La carne dell'agnello
La donna ansimava e il suo respiro, mano a mano che ci inoltravamo nella notte, si andava trasformando nel rantolo che conduce alla morte. Non c'erano antidolorifici. Non avevamo niente. Giusto il letto.
I suoi occhi si erano fatti opachi e li apriva solo di tanto in tanto facendo galleggiare l'iride in due fessure bianche. I denti macchiati aderivano alla mucosa rosa delle labbra secche e ritirate nell'affannoso tentativo di far entrare più aria possibile. A volte mi accadeva che, tra i tanti pazienti che mi passavano per le mani, qualcuno assumesse più rilievo di altri. Era sufficiente una somiglianza, un riflesso e la mia mente lo vestiva di caratteristiche e qualità sufficienti a rendermelo familiare e amico. Avevo notato che questo mi accadeva soprattutto con i pazienti in stato di incoscienza. In quel caso la mia mente poteva lavorare senza i condizionamenti del timbro vocale o di generiche indicazioni non verbali. Lavoravamo in condizioni disumane.
In tempi normali, forse, le mie speranze di salvarli avrebbero potuto poggiarsi su concrete fondamenta ma all'ospedale da campo non potevamo fare altro che aspettare. Le milizie avevano bloccato l'acquedotto ed eravamo senza rifornimenti da due giorni. Lontana, arrivava l'eco degli ultimi colpi di mortaio che chiudeva i bombardamenti del pomeriggio. I medici europei, volontari, si aggiravano per le sale con facce da fantasmi: tutto il coraggio che credevano di avere si era dissolto come neve. Una goccia alla volta. Eppure, e questo mi sorprendeva, continuavano ad indossare i loro camici bianchi. Ci si aggrappavano. Quello che chiamavamo ospedale prima della guerra era un semplice appartamento: avevamo allestito una sala operatoria e messo letti dappertutto, anche nei corridoi, per ospitare più persone possibile. Poichè gli ospedali erano il bersaglio preferito dei bombardamenti eravamo stati costretti ad organizzare le cliniche mobili, sale operatorie che potevano essere smontate in tutta fretta e spostate in un luogo più sicuro. Non dovevamo farci trovare. Lavoravamo adottando tutte le strategie mimetiche dei criminali. I medici erano perseguitati dalle forze di sicurezza: chi curava i ribelli veniva arrestato e torturato. I giornali internazionali avevano scritto che gli attacchi ai civili erano un tratto caratteristico di questa guerra senza regole, fuori dai confini del diritto internazionale e umanitario. Oltre i confini stessi della guerra. Una volta arrivarono dieci ambulanze piene di bambini. Avevano colpito un asilo. Ce li smistammo come potemmo. Ricordo la frenesia di quei momenti, in cui era imperativo operare senza poter far altro che amputare. Non avevamo più sangue. La donna con i denti macchiati era diversa: aveva una ferita profonda alla testa. Era rimasta intrappolata sotto il bombardamento del pomeriggio mentre stava scappando. Nella sua giacca avevo trovato un passaporto e un rotolo di soldi spesso come un braccio. Non avevo idea di quanti fossero ma la prima cosa che pensai fu che avrei potuto usarli per comprare qualcosa per l'ospedale. C'era bisogno di tutto. Bagnai uno straccio nella tazza che tenevo stretta tra le ginocchia e le umettai le labbra. Quella era l'ultima acqua buona a disposizione: bisognava far arrivare un po' di taniche al più presto. Giunse la notte e i bombardamenti ricominciarono, questa volta più vicini. Facevano sempre così: sferravano un secondo attacco qualche ora dopo il primo, mentre erano in corso le operazioni di salvataggio. Dovevamo prepararci ad una seconda ondata. Mi alzai faticosamente stringendo tra le dita la tazza con l'ultima buona. Il pavimento tremava sotto i miei piedi: una vibrazione figlia delle bombe che si era fatta continua. La luce elettrica vacillò una, due volte e quando l'oscurità avvolse l'ospedale si levarono pianti e grida. Un colpo cadde molto vicino e la tazza mi sfuggì di mano spaccandosi in mille pezzi. Un medico francese si accoccolò in terra accanto al muro, pregando nella sua lingua con il ritmo forsennato dei battiti delle bombe che facevano tremare il pavimento.
