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3. Occhi di miele

Due settimane dopo l'assassinio di suo padre, Gil aveva lasciato Juliet e tutta la sua vita in Inghilterra per recarsi in Irlanda. Nei quindici giorni precedenti non aveva fatto altro che arrovellarsi la mente sul motivo per cui Christopher Morgan fosse stato ucciso e soprattutto su chi fosse il colpevole del delitto. Suo padre era stata una persona di buon cuore, sempre disponibile ad aiutare i più bisognosi, colmo di amore e rispetto per la propria famiglia... chi mai poteva averla avuta con lui al punto da commettere un tale abominio?

Le parole scritte sulla missiva che gli era stata recapitata erano ben impresse davanti ai suoi occhi: Lord Morgan è stato rinvenuto questa mattina in posizione supina, con il collo spezzato e la schiena inzuppata di sangue. Il taglio degli abiti ha fatto subito pensare a qualcuno di rango nobiliare, ma solo quando dal suo volto sono stati tolti fango e foglie secche è stato riconosciuto. Vi porgo le mie più sentite e sincere condoglianze.’

Ancora, nessuno sapeva chi fosse il mittente. Ma Gil pensava solo a quelle parole, a come qualcuno aveva ridotto suo padre, di quanta malvagità l'essere umano fosse capace. Non riusciva a tollerarlo. Non solo perché era accaduto a Christopher, non accettava l'idea in ogni caso. Era stato proprio suo padre ad insegnarglielo; la violenza non portava mai da nessuna parte. E così, Gil era cresciuto seguendo l'etica di un duca che, nonostante non avesse mai adottato la violenza, era morto proprio a causa di una delle sue espressioni.
Juliet aveva tentato l'impossibile per dissuaderlo da quella che definiva solo un'impresa assurda, uno spreco di tempo e fatica, aveva gridato che a nulla sarebbe valso e che niente avrebbe riportato indietro Christopher Morgan.
Quella era stata una delle rare volte in cui Gil aveva sentito le urla di sua madre. L'aveva vista crollare nel giro di pochi giorni, così aveva pregato le sue sorelle di rimanere insieme a lei almeno fino a quando lui non fosse tornato.

Quella mattina, quando la nave fu attraccata e lui si ritrovò sul molo con la sua unica valigia e Easton al fianco, Gil seppe di aver appena iniziato un viaggio che appariva interminabile. Non sarebbe stato semplice scovare l'assassino o l'assassina di suo padre e ne era ben consapevole. Anche Easton, con cui si comportava più da fratello che da padrone, gli aveva esposto i propri dubbi. Non importava. La memoria di suo padre doveva essere onorata.

–E adesso?– gli chiese Easton grattandosi il collo. Il molo brulicava di marinai che facevano avanti e indietro trascinando grosse corde e sacchi di iuta, di cani e gatti spelacchiati che cercavano cibo negli angoli più nascosti, di grida di uomini e odore di pesce che gli inondò le narici.
Gil si schermò gli occhi con una mano scrutando l'orizzonte. Non era ancora il tramonto, eppure il cielo era già soffuso di un tenue colore aranciato che presto sarebbe sfociato in rosso.
In lontananza intravide la sagoma di quella che appariva una locanda, anche se non poteva esserne certo.
–Dobbiamo trovare una sistemazione per la notte.

Dall'alto del suo metro e ottanta, Easton seguì la traiettoria del suo sguardo. –Credete che possa andare bene?
–Credo che andrà bene qualunque cosa– gli rispose Gil in tono vago. Era concentrato sul cercare di leggere l'insegna affissa sopra la locanda, ma non riusciva a scorgere al di là del proprio naso. –Piuttosto, dobbiamo sperare che a quest'ora le stanze non siano già completamente occupate.
Erano attraccati a Waterford, perché la missiva recava che quello era il luogo della morte di Christopher Morgan, ma Gil non si era aspettato che fosse tanto caotica. Il frastuono gli rimbombava nelle orecchie al ritmo di un tamburo che battesse su un pezzo di stoffa, rischiando di fargli perdere la cognizione della realtà. Doveva restare lucido. La consolazione era che almeno aveva Easton al proprio fianco.
–Andiamo.

