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Capitolo 3

Christopher

«Sei solo un vecchio. La tua vita è noiosa, è già scritta e non fai niente per divertirti.»

Seguo Alicia nella sua stanza e sembra impazzita.

«Non ti sopporto. Non sopporto la tua perfezione del cazzo che mi fa sentire ancora più sbagliata.» Torna indietro sui suoi passi e si ferma proprio davanti a me. «Ma tu non sei perfetto, io lo so. Perché sei mio fratello e sono certa che questa passione che sento scorrere in me scorre anche in te, solo che tu non hai le palle per viverla. Cazzo!» Mi colpisce con i palmi il petto e si allontana ancora.

«Ma sei impazzita! Io ti ho solo aiutata.» Cerco di respirare per calmarmi. «Eri ubriaca e ti ho riportata a casa, che cazzo c'entrano tutte ste discussioni?»

«Non le capisci vero?»

L'odore dell'alcol mi infastidisce, provo a non farci caso e muovo lentamente la testa in segno di diniego.

«Sono stufa di essere sempre quella che fa casini agli occhi dei nostri genitori, ma soprattutto agli occhi tuoi.»

Resto senza parole.

«Non sopporto quando mi guardi come un cucciolo da salvare, anche perché non ho fatto niente di male, qualunque ragazzo di ventitre anni si ubriacherebbe a una festa ogni tanto, ma tu no. Mister perfezione no.» Si siede sul letto con lo sguardo perso nella stanza che poi corre nei miei occhi facendomi male. «Tu non sbagli mai.»

«Certo che sbaglio...»

«Ti prego, non te ne uscire con cose come "nel mio lavoro" che ti vomito sulle scarpe.» Mi zittisce. «Sei vecchio e vedo anche qualche capello bianco in realtà.» Inaspettatamente inizia a spogliarsi costringendomi a uscire. Non mi dà modo di difendermi come se non mi avesse appena accusato di essere noioso.

La musica d'attesa, dell'ascensore che mi porta al piano scelto, mi tiene compagnia. Finisco di sistemarmi il camice che ho afferrato al volo nella stanza che mio padre mi ha concesso come studio. I bottoni entrano velocemente nelle asole, posiziono lo stetoscopio sul collo e mi rimetto dritto nello spazio angusto che profuma di rio casamia.

Alzo il viso verso il soffitto inclinando il capo e poi infine mi volto incrociando la mia immagine sul grande specchio alla mia destra.

Approfitto della mia insolita solitudine in quell'affare per concentrarmi. Cerco di mandar via dalla mia mente le parole di mia sorella, nonostante mi ritrovo a osservare i miei capelli. Sono praticamente rasati e mi colorano di castano scuro il capo. Appena appena si nota la loro volontà di arricciarsi, per il resto non noto niente di strano, nessun intruso bianco così come malignamente mia sorella Alisa voleva farmi credere questa mattina.

Le sopracciglia aggrottate si rilassano mentre passo le mani sui lati del capo, come se ci fosse realmente qualche capello da sistemare.

Controllo l'orologio sul mio polsino e poi torno a fissare lo specchio, come se dall'altra parte ci fosse qualcun'altro a farmi compagnia. La voce alterata di mia sorella mi torna in mente facendomi riflettere. Forse, il fastidio che ho provato era più rivolto alla necessità che sento ultimamente di qualcosa di diverso. Ha parlato di passione.

Sospiro accarezzando nuovamente la chioma per poi restare a fissare i miei occhi azzurri.

È vero, sono sempre stato un tipo responsabile, sicuramente non da avventure o colpi di testa, cose che invece riescono bene ad Alicia, ma il fatto che mi abbia definito già "vecchio", come se fossi tremendamente noioso mi disturba.

Le porte si aprono davanti a me con il solito trillo del campanello.

«Ciao Christopher.» La receptionist del piano mi saluta alzando la mano.

«Ciao Rosi, il paziente è pronto in sala visite?» Mi avvicino al ripiano dove afferro la cartellina che lei mi porge.

«Sì, ti assisterà Roberto.» Annuisco, le faccio un mezzo sorriso per salutarla e avanzo nel corridoio.

L'odore dei disenfettanti mi rilassa, come anche le luci bianche e il pavimento lucido del corridoio che sto percorrendo.

Adoro il mio lavoro e passare il mio tempo dentro la clinica di mio padre ma oggi mi ritrovo trepidante per il viaggio che mi attende. Le parole di Alicia mi torturano la mente.

