2 La partenza
Cecoslovacchia, 10 Maggio 1989
Sapevo che da un momento all'altro sarei dovuta andare via da questo posto, ma non immaginavo sarebbe stato tutto così difficile e surreale.
Entro in camera mia, sbattendo la porta. «Rose, aprimi subito! Non puoi fare così tutte le volte che dobbiamo parlare. Apri questa dannata stanza!» Resto per alcuni secondi ferma, con le spalle contro lo stipite, e mi inginocchio distrutta, perché no, no, no, non può essere vero, mi dico. Non sta succedendo proprio a me. Come faccio a lasciare tutto questo, io non posso. Mi scoppia la testa e le labbra mi tremano. Ancora un tonfo. Uno spasmo attraversa il mio corpo e il cuore inizia a battere veloce. «Apri immediatamente, ora!»
Ma io non voglio far entrare mia madre, non voglio fuggire dalla Cecoslovacchia, non voglio partire per l'Italia. Perché è questo che ci accingiamo a fare, nient'altro che fuggire.
Mi copro le orecchie, ma le parole di mamma arrivano proprio lì, nitide, e graffiano, fanno male al cuore. «Non fare la bambina, avanti!» Sono troppo sconvolta e l'ultima cosa che desidero in questo momento è discutere con lei. Ho bisogno di restare sola, lo devo a me stessa, per cercare di trovare un senso e farmene una ragione. Mi butto sul letto, avvilita, e decido di non ascoltarla.
«Fammi entrare, subito!»
Ma all'ennesimo richiamo mi alzo e cedo, perché non posso resistere a lungo, lo sento. Giro la chiave e me la trovo di fronte. Lei, mamma, abbassa lo sguardo, fa un passo in avanti e si ferma. Resta immobile in mezzo alla camera. Mi dà le spalle. Non so cosa stia per succedere. Non appena si volta mi giro di scatto, perché proprio non riesco a sopportarla e mi è difficile in questo frangente reggere il suo sguardo. La realtà è che non ce l'ho con lei, amo mia madre, ma non sono preparata a tutto questo, non ancora. Forse non lo sarò mai.
Allora la evito, dirigendomi alla finestra, incapace di rivolgerle una sola parola, mentre lei mi aggira e mi precede. «Qui si tratta di noi, Rose, stammi a sentire...» Mi piego in avanti, sperando di risvegliarmi da quest'incubo, e osservo ciò che a breve non vedrò più: la piccola strada che attraverso ogni giorno per andare a scuola, la fila di case dipinte di rosso. Tutto, pur di ignorarla. Ma non demorde, la conosco troppo bene, non lo farà mai. Stringo le mani, forte, e mi aggrappo al davanzale, per mantenere il controllo. Lei continua a parlarmi. «Ascoltami!» Mi prende le mani e poi mi gira il mento. Mi guarda fisso, negli occhi. «Rose», mi dice dolcemente, «so che per te è difficile...»
«Tu non puoi capire!» ringhio.
«Rose, un giorno... »
«Questa è anche la mia vita», dichiaro.
«Le vedi quelle case e le file dei garages?» le chiedo, puntando il dito e avvicinandomi al suo viso.
Annuisce. «Per me non sono semplici case. Lì ci abita il signor Pavel e lì, poco più avanti, la signora dei gatti che saluto ogni mattina», continuo.
Mi porto la mano al cuore. La mia voce trema, questa volta.
«Rose, noi...»
«Hai idea di ciò che significhi per me?»
Fissa il pavimento sorridendo, un sorriso amaro, e poi quelle case, ma non dice nulla. Per qualche strana ragione non parla. Sembra pensierosa.
«Voglio restare qui, è questo il mio posto. Qui ci sono i miei ricordi. Qui posso parlare con papà... Io... È come se fosse ancora qui», ammetto. «Io non posso rinunciare. Lo capisci mamma?» Mamma si perde nei miei occhi mentre i suoi sembrano vacillare. Ho un groppo alla gola, e vorrei urlare, più forte che posso. Mi allontano e adesso è lei ad avvicinarsi ancora di più.
«No, tu non ne hai una minima idea...» concludo delusa. Forse dichiarandolo più a me stessa che a mia madre.
La sua mano scivola su e giù lungo la mia spalla, ma non mi fa sentire meglio, no, non avverto più nulla, ho la morte nel cuore, una sensazione di vuoto, inspiegabile. Se prima potevo capire, perché non avevo ben afferrato, ora che sto realizzando ciò che potrebbe davvero significare per la nostra famiglia lasciare la Cecoslovacchia, mi rendo conto che non lo accetterò mai. Chi mai potrebbe?
E mentre lei, mamma, mi resta accanto, rimango immobile, come imbambolata, e guardo la casa accanto alla nostra. Quanti ricordi! Ogni abitazione è vicina, divisa soltanto da un fazzoletto di terra. In compenso c'è un grosso cortile in ognuna, anche se non esiste un recinto che le divide. Chissà se in Italia ci sarà tutto questo? Sento l'umidità risalirmi dentro, fino all'anima. Non un raggio di sole che riscalda, non un fil di luce, solo ombra.