Non pensavo. La mente vuota, accoglievo in me, nelle membrane calde delle mucose, l'odore della merda, della morte, dei muri in polvere, della paura e delle preghiere cattoliche del medico francese. La voce gli si strozzò in gola. Alzai gli occhi. Appeso sul muro sopra la mia testa c'era un crocifisso smembrato cinto da una corona di proiettili.
Uno dopo l'altro, con la consueta processione di dolore, cominciarono ad arrivare i feriti e mi accorsi solo molto più tardi che la donna dai denti macchiati era morta e che il suo letto sotto la finestra murata era stato liberato per fare spazio a un ragazzo malconcio. I suoi soldi, chiusi in un rotolo grosso come un braccio, premevano contro la mia coscia nella tasca dei pantaloni.
Col pretesto di riposarmi qualche minuto mi sedetti in un angolo di quella che una volta era stata una cucina. Al centro del soffitto erano ancora appese le pale di un ventilatore. Erano di plastica, di color rosso pastoso e scuro. Il colore del sangue venoso. Assorta in tale contemplazione caddi in un sonno improvviso. Chiusi gli occhi prostrata sulle mattonelle sporche, la bocca riarsa.
Un colpo di mortaio salutò il nuovo giorno. Quasi senza accorgermene, ancora tra il sogno e la veglia, mi pisciai addosso. Un altro colpo. I jeans si erano appiccicati alle gambe. Una risata isterica mi salì dal petto alla gola, alla bocca, alla faccia e mi sentivo scoppiare gli occhi. Ridevo e pisciavo e il mio stomaco vuoto aveva voglia di riso bianco, grasso come quello che sapeva cucinare mia madre. Una faccia bianca si sollevò tra i letti e sentii una voce allarmata chiamare: "Dottore."
Mi venne da ridere ancora più forte. Ero io il dottore.
"Dottore", chiamò ancora la voce di donna dalla sommità del letto. Un vecchio mi osservava dal suo cuscino, la testa appena reclinata e lo sguardo chiuso di chi ha visto troppe cose.
Mi sollevai. I pantaloni bagnati lasciavano cadere al suolo tante piccole gocce.
"Dottore", la donna continuava a chiamare e pensai alla vergogna che avrei provato se qualcuno dei miei colleghi mi avesse visto in quello stato e scesi in strada correndo sotto una mattina livida, le braccia strette al petto. Il quartiere era nudo e gli edifici sventrati mostravano i loro scheletri segreti. Mi chiesi se avessi ancora una casa e cominciai a correre nonostante tutti i muscoli mi dolessero. Sentivo il rotolo di banconote premere contro la coscia. I soldi erano umidi ma il vento freddo li asciugò in fretta, assieme ai miei pantaloni che non risultarono nemmeno troppo sgualciti. La casa era distrutta. Al suo posto: un cumulo di macerie color grigio chiaro. Le trame del filo di ferro, anima rivelata delle travi in cemento armato, disegnavano nell'aria il profilo di sagome smembrate.
Fu in quel momento, mentre osservavo inebetita gli incubi ritorti del ferro, che capii che dovevo andarmene ad ogni costo.
"Mi ascolti?", il suono della mia lingua mi raggiunse come un balsamo strappandomi ai miei pensieri cupi.
"Scusa."
Ce ne stavamo seduti sulla panca lunga addossata al muro esterno della chiesa pentecostale. Guardavamo la gente e, sullo sfondo, il gigantesco cumulo di rifiuti che si era prodotto nelle ultime settimane. I gabbiani lo sorvolavano famelici.
"Qualcuno dovrebbe decidersi a dargli fuoco."
Annuii: "Ormai è questione di giorni."
I vecchi del campo sapevano che era meglio bruciare i rifiuti quando non faceva troppo caldo e, soprattutto, non tirava vento, per non mettere a rischio le case.
Yusuf era un uomo alto, dal viso scarno e segnato. I capelli arruffati ai lati della testa lasciavano scoperta, in trasparenza, la chiazza chiara di una calvizie precoce. La pelle, segnata dalla trasparenza azzurra di vene sotterranee, tendeva al grigio.
Lui era l'interprete. Lavorava presso una cooperativa di mediazione culturale e passava a trovarci un paio di volte alla settimana. Era mercoledì e lui era appena arrivato.
"Si sono decisi", annunciò porgendomi una sigaretta, "domani ti spostano."
"Le mie valigie sono già pronte", dissi battendo la mano sullo zaino che avevo appoggiato accanto a me.
