Il sonno del bestiame
"Dici che è freddo?"
Una donna sedeva sulla spiaggia. Il mare era nero e calmo. Poco distante suo marito litigava con i marinai. Voleva un salvagente in più per il bambino che dormiva contro il bavero del cappotto della donna. Lei guardava il mare, accanto a me. Avevamo passato una notte e un giorno all'addiaccio e il freddo della spiaggia mi faceva sentire bagnata e morta. La rabbia che nutrivo in quei primi giorni di rotta corrispondeva più o meno a quel senso gelido che mi pervadeva le ossa. L'alba aveva appena iniziato a rischiarare il cielo grigio e sotto quella luce livida la donna mi apparve. Non saprei dire quando fosse arrivata. Esangue, il volto disfatto, gli occhi segnati da due occhiaie profonde.
"L'acqua del mare è più calda dell'aria, in inverno." La mia voce aveva un timbro stanco.
La donna annuì assecondando il moto ondeggiante della schiena. Cullava il bambino e se stessa. Avanti e indietro. Avanti e indietro. Come le donne che piangono.
Tremavo e mi sentivo vecchia come la sofferenza dell'uomo sulla terra. La lunga insonnia di quegli ultimi giorni di guerra aveva divorato i nostri occhi. Sebbene non potessi essere certa del mio aspetto, mi spaventava ciò che vedevo riflesso sul volto dei miei compagni. Un'onda nera ricadde in un rivolo sulla battigia rimestando un fondo di schiuma e di alghe.
"Non sembra caldo", disse stringendo le labbra che erano secche e rosa. Sottili. Delicate. Le sopracciglia alte si chiudevano su un reticolo di rughe sottili come crepe attorno allo spazio bianco degli occhi. Con le nocche tese stringeva la spalla del bambino addormentato.
Avanti e indietro. Avanti e indietro.
Il marito ci raggiunse stringendo i pugni: "Non ho abbastanza soldi", disse.
Io rimasi in silenzio, stringendo le ginocchia con le braccia.
Avanti e indietro.
Un marinaio ci richiamò tutti all'ordine: "Andiamo!"
Dal peschereccio ormeggiato a poca distanza dalla riva si era staccato un gommone grigio che procedeva, annaspando tra le onde, verso la spiaggia.
Ci alzammo tutti in piedi, una comitiva di fantasmi pallidi che scuoteva la sabbia dalle pieghe delle gonne e dei pantaloni. Non eravamo equipaggiati per un viaggio in mare e molti di noi lo vedevano per la prima volta. La donna col bambino gridò quando mise i piedi nell'acqua gelata. Il marito le tese le braccia per prendere il figlio che si era svegliato piangendo. Lei glielo passò quando un'onda più forte delle altre la fece cadere nell'acqua bassa. Fu tratta a bordo che tremava come una foglia. Avanti e indietro. Avanti e indietro.
Io portavo con me uno zaino con lo stretto necessario. Lo tenevo stretto sotto la giacca, contro lo stomaco, per paura che qualcuno me lo strappasse con la scusa di fare spazio ad altri disperati.
Salimmo tutti e il mare era vicino, sotto di noi. Ognuno trovò un suo angolo, spalla contro spalla, gamba contro gamba. Ci intimarono di non muoverci. Il marinaio fece un verso e il peschereccio ingranò la marcia, puntando verso il largo e trainandoci via.
La spiaggia grigia si allontanava. Ci venivo a giocare da bambina. Ricordo mia madre, vigile, in disparte, all'ombra di una pergola. Affittavamo una villetta per tutta la stagione e mio padre ci raggiungeva nel fine settimana tirandosi dietro qualche zio o cugino. Avevamo sempre ospiti. Oltre la duna emergevano ancora, tra sterpi e cumuli di rifiuti, le pareti in cemento del piccolo chiosco che vendeva i gelati. Sotto strati di sedimenti e di sabbia, sotto le bombe, i cadaveri e le città distrutte, di certo esistono ancora gli involucri archeologici di quei gelati.
La costa svanì oltre la linea dell'orizzonte.
La luce verde dell'ufficio sfarfallava, segno evidente che la morte – e con essa il buio – era ormai prossima.
"Nome."
Avevo fatto la fila tenendomi a debita distanza dal mio predecessore. L'avevo visto curvarsi verso l'uomo seduto alla scrivania, infilare la mano in tasca, estrarre i soldi. Aveva contato le banconote appoggiandole sul tavolo.
Fu congedato e venne il mio turno.
"Nome."
Di fronte a me sedeva un uomo giovane. Portava un paio di occhiali dalla montatura spessa e nera, di quelle che andavano di moda prima della guerra e aveva la barba ben curata. Teneva la testa china su un notes grande, a quadretti, sul quale segnava i nomi delle persone che avevano già pagato. Mi colpirono le sue mani, le vene in rilievo e le unghie corte, rotonde e rosa.
