e ci sentiamo solo per darci gli auguri a ogni festività. Stessa cosa vale per i miei genitori.

«Qué?», risponde lei. Come se non mi avesse appena insultato in una lingua che non conosco. «Ho solo detto che dovrebbe vedere la faccia da idiota che ha fatto».

«Non capisco che utilità abbia», dico a Darius, ignorandola ancora una volta e parlando di lei come se non fosse presente. «Perché hai chiamato anche lei nello studio?»

«Decido di sorvolare sulla questione dell'utilità e mi aggrego nel fare la stessa domanda» dice, spostando la sua attenzione sul fratello. «Doralia è proprio qui, sta mangiando insieme a tutti gli altri, avrebbe potuto mollare due minuti Clara a suo marito e parlare con voi. Non crollerebbe il mondo e non violerebbe alcuna clausola, che cavolo», borbotta. «Non vuoi lasciarmi in pace nemmeno la domenica?»

«Stai sostituendo Doralia e per questa ragione fai parte della squadra anche tu», le risponde con calma. «Ci metti fantasia quando insulti e usi la stessa fantasia per creare insulti nuovi, sicuro potrai usufruirne un po' per fare qualcosa di buono».

«Se prima l'intenzione era quella di comportarmi come una donna adulta e ragionevole, ascoltarti per poi eventualmente provare ad aiutarti», inizia a dire lei, «Ora che mi hai parlato in questo modo, non ci penso nemmeno».

«Menomale, anche perché al posto di aiutare avresti sicuramente sabotato il progetto in qualche modo» dico e non ci penso nemmeno a toccarla piano o a parlarle con riguardo. «Ti basta parlare per fare guai».

«Bueno, ya fué, me harté» mugugna in spagnolo, dopodiché ci gira le spalle e fa per andarsene.

Io non ho nulla da ridire, anzi, mi farebbe piacere se uscisse da quella porta. Ma suo fratello sfortunatamente la prende dal braccio per farla fermare.

«Dove diamine te ne vai?» le chiede, poi guarda prima me e poi lei. «Gesù, voi due sembrate una vecchia coppia sposata che non fa altro che bisticciare».

«Preferirei passare il resto della mia vita con un pesce piranha attaccato alla giugulare», gli risponde Irisabelle, fingendosi schifata.

Dico che finge perché lo so che probabilmente continua a scrivere il mio nome sui quaderni, circondato da stupidi cuoricini, come quando aveva quindici anni.

«Un bulldozer sui testicoli causerebbe meno danni di te e sarebbe sicuramente meno pesante», le dico, ignorando la presenza del mio amico. Suo fratello.

«No, continuate pure, mi diverte proprio questa sorta di discussione da liceali».

«Tecnicamente tua sorella lo è», gli faccio notare. Anche se lo so che non va più al liceo.

«La tua, forse» dice, come se non sapesse che non ho sorelle. «Io ho finito il liceo da un pezzo, sapientone», aggiunge e qualcosa mi dice che avrebbe voluto dire altro invece che limitarsi a sapientone.

«Non mi dire, pensavo andassi ancora all'asilo, i capelli a caschetto ti donavano».

«Que hijo de...» strilla lei. Questa parolaccia la so e prima che possa finire di dirla, Darius la zittisce.

«Irisabelle!»

«Mi pelo era horrible y el...» prova a giustificarsi lei, parlando in spagnolo. Darius però le lancia un'occhiataccia per farle capire che deve parlare una lingua che posso comprendere anche io. «I miei capelli erano orribili e lui l'ha detto di proposito per farmi incazzare».

«Va bene, è ora di smetterla di litigare e di parlare di cose serie» dice il mio amico, «Anzi, facciamo così: Voi due restate qui dentro per almeno un'ora, trovate idee e ve le appuntate su un foglio. Quando torno ne riparliamo».

«Non ho capito, vuoi tenerci in ostaggio nel tuo studio, a casa nostra e mentre di là ci sono tutti gli altri?» chiede la ragazzina, quasi scioccata e anche piuttosto seccata.

Come se a me invece potesse far piacere restare qui dentro con lei.