Yusuf aveva sposato un'italiana bionda bianca - lo sottolineava sempre facendo l'occhiolino -, conosciuta quando studiava all'università. Con l'arrivo della crisi economica in Europa aveva abbandonato la città, sposato la sua bionda e si era trasferito nella casa che i suoceri tenevano da parte per quando la figlia avesse deciso di mettere su famiglia.
"Qui, sai, hanno tutti almeno due case. Come da noi quando eravamo ricchi", mi spiegò facendo il segno che indicava un passato remoto. La bocca portava impressa una piega amara.
Yusuf disegnava la realtà tracciando un chiaroscuro leggero, con vasti spazi luminosi delimitati da linee nette. Lasciava, come segni di interpunzione, le tracce di un'ironia iperbolica e descrittiva. Amava il suo lavoro e, nel suo modo distaccato e privo di speranza, amava anche noi. Per lui, che parlava la nostra lingua e aveva studiato nelle nostre scuole, eravamo persone con un contorno, con un passato e forse con un futuro.
"Hanno istituito un cordone umanitario. Cominciano con le persone che hanno diritto all'asilo e che sono qui da più tempo." Ci guardò, eravamo in otto, buoni e in fila, seduti ordinatamente sulla panchina della chiesa pentecostale: "Tu", disse indicandomi.
Il mio cuore perse un palpito. Mi portavano via.
Gli altri crollarono la testa e un uomo che non avevo mai incontrato si alzò in piedi, pronto ad andarsene. "Non fate così", disse l'interprete, scoraggiato: "Lo sappiamo che l'asilo vi verrà riconosciuto. Non sappiamo quando. Ma intanto questo è già un risultato!"
L'uomo si allontanò facendo segno di no con la testa e l'interprete strinse i pugni volgendo la sua attenzione a noi sette che restavamo buoni e seduti, in attesa. "Il fatto che", esitò un istante e prese a schioccare le dita nella mia direzione, come si fa con i cani: "ricordami il tuo nome, per cortesia."
Glielo dissi, mormorando, ma la mia voce non lo raggiunse e lui fu ripreso dalla foga nel tentativo di trattenere l'attenzione della sua piccola platea. "Il fatto che lei possa beneficiare del corridoio umanitario significa che non si sono dimenticati di voi. Lo sapete che siete dei privilegiati? Vi posso assicurare che noi stiamo lavorando!", affermava le sue ragioni con forza crescente. Osservai i miei compagni, gli sguardi opachi e rassegnati. Avrebbero aspettato il loro turno o se ne sarebbero andati prima, perdendosi per le strade del mondo?
Yusuf adesso parlava di politica: ne analizzava le trame, spiegava cosa avremmo dovuto aspettarci, faceva nomi e cognomi dei responsabili dell'inazione in Grecia, a Malta, in Libia, in Turchia, in Italia, in Europa.
Governi complici, egoisti, tiranni. Le recriminazioni si accavallavano sfuggendo pesanti tra i denti. L'interprete era uno che si infuriava. Dava in escandescenze quando veniva a sapere che qualcuno "dei suoi" faceva a botte, quando ci scannavamo con i nigeriani per la droga, quando chi lavorava nei campi non veniva pagato. Diventava una bestia, a parole. Prometteva esposti. Prometteva di portare la stampa. Ogni visita si concludeva con un buon proposito che svaniva non appena Yusuf varcava il cancello. Alla fine, giunsi alla conclusione che il nostro interprete dispensasse illusioni per infonderci un maggior senso di conforto e serenità. Ciononostante, tra noi, c'era chi coglieva in questo suo atteggiamento falso e cordiale una buona dose di malafede: come quando si inganna un malato terminale continuando a sostenere che "domani andrà meglio".
Pur nell'assenza di un dialogo di carattere autenticamente personale, Yusuf incarnava l'amico che tutti avremmo desiderato al nostro fianco. In tutti evocava il fantasma di qualcuno che avevamo amato, in un altro tempo e in un altro spazio. Una sorta di brutta copia dei nostri affetti che in quei tempi difficili di rivelava un'attrattiva viscerale.
Quando discorrevamo dei momenti sereni che avevano preceduto la guerra un velo di malinconia stemperava il fondo segreto dei suoi occhi azzurri. Pur partecipando al dramma di amici e fratelli, Yusuf era stato risparmiato dall'orrore e sul suo volto appariva, evidente, il rammarico di chi sente di aver mancato ad un obbligo. Quel lampo azzurro di senso di colpa si tramutava, nella vita di tutti i giorni, in cura, perizia, accudimento. Una delicatezza quasi eccessiva contornava i suoi gesti.