Sollevò lo sguardo e con un accenno di cortesia, a voce quieta e bassa, mi ricordò la somma e io estrassi dalla tasca della giacca le banconote che avevo già separato dal resto del rotolo che portavo sempre addosso. La luce ondeggiò e colsi, sullo sfondo, la trama di un rivestimento a piastrelle bianche che mi fece pensare che quel posto doveva essere stato un negozio. Una macelleria forse.
Misi i soldi sul tavolo e un secondo uomo, che sedeva sul lato corto della scrivania, allungò la mano. Prese le banconote e cominciò a contarle stendendole bene con il palmo destro. Portava una fede d'oro. La notai nonostante la luce verdastra che appiattiva i contrasti e, in generale, la brillantezza delle cose. Anche le sue mani erano pulite e sembravano morbide. I due lavoravano con professionalità.
Il contabile annuì per dire che si, andava bene, la cifra era corretta. Duemila euro in pezzi da venti. Pareggiò le banconote con pochi gesti e le mise in una cassettina di sicurezza insieme alle altre già versate. L'uomo con il registro sembrò soddisfatto: "Si parte venerdì", disse rivolgendosi a me con la consueta cordialità del buon bancario.
La barca che ci avrebbe portato in Europa era un peschereccio allestito come se, nel bel mezzo della traversata, fosse possibile fermarsi e calare le reti. Il gommone ondeggiava tra la costa e le ultime onde che, nel farsi sera, avevano preso forza e irrompevano furiose sui sassi e sui vicini scogli. Un verricello si attivò e una cordicella bagnata emerse dalla schiuma sgocciolando acqua e alghe. Fummo condotti verso il peschereccio che emergeva alto, bianco e solido nell'acqua opaca.
Ci fecero salire uno alla volta, aggrappati a una scaletta di corda.
La navigazione, ci dissero i marinai, avrebbe richiesto alcune accortezze. Non muoversi troppo era l'indicazione principale. E così, impietriti e immobili, guadagnammo il largo. Dal mio angolo, in cui stavo rannicchiata stringendomi le ginocchia al petto, osservavo incuriosita l'armeggiare dei marinai ma non vidi l'uomo col registro, né il contabile. A differenza di molti di noi, di cui avevo udito storie e che conobbi una volta sbarcata in Europa, io e il mio gruppo non rischiammo il naufragio. Il mare fu clemente nonostante il gelo che ci penetrava le carni e i marinai docili, dotati di una forma di insospettabile umanità.
Sentivo la murata di prua vibrare contro le scapole. Due marinai camminavano tra i corpi ammassati alzando le ginocchia nel tentativo di mantenere l'equilibrio senza pestare nessuno. Il capitano controllava la situazione oltre il vetro della cabina. Non uscì mai ma, dalla mia postazione, lo vedevo allungare la mano fuori dal finestrino per scuotere la cenere della sigaretta. Il vento la portava subito via.
Ben presto tra il timore e la paura si insinuò la noia. Il buio, fatto salvo per la luce che filtrava dalla cabina del capitano, era totale. Mi strinsi forte le ginocchia affondando la faccia nella scollatura della giacca. Dentro quella bolla di stoffa e pelle il mio alito alimentava un lieve e confortante tepore.
Ci lasciavamo condurre come animali, inconsapevoli dell'itinerario che stavamo percorrendo. Una voce tagliò l'aria. Tirai fuori la faccia dalla mia tana e sporsi gli occhi oltre la murata bagnata. Di fronte a noi, brillanti nella notte, apparve il miraggio gelato delle luci di un'isola. Una fila di punti bianchi disegnava il lungomare. Immaginai un piccolo porto in corrispondenza delle fiammelle arancioni che vibravano nella notte. Case bianche. Panchine. Le voci si sollevarono, un bambino pianse, un fremito percorse la barca seguito da un senso inquieto di ansietà, l'impulso febbrile di abbandonare subito il mare immenso, aperto, ostile.
"Seduti!", gridava un marinaio sporgendo la faccia dal finestrino della cabina.
"Seduti!".
Ci volle un po' prima che tutti si acquietassero e le voci si ricomponessero in un mormorio silenzioso. Sapevamo che quelle terre sospese erano Europa, la prima tappa verso noi stessi: esseri umani a brandelli, da ricostruire. Ricacciai la testa dentro la giacca e, cullata dal rollìo del motore, mi addormentai.
Camminai per qualche istante su una strada polverosa: avevamo raggiunto la nonna nella sua casa fuori città. Io e le mie sorelle stavamo rincasando. Un tramondo rosso bruniva la campagna accentuando i profili neri degli alberi e noi ci divertivamo a strisciare i piedi nella terra sabbiosa, sollevando una lunga scia al nostro passaggio. Un conto alla rovescia e via alla massima velocità, strisciando i piedi fasciati dai sandali. Ad un segnale convenuto ci si voltava a rimirare l'opera: vinceva chi tra noi fosse stata in grado di sollevare più polvere lungo la strada bianca.
Alle nostre spalle, in direzione del sole cheallungava le ombre, giaceva la città distrutta. Le mie sorelle urlavanoe battevano le mani. La polvere cadeva e copriva le case sventrate e i corpi aperti. I loro visi erano stirati insorrisetti d'eccitazione e tra le labbra spuntavano piccoli denti bianchi.