«Domani mattina dobbiamo incontrare il signor Harrington e voi due dovete esercitarvi a rivolgervi la parola senza insultarvi», indica prima lei e poi me. Che cazzo.

Sta dando i numeri pure lui come la sorella.

«E ora chi sarebbe questo signor Harrington?» chiede lei, esausta. «Che cognome di merda, poi» aggiunge, «È domenica, Darius, devo ricordartelo?»

«Harrington è il nostro cliente e non m'importa se è domenica, dobbiamo trovare una soluzione prima di domani».

«Non puoi farlo, non puoi obbligarmi a restare chiusa qui dentro con quell'essere» piagnucola lei, indicandomi con un cenno del capo.

«Lei forse la puoi obbligare, però non puoi obbligare me» decido di dire finalmente la mia, «Non siamo a scuola, non ho tredici anni e non sei il mio cazzo di professore».

«È lavoro, Kyran», dice Darius, come se questo giustificasse tutto quanto.

«Posso svolgerlo da casa mia più tardi e mandarti per e-mail le idee».

Non devo necessariamente condividere l'aria o la stanza con la tua sorellina maleducata e rompicoglioni.

«Vorrei che Irisabelle partecipasse».

Io vorrei che Irisabelle sparisse dal mio raggio visivo, eppure...

«Ma che ti ho fatto di male?» sbotta lei, «Perché mi odi così tanto?» domanda al fratello. «Pensavo che ti piacesse torturare Nikla, che io fossi la tua preferita insieme a Doralia e i gemelli».

«Non ho un fratello o una sorella preferiti, vi amo tutti allo stesso modo», le risponde Darius, guadagnandosi un'occhiata stizzita.

«Tutti tranne Nikla, puoi dirlo, sai?» gli chiede, «Sto scherzando, probabilmente farei meglio a dire tutti tranne me. È me che vuoi tenere in ostaggio». L'ultima parte la dice come se stesse parlando da sola con se stessa.

«Quindi potete farmi questo favore?» chiede Darius, non dando peso alle parole di sua sorella. «Non vi sto chiedendo molto».

Cazzo se sta chiedendo molto. Sta chiedendo decisamente troppo, in realtà

«Se questa storia finisce male dovrai fornirmelo tu un'alibi credibile, ti avviso» gli dice lei, cedendo. «Non passerò il resto della mia vita in carcere per colpa tua».

Lo dice come se avesse qualche possibilità di torcermi anche solo un capello. Sono alto il doppio se non il triplo o il quadruplo di lei, sono enorme e lei è piccola. Non riuscirebbe nemmeno a farmi il solletico probabilmente.

Potrebbe provare ad uccidermi a furia di chiacchiere o di picchiettare quei maledetti tacchi sul pavimento, forse in questo caso ci riuscirebbe.

«Dammi un foglio, una penna e un bicchiere di whisky, poi togliti di torno», dico a Darius, felice come lo sarebbe uno che sta per assistere ad un funerale o che sta per sottoporsi alla vasectomia.

«Fanculo, prenditeli da solo», risponde ridendo. «Conosci questo posto quasi meglio di me».

Ed è vero, conosco ogni singolo angolo e spazio di questa villa enorme.

«Cattivo, Darius, non si dicono le parolacce. Non hai un fratello maggiore che ti insegna le buone maniere?», lo stuzzica sua sorella. Lui le scompiglia i capelli, accarezzandole la testa come si fa con i cagnolini.

«Vado», dice, «Non voglio trovare sangue sulla mia scrivania nuova, al mio ritorno».

Lui scherza ma sono sicuro che la sua sadica, poco coscienziosa e vendicativa sorellina stia davvero pensando di ficcarmi nel collo il suo tacco rosa da Barbie, per recidermi un'arteria.

«Risparmierò la tua scrivania, non ti assicuro che le pareti e le tende ne usciranno illese però», risponde lei con il suo solito sarcasmo.

Restiamo soli, lei in piedi al centro della stanza, io mi vado a sedere dall'altra parte della scrivania. Prendo un foglio, prendo la penna dove c'è scritto il nome della nostra società.

Fanculo Darius, fanculo il signor Harrington e fanculo anche a questa domenica del cazzo.