Si presentava sempre con qualche scartoffia da derubricare: un modulo da compilare, una richiesta d'asilo, un foglio sciolto sul quale scarabocchiava. Prendeva nota con perizia delle nostre lamentele facendo "si" con la testa e mormorando: vedrò cosa posso fare, farò il possibile. Non appena espletati i compiti amministrativi, ripiegava le carte, le infilava nello zaino, appoggiava le mani intrecciate sul tavolo e tirava fuori le sigarette regalandoci il suo attacco: ieri sera sono andato al cinema, a pranzo ho litigato con mia moglie, l'altra domenica ho fatto due ore di coda per andare al mare. Si lamentava a modo suo, dipingendo un piccolo mondo domestico fatto di lotte e rancori. Ci teneva occupati svelandoci la vita che avevamo dimenticto. Allora, a nostra volta, raccontavamo i pettegolezzi delle nigeriane, le chiacchiere dal Salone, i battibecchi che andavano in scena lungo la fila per il bagno. Con nostra meraviglia riscoprivamo l'insondabile complessità delle faccende della vita di tutti i giorni. E, una parola dopo l'altra, tornavamo alla vita. Yusuf aggiustava il tiro e faceva in modo che il processo si realizzasse con ritmo ciclico.
Chi era appena arrivato, ancora stravolto dal viaggio e dal recente passato, ascoltava stralunato le nostre chiacchiere leggere. Yusuf, con le parole, riusciva a sgretolare il guscio bianco in cui avevamo nascosto i nostri pensieri. Ci coinvolgeva con un semplice innseco di miccia. C'era un uomo che raccontava della volta in cui, da ragazzo, aveva manomesso la moto per andare più veloce su un certo tratto di strada che in molti ricordavamo, quando per le nostre vie si poteva correre per chilometri. Liberi. Come in un Paese normale. Ricordo una storia che mi colpì perché era un po' mia e riguardava un panificio che restava aperto tutta la notte per placare la fame dei giovani notturni della città. Ci andavo anch'io quando studiavo. L'uomo che raccontò questa storia sembrava un vecchio. Aveva trentasei anni. Non furono molte le conversazioni che si svolsero in questo modo, nemmeno una decina nel corso di quasi otto mesi di permanenza al campo, tuttavia furono sufficienti per sciogliere i miei pensieri irrigiditi. Col passare del tempo i miei sogni si fecero più chiari e cominciai a ricordare quegli attimi belli che sanno di giovinezza, di sesso, di tabacco, di idee in attesa da qualche parte oltre il filo spinato. Al di là delle baracche della città dei viaggiatori.
"Quando incontrai mia moglie per la prima volta", mi raccontò Yusuf mentre, al volgere del pomeriggio sedevamo sulla nostra lunga panchina, "indossava una maglietta azzurra aderente e sotto si vedeva tutto." Sorrise: "Aveva fatto il bagno con quella, in mancanza del reggiseno del costume da bagno. Ho sognato quelle tette azzurre per mesi", e con le mani disegnava due grandi seni sul petto, accarezzando l'aria.
La mia mente dovette trovare quest'immagine stuzzicante poiché fece irruzione nei meandri del sonno all'improssivo: due enormi seni d'un azzurro abbagliante squarciarono una notte nera e senza tempo. Mia madre, sorridente, me li serviva su un piatto brillante e io li prendevo con le mani, con gratitudine, e li addentavo lasciando che si sciogliessero tra i denti.
Mi svegliai e la luce delle fotoelettriche era gonfia di vento d'autunno. Avevo in bocca il sapore del latte e, fatto inspiegabile, della carne salata dell'agnello. Uscii nel corridoio e mi affacciai alla finestra vicino alle scale, che era sempre aperta. Era novembre e quella sarebbe stata l'ultima notte che avrei trascorso alla città dei viaggiatori. Mi protesi verso l'esterno poiché il vento d'autunno spandeva nell'aria un profumo dolcissimo che non conoscevo. Come avevo dimenticato gran parte dei sapori della vita così non ero in grado di definire quel profumo che spargeva nell'aria l'odore delle rose cadute e di pino, di bambini, di terra lavorata e di giardini sotto la pioggia. I miei sensi si erano risvegliati. In quel momento capii di essere tornata a vivere come un essere umano.
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