Il rumore del motore era svanito. Le urla si fecero più acute, nitide, aguzze. Mi svegliai, delusa nel ritrovarmi adulta e fredda. Avevano fatto alzare due donne che stavano sedute sull'altro lato del ponte. La più bassa sporgeva le braccia in avanti tentando di non scivolare sul pavimento bagnato. I due marinai le aiutarono a scavalcare il parapetto e a calarsi nuovamente nel gommone grigio che era stato trainato dal peschereccio tutto il tempo. Illuminavano il tragitto con due torce elettriche che restituivano fotogrammi alternati di mare nero e di gommone grigio.
Nella mia ignoranza dell'arte dello scafismo non sapevo che non tutti gli approdi erano buoni. Alcune coste, le più battute, erano presidiate: un problema per l'equipaggio che avrebbe dovuto tornare a casa in attesa del prossimo carico. Era essenziale sbarcare presto, senza rumore. Senza motore. Quando fu il mio turno mi mossi rigida, senza immaginazione. Dovevo chiudere tutti i pensieri fuori dalla porta se volevo farcela. Se avessi cominciato a pensare all'acqua nera, alle onde gelide, al gommone già sovraccarico dubito che sarei stata in grado di scendere la scaletta. Eppure già in molti ce l'avevano fatta. Avevamo pagato per questo. Strinsi i denti e cercai di vedere dove mettere i piedi. Alla luce tremolante della torcia mi sporsi oltre la murata, sul mare. Mi voltai di spalle. Allungai il piede. Un gradino. Due gradini. Tre gradini. E poi mi buttai indietro dove due mani mi afferrarono e mi spinsero verso il basso. Strisciai le gambe sul velo d'acqua gelata che stagnava sul fondo elastico del gommone. Due uomini in precario equilibrio allungavano le braccia per afferrare le persone che trasbordavano. Le parole mi raggiungevano smozzicate. In poco più di un quarto d'ora eravamo tutti stretti nel perimetro galleggiante del gommone di salvataggio. Chi sedeva lungo il bordo veniva investito di tanto in tanto da un'ondata gelata.
Quando il trasbordo fu concluso, i marinai liberarono il verricello e la distanza con il peschereccio cominciò ad aumentare. Uniti da quel labile cordone, ci trascinarono per poche miglia verso le isole che, dalla nostra altezza, il mare andava ingoiando nella danza delle onde. Ormai erano vicine e parevano quasi nostre. Nessuno notò il momento esatto in cui la fune fu sganciata. Semplicemente vedemmo le luci della cabina del capitano farsi sempre più piccole e dirigersi in una direzione differente rispetto alla nostra. Eravamo in balìa delle onde.
Qualcuno piangeva ma la maggior parte delle ottanta persone a bordo respirava immobile sul velo inquieto del mare. Mi rintanai all'interno della giacca, dove l'oscurità era totale. L'odore che saliva dal mio petto riuscì a calmarmi. Respiravo e pregavo. Respiravo e pregavo. Meccanicamente e senza scopo.
Quando ci salvarono dormivo, sfinita. Una nuova alba aveva cominciato ad illividire il cielo e al silenzio della notte facevano seguito le urla rabbiose delle donne. Qualcuno gridava in inglese dal ponte di un pattugliatore militare chiedendo a gran voce se fossimo tutti vivi. Vidi un uomo dal petto grosso che si sbracciava tendendo fino allo spasimo la divisa bianca della marina.
Urlava corrugando le sopracciglia per lo sforzo e si portava una mano a coppa al lato della bocca. La sua voce fu offuscata dal suono dei motori. Ci lanciarono una cima e molte mani si tesero per afferrarla.
Il sole sfavillava gelido sulla nuova terra che toccammo. Ci sbarcarono sul molo di una città ben costruita. Il riverbero era accecante e quando misi il piede sulla terraferma mi sembrò che questa continuasse ad ondeggiare. Ebbi un capogiro e caddi sulle ginocchia piantando le mani sul cemento duro e granuloso. Sentii un forte bruciore e vidi il primo sangue sgorgare.
Una donna coperta dalla testa ai piedi da una tuta bianca mi aiutò a rialzarmi. Mi diedero dell'acqua e mi portarono in una stanza chiusa, protetta dal sole e dal vento. Fu allora che un uomo dal tocco gentile spalmò il dorso delle mie mani con una pomata antiscabbia. Poi ci portarono al centro diaccoglienza che, quando arrivai, era già sovraffollato. Ci fecero sedere tutti in fila per non perderci di vista mentre i militari piantavano altre tende blu, copie identiche di quelle che avevo già visto in guerra. Aspettavo, seduta sul pavimento in cemento del vasto hangar. Quella notte, abbracciandomi per prendere sonno, fui grata del cibo e della branda che mi avevano assegnato. Non pensavo a nulla. Ero al sicuro. Non sarei morta. Dormii un sonno profondo da animale. Senza sogni. Senza incubi.
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