«Non dobbiamo necessariamente parlarci per fare ciò che ci ha chiesto mio fratello, tu stai lì, spremi le meningi, scrivi su quel foglio» indica il foglio che ho davanti a me e la penna che ho in mano. «Io farò altrettanto seduta qui» indica il divano su cui si è seduta in modo composto, fortunatamente. «Può funzionare», aggiunge. «Che c'è?» mi chiede poi con la fronte corrugata.

«Stai parlando», le faccio notare. "Mi stai infastidendo", vuol dire. Lei resta in silenzio per qualche secondo.

«Insoportable», borbotta poi, sempre in spagnolo.

«Ti sento».

«Menomale, vuol dire che l'apparecchio acustico dovrà aspettare ancora qualche anno».

Stronza irritante.

Non le rivolgo più la parola, mi limito a pensare, appuntare, sorseggiare il buon whiskey del mio amico Darius e ancora pensare, appuntare, tutto in loop.

Lei non picchietta più con le scarpe sul pavimento o se lo fa, il tappeto enorme attutisce i colpi, perciò nessun suono fastidioso.

Noto però, di tanto in tanto e guardandola con la coda dell'occhio, che si tocca diverse volte il fianco e trattiene dei versi di dolore. Stringe le labbra, si massaggia il punto dolente, si guarda intorno e poi torna a concentrarsi sul foglio bianco su cui non ha ancora scritto mezza parola.

«Stai bene?» le chiedo ad un certo punto. Pentendomene due secondi dopo.

Lei guarda prima verso destra, poi verso sinistra e poi dietro di sé. Quando capisce che continua a non esserci nessun altro oltre noi due, posa i suoi occhi su di me, incredula e confusa.

«Sì, sto parlando con te. È tutta la sera che ti tocchi il fianco e trattieni smorfie di dolore».

È una cosa che probabilmente nessun altro oltre me ha notato, perché a differenza degli altri, quando la guardo, io la vedo. Riesco a leggerla dentro e non sempre mi piace. Anzi, preferirei farne a meno.

«E tu come fai a saperlo?» domanda, ancora incredula e questa volta anche un po' diffidente. Ha imparato presto a difendersi anche da me. «Mi hai guardata per tutta la sera?»

La ragazzina mi ha beccato, perciò mi limito a fare ciò che mi riesce meglio nella vita, mento.

«Sapevo che toccava a te aiutare Ophelia in cucina, dovevo assicurarmi che il cibo non fosse avvelenato».

La verità è un'altra però e preferirei infilzarmi la lingua con un coltello, piuttosto che ammetterla.

«Sto bene, grazie per l'interesse», risponde, facendo un gesto con la mano per minimizzare la cosa.

Poso la penna sul foglio, mi alzo dalla sedia e cammino verso di lei, che rimane impietrita.

«Sappiamo entrambi com'è andata l'ultima volta che hai mentito e hai detto di star bene, perciò alza la maglietta e fammi vedere», le ordino, serio. «Non mi fido più di te».

La ragazzina ha retto sulle spalle un fardello enorme e schifoso per diverso tempo, non ne ha fatto parola con nessuno e ha rischiato tanto, perciò no, cazzo, non mi fido per niente di lei.

«Hai sniffato lo zucchero dei churros per caso?» domanda quando si ricompone, dato che le si era spalancata la bocca in modo poco elegante dallo stupore. Proprio come una ragazzina.

«Non li ho neanche mangiati i churros, non mi piacciono e lo sai».

Perché è vero, io conosco lei e lei conosce me, più di quanto mi piacerebbe ammettere.

«Altro motivo per cui ho smesso di parlarti», bofonchia, tenendosi a distanza.

«Alza la maglia, Elsa».

«Oh, wow, così? Senza dei preliminari prima? Arrivi dritto al sodo, ragazzaccio», ridacchia in maniera nervosa, «Siamo a casa della mia famiglia e c'è tua moglie, un po' di contegno, Kyran».

«Smettila di fare la stupida e alza la maglietta», insisto. Lei nega con la testa. «No?»

«No», conferma, «Non ci penso proprio ad alzarmi la maglietta davanti a te».

