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Capitolo ventiquattresimo.

SCORPIUS

La sala comune dei Serpeverde era deserta a quell'ora. Gironzolavo senza fare nulla in particolare, aspettando la mezzanotte. Quando l'orologio della stanza avrebbe cominciato a suonare, io sarei sgattaiolato fuori, per vedermi con Rose.

Avevo avuto l'idea di incontrarci per festeggiare la nostra relazione. All'inizio non era stata così convinta di questa novità, ma s'era ritrovata ad accettare quasi in modo obbligatorio.

Amavo davvero Rose e non c'era giorno che non pensassi a quanto volevo per lei. Forse non saremmo durati a lungo, ma speravo che lei si sarebbe finalmente convinta del fatto che non ero come il suo subconscio dettava, ma l'esatto opposto.

L'orologio segnava ancora le undici e cinquantasette. Erano solo tre minuti, ma io avevo fretta di andare. Non potevo nemmeno decidere di partire e di arrivare là un po' prima, perché alla fine dovevo solamente attraversare la parete.

Più pensavo ai minuti che dovevano ancora passare, più le lancette si immobilizzavano e rimanevno ferme, ad indicare cifre che non riuscivo a cogliere.

Mi sedetti su una poltroncina e sospirai ancora. Mi passai una mano fra i capelli spettinati e ripensai a Rose, a quanto fossi innamorato di lei.

Non sapevo se il sentimento fosse ricambiato o meno, ma ci speravo. Rose aveva un modo tutto suo di amare e non volevo assolutamente contraddirla, dicendole che non era abbastanza efficace.

Avrei voluto chiederle di dimostrarmi il suo amore con gesti più concreti, ma solo con un suo sguardo capivo che lei era innamorata di me. La prima volta che la vidi fu poco dopo la mia nascita, al mio battesimo. Lei era nata cinque mesi prima di me.

A quell'età però non potevo ancora capire che cosa provassi per lei. Ero troppo piccolo. Forse il giorno in cui me n'ero resto conto era stato al sesto compleanno di suo fratello Hugo. Io avevo otto anni probabilmente, ed ero ancora piccolo, sì, ma già avevo deciso che Rose sarebbe stata mia.

Qualche anno dopo, leggendo di nascosto i libri di mia madre sulla sua relazione con mio padre, avevo capito che il miglior modo per amare una donna era prenderla in giro e farla soffrire. Un po' strano come ragionamento, mi ero detto io leggendo le parole trascritte nel romanzo, ma le regole indicate le avevo rispettate tutte. All'inizio Rose mi odiava, non voleva più avere a che fare con me, ma poi qualcosa era cambiato ed era tornata da me, perdonandomi.

Nei miei pensieri contorti si aggiunse un campanellino strano, che mi stordiva i timpani. Ci impiegai diversi secondi per apprendere che quello era l'orologio.

Balzai in piedi e raggiunsi la parete. Con un rapido movimento l'attraversai e subito mi trovai davanti Rose. Aveva i capelli semi legati, portava dei jeans, una maglione bianco e delle scarpe da ginnastica. I suoi occhioni mi guardavano con imbarazzo e timore, così decisi di sorriderle, per tranquillizzarla.

«Ciao» balbettò lei, contorcendosi le mani.

«Ciao» replicai io, prendendole il viso e lasciandole un piccolo bacio sulle sue rossastre labbra carnose.

Mi sorrise timidamente, poi abbassò il capo. Per un motivo a me sconosciuto, era un po' più timida del solito, perciò dovevo prendere in mano la situazione e fare di tutto per renderla più calma.

Le presi la mano e lentamente la portai verso gli scalini. Ci sedemmo tranquillamente, io su uno superiore e lei su uno inferiore. Poggiò il capo sul mio stomaco e si adagiò tranquillamente, mentre io le tenevo ben stretta la mano.

«Grazie per avermi invitata» disse improvvisamente.

«Di nulla, è stato un piacere» risposi sorridendo, ma lei naturalmente non lo notò.

Sospirò più tranquilla e si accoccolò. Sorrisi, apprendendo che quella era la prima volta che lei si comportava in modo così intimo con me. Amavo Rose fino a quel punto, ma forse lei no. Non mi dispiaceva in fondo; dopotutto era una sua scelta, non una mia.

«Mi piacerebbe tanto restare così per ore intere» mormorò lei tranquillamente.

Soffocai una risata. «Gli incontri clandestini ogni notte sarebbero decisamente un problema, Pettirosso.»

