Capitolo 67
Tara
Non mi sono mai spiegata come mai quando ti capita qualcosa questa sembra accadere a tutti. Lo senti al telegiornale, ne parlano le signore sedute dietro di te nel bus, anche internet ti dà un'unica notizia per quanto tu possa scorrere velocemente ed è nel dolore di tutte quelle donne vittime di abusi che mi nasce il desiderio di fare qualcosa, di non subire silenziosamente.
L'insistenza di mia sorella ha ora per me un senso. Tante volte si parla con "se capitasse a me io farei..." "Non lascerei mai correre una cosa del genere..." "I miei diritti..." Poi ti succede veramente e precipiti in un baratro. Niente ha più senso, senti solo la tua testa ripetere perché a me, perché non ho capito prima cosa stava per accadere.
Oggi però voglio cambiare qualcosa. Non sopporto più questa sensazione che mi opprime.
Mi preparo con cura per il mio appuntamento con la preside della scuola, cerco di apparire sicura di me e di quello che le dirò ed è a testa alta che esco di casa.
Mia sorella e a fare la sua corsa mattutina e quella solitudine mi fa bene. Mi permette di sentire quel lieve cambiamento dentro di me, che è anche frutto delle sue attenzioni da quando l'ho svegliata quella notte.
La mia convinzione vacilla già dopo una mezz'ora, quando ricevo un'email dalla segretaria dell'istituto che mi avvisa che, a causa di impegni sopraggiunti, la preside potrà incontrarmi solo nel primo pomeriggio e non nel suo ufficio, ma in un locale pubblico che casualmente è proprio vicino la mia nuova casa.
Leggo il messaggio sull'autobus durante il tragitto che da casa porta a scuola. Sospiro e appoggio la testa al finestrino. Guardo il mondo attraverso le gocce di pioggia che scendono lungo il vetro ed è tutto distorto, spaventoso e sembra assurdo come un innocente temporale possa trasformare la percezione della realtà in quel modo.
Il mezzo si ferma a un semaforo rosso e io tiro su velocemente il capo con il cuore che mi martella in petto. Simona e Andrea sono seduti al tavolino di un bar proprio davanti ai miei occhi. Rivedere i loro visi mi scuote dentro riportando a galla l'amicizia che mi lega a loro e non posso che odiarmi per ciò che gli ho fatto. Quella insensata e stupida scelta che ho fatto quel giorno di tagliarli fuori dalla mia vita. Davvero non c'era modo di tenerli con me? Davvero non sarei riuscita a gestire i loro sguardi? La paura mi fa tremare le mani.
Forse no, perché il sentirmi vittima mi fa sentire anche sporca e quel lerciume sotterra la mia vera me sempre più in fondo.
Quel semaforo sembra non cambiare mai colore.
Una persona si avvicina al loro tavolo. Ha il cappuccio nero tirato fin sopra al viso per la pioggia. È appena arrivato e la mano di Andrea subito si muove verso la sua direzione. Resto a guardare l'uomo che lentamente si scopre degli abiti bagnati ed è in quel momento che il mondo si ferma e io capisco veramente cosa mi sto facendo.
Due irresistibili occhi azzurri si posano sui mie amici. Il mio cuore si accartoccia.
Christopher con eleganza scosta la sedia e si siede al tavolo con loro. Una minuta ragazza con i capelli biondi a caschetto gli si avvicina e lui gli sorride gentile come tante volte ha fatto con me, quando veniva nel mio locale. Quando ancora eravamo due persone distinte. Quando ancora avevo la speranza di poterlo avere. La cameriera ne rimane folgorata proprio come è capitato a me. Resta ferma al suo fianco in cerca di altra attenzione da parte sue ed è leggibile anche da la il suo fastidio quando Simona allunga la mano verso quella del ragazzo distogliendolo dalla speranzosa cameriera.
Sento i miei occhi seccarsi e fare male, perché non ho più battuto ciglio da cinque minuti a questa parte, nemmeno per un secondo, desiderosa di non perdere niente né una sua espressione né un suo movimento. Non piango, niente, lo guardo, lo guardo come un assetato berrebbe dell'acqua nel deserto.
Uno strattone mi avvisa che l'autobus sta ripartendo, allungo il palmo verso il vetro come a volerlo trattenere, ma non è possibile, come non è possibile tornare da loro, non sono pronta. E allora mi giro sulla poltrona indietro perché non sono pronta,neanche, a lasciarlo andare. Stupida che sono mi ritrovo a sperare che i suoi occhi si possano posare su di me almeno per un momento. Ti prego. Ti prego. Ed è così che guarda verso fuori, ma io non sono più là.
I metri si accumulano e tutto scompare. Come al ritorno da una corsa sono ansante e stanca. Sconvolta torno a poggiare la schiena sul sedile e mi ritrovo a chiudere gli occhi dove ritrovo i frammenti di quel nuovo ricordo. Le mani mi tremano nel grembo e quando il mio telefono suona sobbalzo spaventata.
L'insistenza della chiamata mi obbliga a cercare il telefono in borsa: è mia sorella.
«Allora, io finisco la lezione on line poco prima di pranzo. Tu sei già arrivata?» mi schiarisco la gola e tento di rispondere il più normale possibile.
«Ha rinviato l'incontro alle quindici.» Pessimo tentativo di avere un tono neutrale.
«Hai una voce? Stai bene? Non preoccuparti troppo, okay?»
Fortunatamente mia sorella travisa le mie emozioni associandole alla giornata.
«Sto bene. Tranquilla. Ora vado in un centro commerciale qui vicino e aspetto l'ora dell'incontro.» Anche se non ne ho molta voglia.
«Sì, bene. Fai così. Ci sentiamo più tardi. Ciao.» La voce del suo professore la richiama in sottofondo.
«Ciao.» Rimetto il telefono in borsa e mi lascio andare sui sedili. Non ha molto senso scendere ora e lascio che l'autobus finisca la sua corsa tornando verso casa.
Il tempo sembra scorrere così lentamente da essere snervante e quando rimetto piede a terra mi guardo a destra e a sinistra indecisa sulla strada da fare. Alzo il cappuccio e mi avvio verso un porticato pieno di vetrine che guardo distrattamente.
Un'insegna bianca e grigia attira la mia attenzione: CADMI, centro antiviolenza sulle donne. Resto con il capo rivolto verso l'alto e mi ritrovo ancora una volta in quel dejavu, di quel messaggio che dal mattino il mondo mi manda. Faccio un passo avanti titubante. Una ragazza decisa entra dalla porta di legno lasciata aperta, superandomi, il movimento al mio fianco mi blocca. Ballo sui piedi indecisa. Potrebbe farmi bene, mi dico. Guardo ancora in alto e faccio quel nuovo passo avanti e ancora uno, ma poi la sveglia del mio telefono suona e mi avverte che ci siamo, è l'ora dell'appuntamento.
Arrivo al locale quindici minuti in anticipo. Mi siedo in un angolo vuoto e quando un ragazzo gentile mi chiede cosa voglio prendere opto per una tisana calda.
Batto con le dita fredde sulla ceramica calda mentre cerco di formulare nella mia testa il discorso che voglio farle. Balbetto pure nei miei pensieri il che è snervante e quando alzando gli occhi verso l'entrata oltre alla donna elegante che mi aspettavo, vedo un ciuffo biondo ponderatamente disordinato, le mie sicurezze crollano definitivamente come un castello di carte.
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