Lo dice come se le avessi appena chiesto di alzarsi la maglietta per scoparmela e non per assicurarmi che non stia nascondendo lividi procurati da Dio solo sa chi o cosa.

«Ti ho vista con addosso solo le mutandine delle principesse, non mi scandalizzerò per un po' di pelle scoperta», le rammento, avvicinandomi ancora.

«Ti odio!»

«Bene, non devi amarmi per sollevare un po' la maglietta e mostrarmi cos'hai sul fianco», le faccio notare, «Vuoi che faccia da me?» Le chiedo, facendo qualche passo in avanti per avvicinarmi a lei e rendere più chiara l'idea. Irisabelle di riflesso indietreggia.

«Díos, ni lo pienses, Kyran...» risponde in spagnolo, senza neanche rendersene conto. «Non ci pensare nemmeno ad avvicinarti»

«Devo avvicinarmi, altrimenti come controllo il fianco?»

«Da lontano, non sei mica miope», gesticola in modo nervoso. «O sì? Non mi sorprenderebbe».

«Non ti sorprenderebbe?», le chiedo, non capendo cosa voglia dire.

«Stai invecchiando», afferma, come se fosse un dato di fatto. Inevitabilmente rido senza riuscire a trattenermi. «Perché ridi?» chiede, guardandomi come se mi fossero appena spuntate due teste. «Devo chiedere a Ophelia se ha messo qualche tipo di sostanza stupefacente nel cibo, perché altrimenti non si spiega. Tu non ridi mai, almeno non in mia presenza e non ti preoccupi per me, non più almeno».

Le sue parole mi colpiscono anche se vorrei restare impassibile. Non mi piace il fatto che pensi che non mi preoccupo per lei, perché non è vero. Mi preoccupo eccome, anche se non vorrei, anche se non mi riguarda, anche se non dovrei.

«Rido perché trovo divertente il fatto che continui a darmi del vecchio quando sappiamo benissimo entrambi che questo vecchio ti piaceva», le sbatto in faccia la realtà e lei sussulta come se l'avessi colpita. «Alza quella maglietta, Irisabelle», ripeto, sul punto di perdere la pazienza e fare da me.

«Non capisco perché tutto questo interesse all'improvviso», mi guarda con aria circospetta, come una che si aspetta che le azzanni il collo all'improvviso.

«Non ti fidi di me?», le chiedo, deluso. Non sono la persona migliore del mondo e non mi sono comportato nel migliore dei modi con lei negli ultimi anni.

Però dovrebbe sapere che di me può fidarsi ciecamente.

«Non di te, in generale», risponde lei, facendo spallucce. «Mi fido poco, come quelli che guardano da entrambi i lati di una strada a senso unico prima di attraversare».

«Siediti sulla scrivania e alza un po' la maglietta, non ti tocco, guardo soltanto».

Il solo fatto che debba rassicurarla, non mi piace per niente.

«Sei testardo come un mulo, accidenti, te l'ha mai detto nessuno?»

«Tu, ora», rispondo, «Ho smesso di chiedertelo gentilmente, Irisabelle, se non ti siedi là sopra, faccio a modo mio».

«Se graffio la scrivania, Darius mi dà in pasto ai maiali».

«Voi non avete dei maiali», le faccio notare.

«I genitori di Ophelia hanno una fattoria, Darius non ci metterebbe molto a trascinarmi lì», lo dice come se ci credesse davvero. Sarebbe un'ottima attrice drammatica. 

«Non graffierai la scrivania e non finirai in pasto a nessun maiale, sfortunatamente, ora siediti», le indico la scrivania con un dito e lei sbuffa.

«No te cansas de ser tan...»

«Elsa, non sto scherzando, chiudi la bocca e alza la maglia».

Per la prima volta dopo tanto tempo, Irisabelle mi dà ascolto. Chiude la bocca, si siede sulla scrivania sistemandosi bene e stando attenta a non rompere nulla, poi solleva di poco la maglietta.

Ha un livido piuttosto grande sul fianco, il colore violaceo stona con la sua pelle di porcellana. Ha la pelle d'oca quando mi avvicino di più e mi chino in avanti per controllare meglio.

Non la tocco. Non la sfioro nemmeno. La guardo e basta.