Ma Gil non fece in tempo a fare che qualche passo che andò a urtare contro qualcosa che rischiò di farlo inciampare.
Sul punto di aprire bocca, si rese conto che si trattava di un piede e che non era quello di Easton.
–Ma cosa...
–La prossima volta fate attenzione a dove mettete i vostri dannati piedi da damerino– sibilò una voce femminile alle sue spalle. Chiunque fosse, doveva averlo superato mentre lui e Easton si giravano.
Quello, considerò non appena vi posò sopra gli occhi, era il viso più bello che avesse mai avuto occasione di vedere. Un ovale perfetto incorniciato da boccoli di un rosso scuro che ricadevano ai lati dandole l'aspetto di una ninfa, il naso spruzzato di minuscole efelidi. La donna incontrò i suoi occhi e Gil rimase pietrificato. Erano del colore del miele.

–Invece di guardarmi come se fossi una qualche strana specie di mistica creatura venuta da chissà dove, dovreste avere la decenza di scusarvi– continuò. La rabbia – impossibile che fosse dovuta solo al loro urto di poco prima– la rendeva ancora più affascinante. Il seno si sollevava seguendo il ritmo del respiro affrettato, cercando di fuoriuscire dal corpetto di basso taglio. Quella non doveva essere una donna nobile, eppure c'era qualcosa, nella sua espressione, che ne dava completamente l'idea.
–Vi porgo le mie scuse, milady– disse Gil in tono gentile. –Ero occupato a guardarmi intorno e né io né il mio inserviente vi abbiamo notata.
–Non sono una lady– replicò lei, ancora furente. Tuttavia, dopo le scuse di Gil, sembrava essersi un po' placata. Lui la vide deglutire come se avesse appena inghiottito un nodo invisibile, e poi notò il tremore delle sue labbra rosee e ben definite e comprese che quella non era rabbia. Era paura.
–Vi sentite bene?– le domandò Easton al posto di Gil, sinceramente preoccupato. –Non avete una bella cera.

Allora, lei tornò a irrigidirsi. Sollevò il mento e li attaccò di nuovo. Probabilmente, pensò Gil, non si rendeva conto che loro non erano la vera causa del suo essere in quelle condizioni.  
–Io sto bene– sibilò. –È lui che non sta bene. E ora vogliate perdonarmi, miei lord– continuò enfatizzando l'ultima parola come se essere un lord fosse una condanna. –Devo scappare.
–Aspettate– la chiamò Gil cingendola incautamente per un gomito. Perfino Easton si stupì dell'intimità di quel gesto. Solo lui non se ne era ancora reso conto.
Gli occhi della ragazza mandarono lampi. Cercò di divincolarsi. –Che cosa credete di fare?– lo aggredì come se l'avesse appena sfregiata con un coltello.
Gil, confuso, spostò lo sguardo sulle proprie dita che le stringevano ancora il gomito e la lasciò andare repentinamente. –Vi chiedo perdono– si scusò sinceramente dispiaciuto. –Ma vedo che siete spaventata e sola, e ho pensato che aveste bisogno di aiuto.
–Non ho bisogno di alcun aiuto– fu la sua risposta secca. –Ho solo bisogno che Wallace non si riprenda adesso e cominci a darmi la caccia.

Gil non si chiese chi fosse Wallace e non ebbe nemmeno il tempo di chiederlo a lei perché, dopo le ultime parole, si era già allontanata, i capelli trasportati dal vento leggero della sera. Easton lo stava fissando in attesa e consapevole che di lì a breve Gil avrebbe detto qualcosa. Ma non fu così. Immobile, per i cinque minuti successivi, rimase a fissare il punto in cui era sparita, domandandosi quale fosse il suo nome, perché fosse sola. Soprattutto, da chi stesse fuggendo.

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