Ero andato da lei stamattina solo a vedere come stava, visto che ieri sera l'avevo dovuta recuperare in un bar ubriaca. Okay, era a un addio al nubilato ma non condivido il ridursi così in nessuna occasione. Non sono mai riuscito a perdere così il controllo di me stesso e non ne ho mai avuto la necessità.

È vero, sono un ragazzo serio, so divertirmi ma di certo non passo intere serate in discoteca a bere.

Allento la pressione della maglia sul collo, improvvisamente mi sento soffocare. Sento la necessità di un po' di privacy farsi sempre più impellente e ora la possibilità di allontanarmi da casa mi sembra come una benedizione.

Mi arresto davanti la porta bianca. Tiro un sospiro e abbasso la maniglia.

«Buongiorno.» Saluto i presenti.

«Buogiorno dottore. Lui è Matteo Panella e la signora è la madre.» Annuisco sorridendo al ragazzo steso.

«Bene, se sei pronto, iniziamo.» Poso la cartellina sul tavolo e mi avvicino per la visita. Provo a scaldarmi le mani anche se non fa molto freddo, ho sempre creduto che non fosse gradevole sentire delle dita gelide che ti toccano, soprattutto in un momento di attesa e disagio insieme.

Nonostante tutto, il mio lavoro riesce a farmi dimenticare tutto. Tra tutte le specializzazioni che avrei potuto scegliere mi sono ritrovato a condividere in pieno quella che è stata la scelta di mio padre trent'anni prima. Lo scheletro mi ha sempre affascinato come gli strati che lo coprono divenendo il punto cruciale della mia tesi e del mio lavoro.

«Dottore, mi scusi, pensa che la frattura alla clavicola sia grave?» La madre del giovane calciatore, che mi sta disteso davanti con la faccia sofferente, spera in una mia risposta rassicurante, ma purtroppo spesso è il tempo a dirci ciò che accadrà.

«Signora, con la fasciatura rigida che andremo a fare impediremo alla spalla di suo figlio di muoversi e aiuteremo le ossa a calcificare se ciò non dovesse accadere già dalla prima settimana saremo costretti a intervenire con un'operazione.» Tengo fra le mani la cartella medica di Matteo che ho ripreso per scrivere le mie osservazioni, per evitare di guardare troppo in viso la madre e il figlio spesso utilizzo questo metodo per non empatizzare troppo con i malati e ormai forse lo faccio comunque in ogni occasione.

«Oh, io avrei una partita importante tra un mese.»

Leggo i suoi dati anagrafici. I suoi occhi cercano in me la speranza che potrà giocare.

«Spero che tutto vada bene Matteo, ma purtroppo lo sapremo solo dopo venerdi. Devi pensare solo a curarti bene perché se anche non potessi giocare quella partita ne potrai vincere però tante altre. Il nostro corpo è come una macchina perfetta e il tuo tornerà a farti essere il migliore. Okay?» La mia risposta non è quella che sperava, però alla fine annuisce rendendosi conto che non ci sarà nessun miracolo.

Saluto la signora che si siede accanto al letto stringendo la mano del ragazzo e mi avvio nella seconda stanza per la visita successiva.

Oggi vorrei terminare subito questo processo giornaliero che solitamente è il mio momento preferito, ma devo parlare con mio padre del master.

La porta di legno scuro dello studio di mio padre si trova all'ultimo piano. Noto come la luce del sole evidenzi le venature rosate mentre colpisco con le nocche per annunciare la mia presenza.

Il suo avanti è leggermente infastidito, riconosco il suo solito tono di quando è concentrato a fare qualcosa che lo interessa molto.

«Ciao papà.» Avanzo nella stanza richiudendo l'uscio alle mie spalle. Il profumo del suo dopobarba mi arriva alle narici mischiato a quello del caffè che deve aver preso da poco.

«Ciao Chris, hai finito le visite?» Annuisco mentre mi accomodo davanti a lui.

«Sì, proprio ora.» Vedo il suo sguardo fiero per ciò che sono diventato, si è sempre vantato di me con i suoi amici o collaboratori. «E sono qui per parlarti di un master che ho intenzione di fare. Partirò a fine mese.» Sono un po' nervoso per la sua reazione e istintivamente stringo le mani sui braccioli della poltrona.

Il silenzio in cui si protrae mi fa sudare freddo, come anche lo sguardo severo che mi rivolge. Non pensavo potesse rimanerci così male.

«Di che follia stai parlando.» La sua mano batte sui fogli che ha davanti a pochi centimetri dagli occhiali posati sopra.

Sospiro e con molta calma inizio a spiegare il beneficio di questa specializzazione. Non potrei mai partire senza la sua approvazione.

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