«Avevi detto di non avere niente», dico, trattenendomi dal farle una sfuriata. L'ho detto che di questa ragazzina non ci si può fidare.

«Ad essere precisi ho detto che stavo bene», risponde con nonchalance.

«Come ti sei procurata questo livido?»

«Io pattino, Kyran, ti ricordi?», chiede, alzando gli occhi su di me. «È ciò che succede quando si cade sul ghiaccio».

«Infatti, non è la prima volta che succede, dovresti sapere come curare ematomi del genere», la rimprovero come se gli anni non fossero passati, come se fosse ancora la ragazzina che consideravo una sorella minore e che proteggevo come se fosse la cosa più preziosa del mondo. 

«Ho solo dimenticato di mettere la pomata, che sarà mai?»

«A stento riesci a stare seduta senza sussultare o piagnucolare sottovoce», le faccio notare. Lei abbassa la maglietta e cerca di scendere ma non può, perché le sto davanti.

«Metterò la pomata».

«Dov'è?» le chiedo, stanco. Non mi aspettavo che la serata avrebbe preso questa svolta.

«Cosa?» chiede, sbattendo le palpebre, incredula.

«Il presidente degli Stati Uniti», rispondo, «La pomata, Irisabelle, dov'è la pomata?»

«Ne ho una nel borsa, una in camera mia e  una nel bagno», dice di getto, «Aspetta, che vuoi fare?»

«Vado a prendere la pomata e te la metto», rispondo con tranquillità, come se fosse una cosa che faccio tutti i giorni.

«Sei impazzito, per caso?» sbotta con gli occhi spalancati.

«Mi sembra chiaro che sei un'incosciente che non sa prendersi cura di se stessa, lo farò io per te».

«E per quale cavolo di motivo dovresti volerlo fare?»

«Perché le tue smorfie di dolore e il modo in cui ti muovi sulla sedia mi distraggono», mento. Non è questo il motivo ma lei non faticherà tanto a credermi.

«Wow, Kyran, è un motivo nobile», si porta la mano al cuore come se fosse colpita, «Sono davvero contenta che la mia vita ti stia così a cuore, però va bene così, mi metterò la pomata da sola».

«È quella la tua borsa?» indico una cosa bianca e piccola, lasciata a casaccio sul divano.

«No, è di Ophelia», risponde, evitando il mio sguardo. Sta mentendo.

«Elsa».

«Díos, sì, è la mia borsa», sbotta, sbattendo le mani sulla scrivania. «Dejá... Smetti di chiamarmi Elsa».

Ignoro le sue parole, mi allontano e prendo velocemente la sua borsa minuscola. Ci frugo dentro senza fare troppi complimenti in cerca di questa benedetta pomata. Prima la trovo, prima finisco, prima possiamo concludere questa cosa.

«No, fai pure, fruga nella mia borsa», dice lei, «Non potrei mica tenere dentro degli assorbenti, dei preservativi o un vibratore, come qualsiasi donna».

«Vuoi chiudere quella bocca per qualche secondo?», sono io quello che sbotta questa volta. Se le sento dire ancora un'altra parola le tappo la bocca con la sua stessa borsa.

«Darius ci ha chiesto di trovare un'idea per il progetto, non di giocare a fare il dottore e l'ammalata», sussurra, come se stesse parlando ancora una volta con se stessa. Ignorando la mia presenza.

«Non stiamo giocando proprio a niente», le dico, per toglierle dalla testa qualsiasi idea contorta. «Solleva la maglia e trattieni il fiato, è fredda e probabilmente ti farà male».

Mi metto un po' di pomata sulla mano e sotto il suo sguardo spaventato e circospetto, l'avvicino al suo fianco scoperto.

«Sto per toccarti», l'avverto prima di farlo. Perché so che non le piace essere toccata senza il suo permesso. Perché spaventarla è l'ultima cosa che voglio fare in questo momento.

«Va bene», sussurra, dopodiché trattiene il fiato e io le metto le mani addosso.

Le spalmo il più delicatamente la pomata su tutta la parte in cui si è formato l'ematoma, sfioro le sue gambe con il braccio con cui mi sono appoggiato alla scrivania e lei sussulta.