«Vedrai, tutto si sistemerà», dice a un tratto, con un tono sommesso. E sembra una frase fatta, di quelle che ti dicono da bambina per rasserenarti. Ma io no, non sono serena. E non ci sto. Alzo il viso e mi soffermo sul suo volto. lncrocio le braccia e la sfido, incredula.
«Come, come?» sbotto. È più forte di me. Vorrei avere tutta la sua sicurezza, lo vorrei tanto, ma io non sono lei, e urlo, perché è tutto cio che mi rimane. «E come si risolverebbe, sentiamo!»
«Come?» dico dirigendomi verso il letto, perché non riesco a stare ferma. Sono sbalordita.
In fondo cambierò solo vita, abitudini, amici, e non vedrò più al risveglio i miei amati monti. Mamma mi osserva e sospira. Mi viene incontro, per toccarmi, ma non glielo permetto, non di nuovo.
«Siamo in Cecoslovacchia, Rose, è ora che tu te ne renda conto, e la situazione è quella che è...» afferma, cambiando registro. Ma in fondo in fondo lo so che non ci crede neanche lei. Ha un aspetto strano, ora che la studio meglio. Ha il viso chiazzato di rosso e continua a lisciarsi il dorso di una mano. Tuttavia non mi arrendo, insisto.
«Come si risolverebbe?»
Vorrei convincermi che andrà tutto bene, ma ho la sensazione che niente sarà più come prima: dovrò ricominciare da capo. E vorrei piangere, ma non ci riesco, perché sono intrappolata nel dolore, ecco come sono. Prigioniera della paura.
Così continuo ad avanzare.
«Mi dispiace tanto, ma è necessario» finge, ostentando sicurezza.
«È solo questo che sai dire?»
Come fosse una cosa normale...
"Necessario".
Ma necessario per chi?
Cosa ci manca?
Abbiamo tutto, ma forse per loro non è abbastanza. Mi sono abituata a non vedere quasi mai Maxim, il compagno di mia madre, e ad avere una mamma sempre assente, torna sempre tardi - il lavoro prima di tutto - ma andare in Italia...
L'Italia, la terra natale di mio nonno, il paese di cui ho visto le immagini soltanto in fotografia!
Forse è soltanto questo che mi trattiene dallo scoppiare a piangere; il forte legame con mio nonno e i suoi racconti su quella terra meravigliosa, abitata da gente cordiale, ospitale, calda come il tepore del sole. Andare lì, adesso che lui non c'è più, sarà un po' come riabbracciarlo...
Un'ultima carezza.
Ma un rumore mi desta dai miei pensieri.
È Karolina, la mia migliore amica. Giusto, avevamo un appuntamento io e lei. Allora mi dirigo verso il corridoio.
Mamma, però, mi afferra per un braccio. «Cosa credi di fare?»
«Devo andare», butto giù d'un fiato, scrollandomi la sua mano di dosso. «E lasciami!» sputo indignata. Mi sistemo i capelli e mi liscio la maglietta, cercando di darmi un contegno, ma sono in imbarazzo, perché questa non sono io.
«Noi non abbiamo finito», afferma con voce ferma. Mi squadra. Gli occhi due fessure. Sembra non riconoscermi.
«Noi non abbiamo mai iniziato! Perché la verità è che non ve ne frega niente di ...»
Ma non smetto, non finisco la frase, perché il rumore arriva prima e il bruciore poi. Mi tocco la guancia, umiliata. Mamma mi ha schiaffeggiato. Mi porto la mano sulla guancia, umiliata. Dove siamo arrivati? Scuote la testa, è rossa di rabbia. Ed è addolorata, tanto. Ma non le do il tempo.
«Rose, io sono mortificata, io non avrei mai voluto, credimi, io...»
La stringo forte a me e ci sciogliamo, in un abbraccio. Le accarezzo il viso e le scosto le ciocche.
Si mette le mani sulla bocca, a coprirsi il volto, e piange.
Non avevo mai alzato la voce con mia mamma, mai, eppure le avevo risposto male, non era da me. E mamma non aveva mai osato picchiarmi, mai. Cos'altro sarebbe successo? La verità è che era difficile per tutti, solo adesso me ne rendo conto.
«Non c'è altra scelta, tesoro, non ci resta che questo», aggiunge, con voce flebile. Gira i tacchi e va via, le braccia penzoloni lungo i fianchi, lo sguardo spento. E avrei voluto stringerla a me ancora, ma nonnina la stava chiamando. Così resto sola in camera, ferma, nella stessa posizione per tanto, finché finalmente scendono e mi bagnano il viso. Finalmente sto piangendo. E vorrei continuare a farlo per ore, ma c'è qualcuno che mi attende. E forse è un bene.
Perché Karolina ha bisogno di me. Ancora una volta ha bisogno di me. E chissà, forse anch'io un giorno avrei avuto bisogno di lei.
Spazio autrice.
Allora, che ve ne sembra di Rose?
Siete curiose di sapere per chi nutre tanto livore?
Qualche ipotesi?
Fatemi sapere.
Spero vi sia piaciuto il capitolo. Alla prossima.
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