Rose infilò le unghie nel palmo della mia mano e spalancai la bocca per gridare ma non uscì nulla. Nonostante questo, c'era qualcun altro che stava gridando.

Non capivo.

Rose si alzò di scatto e mi guardò spaventata, come se lei avesse intuito che fossi stato io ad urlare, ma la colpa non era mia. Indietreggiò e deglutì, ripensando probabilmente a ciò che era successo alla sua migliore amica Laura qualche tempo prima.

Balzai in piedi e prendendole la mano mi diressi correndo verso il punto in cui si udivano le urla. E quando lo capii, mi fermai: provenivano dalla mia Casa.

Guardai Rose e annuimmo insieme. Con un movimento agile fummo all'interno della Sala Comune e cominciammo a correre verso la stanza...

La stanza di Marilina.

Rose si tappò la bocca con entrambe le mani, interrompendo quindi il contatto fra me e lei, poi premette in basso la maniglia e spalancò la porta. Marilina era stesa a terra, apparentemente svenuta.

Rose era immobile, senza parole.

«Va' a chiamare Albus e la McGranitt, forza!» gridai io, nella speranza che lei si muovesse.

Annuì pochi secondi dopo e scomparve. Mi avvicinai a Marilina e le presi il polso, per percepire i battiti del suo cuore. Sì, era ancora viva. Fortunatamente era molto gracile, perciò riuscii a prenderla in braccio e ad uscire dalla sua stanza. Dovevo raggiungere l'infermeria il prima possibile.

Alcuni studenti erano sulla porta delle loro camere: guardavano ed indicavano sgomenti la scena. Una parte di loro prese a dire che ero colpevole di omicidio, altri che avevo tradito Rose e che quest'ultima avesse ucciso Marilina. Ipotesi assurde, considerando che fra me e Marilina non c'era proprio nulla.

Scesi le scale e raggiunsi la parete. L'attraversai e cominciai a camminare per raggiungere l'infermeria. Fortunatamente, vidi arrivare alcuni professori, Rose e Albus.

Il professor Paciock e il professor Baston presero Marilina e la tennero in braccio, mentre io mi giravo ad osservare l'espressione sconvolta della professoressa McGranitt.

«In infermeria, presto!» gridò lei.

I due professori cominciarono a trotterellare verso la stanza citata dalla McGranitt, mentre io, la mia ragazza e il mio migliore amico correvamo dietro di loro. Gli studenti di Serpeverde erano usciti dalla propria Sala Comune e continuavano a parlottare fra di loro, riguardo l'accaduto.

Quando finalmente arrivammo in infermeria, riuscii a sedermi e a tirare un sospiro di sollievo. Rose si accomodò accanto a me e posò il capo sulla mia spalla. Albus, al contrario, era vicino a Marilina e le teneva la mano, nella speranza che si risvegliasse.

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MARILINA

Quando aprii gli occhi, vidi alcuni volti sopra il mio, che mi fissavano avidamente. Boccheggiai, priva di aria buona da respirare, e tossii. Ricordavo alla perfezione cos'era accaduto, ma non avevo il coraggio di rivelarlo.

«Marilina...» mormorò qualcuno che possedeva la stessa voce di Albus.

Era lui?

Provai a voltare il capo e vidi qualcuno che poteva vagamente somigliare al mio migl... fidanzato.

«Ci-ciao» balbettai, e lui mi strinse la mano.

Tossii ancora, poi riuscii ad aprire gli occhi in modo più definitivo: tutto attorno a me apparve in modo nitido e riuscii a scorgere i volti di ogni persona. C'era il professor Paciock, il professor Baston, la McGranitt e, seduti a qualche metro di distanza, Rose e Scorpius.

«Signorina Black, si ricorda che cos'è accaduto?» domandò la preside.

Ecco...

«No, non mi ricordo nulla» rispose qualcuno al posto mio.

Spalancai gli occhi: quella voce era uscita dalla mia bocca, ma non ero stata io a parlare. I professori e i miei amici però sembravano tranquilli, come se quella voce fosse stata mia.

«Come si sente?»

«Bene.»

Avevo capito tutto: io la sentivo com'era veramente, ovvero di qualcun altro, ma gli altri la udivano come se fosse stata mia.

A quel punto ebbi la certezza di qualcosa che mi stava logorando da mesi: una creatura di cui non conoscevo nome mi stava controllando in modo definitivo.

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NELLA FOTO: Allie Darcey-Alden e Geraldine Sommerville nel ruolo di Lily Evans.

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