Ha la pelle d'oca e non smette di seguire con gli occhi ogni mio movimento. Non sembra spaventata, forse all'inizio, ora sembra più... in attesa.

Stringe le gambe per non regalarmi la visione delle sue mutandine quasi sicuramente striminzite e la ringrazio mentalmente per questo. Anche se non l'avrei guardata comunque lì sotto, nemmeno se le avesse avute spalancate le gambe.

«Non sono come i ragazzini che ti piacciono e con cui probabilmente esci, Irisabelle», cerco di rassicurarla, ma le mie parole escono fuori più come un'accusa. «Non mi lascio ingannare o distrarre da un bel faccino innocente e un paio di gambe scoperte».

Tanto meno se quelle gambe scoperte e quel faccino innocente appartengono a lei.

Lei resta in silenzio per qualche secondo, come se stesse rimuginando sulle mie parole, poi dice: «Uomini».

«Come?», le chiedo, non capendo cosa voglia dire. È una sola parola, dannazione, manca tutta la frase.

«Hai detto ragazzini, ti sto correggendo. Non esco con dei ragazzini, sono uomini. Dovresti saperlo ormai che mi piacciono più grandi», la nonchalance con cui lo dice mi lascia interdetto per qualche secondo. Non posso negarlo, né tanto meno mascherarlo.

Continuo a spalmarle la pomata, se qualcuno entrasse in questo momento nello studio, potrebbe fraintendere il tutto. Sembra che la stia accarezzando e non aiutando. Ho paura che anche lei possa farsi idee strane.

Alzo lo sguardo su Irisabelle e la becco a fissarmi, ha le guance arrossate mentre si passa la lingua sulle labbra secche. Io intanto continuo a passarle la crema sul fianco, salgo fino alle costole e quando sfioro il pizzo del reggiseno, lei trattiene il fiato, quindi riporto la mano verso il basso.

«Ho fatto», le dico. Poi chiudo la pomata e l'appoggio sulla scrivania, accanto alle sue gambe.

«Mh», è l'unico suono che le esce dalla bocca. Continua ad avere gli occhi posati su di me e non muove un muscolo.

«Sei troppo vicina», noto. Non mi ero accorto del fatto che si fosse avvicinata così tanto.

Lei non risponde, passa un'altra volta la lingua sulle labbra ed io vorrei distogliere lo sguardo. Ma non lo faccio.

Invece le guardo le labbra. Non dovrei farlo, non vorrei farlo, ma lo faccio.

«Vai, continuerò io», le dico, distogliendo lo sguardo e mettendo la giusta distanza tra di noi.

«Darius ha detto che devo darti una mano», mi ricorda, come se non lo sapessi già. Sfortunatamente ero presente anch'io quando l'ha detto.

«Non l'hai fatto prima e dubito che lo farai ora», le dico. «Puoi andare», aggiungo.

Te ne devi andare. Voglio che se ne vada.

«Hai paura di restare solo con me?», chiede. La timidezza e l'imbarazzo di prima sembrano essere svaniti di colpo. «Di avermi così vicina?»

«Irisabelle, ti ho aiutata perché sei una ragazzina, perché sei la sorellina del mio migliore amico e perché c'è stato un tempo in cui ti ho voluta bene», decido di mettere in chiaro le cose. «Non farti strane idee».

È già successo in passato e non voglio che succeda di nuovo. Ho già abbastanza casini per conto mio, non voglio che ci si metta anche lei.

«Guardami, Kyran», dice ed io lo faccio. La guardo. Mi irrigidisco quando mi mette le mani sulle spalle e tira per avermi più vicino. Mi incastra tra le sue gambe, ora non le importa di mostrarmi o meno le mutandine. «Che effetto ti fa avermi così vicina? Sentire il mio profumo? Toccarmi?»

«Che effetto dovrebbe farmi?», le chiedo, scrollandomi le sue mani di dosso. «Sei una bambina»

È una bambina, Kyran. È la bambina che hai visto crescere, la bambina a cui hai insegnato ad andare in bicicletta. La sorellina di Darius.

Continuo a ripetermelo, continuo a dirlo, continuo a pensarlo.

«Una bambina non potrebbe mai avere questo corpo», dice, indicandosi.

E cazzo, ha ragione. Della bambina con il caschetto non c'è più alcuna traccia estetica, a parte lo stesso colore di capelli, occhi e carnagione. Quella che ho davanti è una giovane donna a tutti gli effetti.

«Ti stai rendendo ridicola, Irisabelle».

«Lo so che stai mentendo, so che hai provato la stessa cosa che ho provato io poco fa», insiste e cerca di riavvicinarsi un'altra volta. E visto che la gentilezza non sembra fare effetto, la miglior difesa è l'attacco e quindi faccio questo.

«In questo momento sto provando disgusto, nient'altro che questo», sputo fuori, allontanandomi ancora. Lei resta di sasso, non dice più una parola. L'ho ferita. «Il solo pensiero di toccarti con malizia mi dà il voltastomaco», rincaro la dose. «E non c'entra niente il tuo aspetto estetico, sei bellissima Elsa, lo sei sempre stata e diventerai ancora più bella con il tempo», aggiungo, perché sono stato troppo stronzo e perché vederla davanti a me con gli occhi lucidi a causa mia, non mi piace. «Mi dà il voltastomaco perché sei tu e io sono io».

E questo non potrà mai cambiare. Io non voglio che cambi.

«Che significa "io sono io"?»

«Ti ho vista crescere», le rammento, perché a quanto pare sembra che abbia rimosso questo dettaglio dalla sua mente.

«Non abbiamo nessun legame di sangue, neanche alla lontana, non sei un mio parente, non sei mio fratello», sottolinea l'ovvio. Non lo fa con durezza ma con speranza. Speranza che possa cambiare idea.

Non succederà.

«Questo non cambia niente», dico, «In più sono felicemente sposato e sembra che te lo dimentichi spesso».

«Felicemente? Davvero?», chiede. «Sembri tutto fuorché felice».

«Questi non sono proprio cazzi tuoi», torno a parlarle con durezza anche se non ne avevo l'intenzione.

«La verità ferisce, Kyran», mi punzecchia lei. «Ma io non voglio ferirti».

«E io non voglio ferire te», le rispondo con sincerità. «Perciò dammi ascolto, scendi da questa scrivania ed esci fuori da questa stanza».

Perché altrimenti mi costringerai ad essere ancora più cattivo.

«Sei un codardo», m'insulta con aria fiera e gli occhi lucidi. Non piangerebbe mai davanti a me, nemmeno se le dicessi le cose più brutte del mondo.

«Tu sei una provocatrice, una ragazzina ricca e annoiata».

Una ragazzina che vuole rovinarmi, che potrebbe rovinarmi. Una ragazzina che ha tutte le carte in regola per poterlo fare.

«Anche tu sei ricco».

«Ma non sono un ragazzino e se anche fossi annoiato, insoddisfatto o infelice del mio matrimonio, non farei mai sesso con te», le dico, «Mi farei qualsiasi altra donna, ma mai te», ripeto, per far sì che le entri in testa. «Mi hai capito, Irisabelle?»

«Ho capito perfettamente, Kyran», dice, dopodiché scende dalla scrivania, prende la pomata, la rimette nella borsa e rialza lo sguardo su di me. «Divertiti con il progetto e grazie tante per la pomata».

Mi sorpassa e a testa alta cammina verso la porta, per poi aprirla e uscire senza guardarsi indietro neanche una volta.

Si chiude la porta alle spalle e io finalmente riprendo a respirare.

❄️❄️❄️

SPAZIO AUTRICE

Ciao!
Sì, ecco che aggiorno un'altra volta ad un orario improponibile, però ormai sapete come sono fatta (impaziente al massimo).

Spero che il capitolo vi piaccia, mi dispiace che sia passato così tanto tempo dall'ultimo aggiornamento ma come ben sapete al momento la mia priorità è concludere CAIRO. Dopodiché mi dedicherò completamente ad Ira.

Vi aspetto come sempre su Instagram per sapere i vostri pareri e leggo tutti i vostri commenti👀❤️

Grazie di tutto.

Vi abbraccio fortissimo,
Noemi

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