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Allah è il più grande

Erano quasi le tre e mezzo del mattino quando il richiamo alla preghiera mi svegliò. Allah è il più grande. Il lamento mi raggiunse nel cuore di un sogno dal sapore di kibbeh e quando aprii gli occhi la camerata sporca era piena di donne addormentate. Un giardino di vergini sformate, illuminate dal raggio di luce bianca che entrava dalla finestra senza scuri. Molte si coprivano la faccia con un pezzo di coperta, alla ricerca disperata di buio e di intimità. Tutti quei corpi mozzi affioranti tra gli stracci sembravano gli ultimi brandelli di un naufragio. Allah è il più grande.

Mi sollevai a sedere. Ero al campo da una settimana: dormivo poco, mangiavo meno e non avevo niente da fare.

Al mio fianco, Sunday mosse scompostamente i piedi.

La sera in cui ci conoscemmo mi disse che si era appena trasferita. Ci tenne a farmelo sapere non appena appurammo la convenienza di un linguaggio misto a base francese, con solitarie incursioni di parole inglesi e italiane. Al campo funzionava così. C'era gente che si spostava in continuazione, con persone arrivate dal mare o in costante nomadismo tra baracche e prefabbricati, dentro o fuori dal recinto, aveva poca importanza.

Aveva appena rotto con il suo uomo che era anche il suo protettore giù al villaggio dei viaggiatori, dove le case della baraccopoli erano state costruite lungo la pista di atterraggio di un vecchio aeroporto.

"Prima – disse Sunday abbassando le ciglia, concentrata in un'attenta osservazione della pelle delle gambe - abitavo in una bella casa. Vicino alla discoteca."

Mi ci accompagnò qualche giorno più tardi a vedere la sua "bella casa": oltre un cumulo di rifiuti sul quale era stata piantata una bandiera americana c'era una scatola di compensato. In alcuni punti era rinforzata con pannelli di legno impiallicciato bianco, spesso. La pioggia aveva gonfiato il truciolato che in alcuni punti era scoppiato. Non aveva finestre sotto un tetto in lamiera ondulata. Le era stata concessa in usufrutto dal suo protettore che, una volta diventato ex, aveva ritirato il beneficio.

"Dentro avevo anche la corrente...", sospirò rievocando i bei tempi in cui aveva unbuco tutto suo. Adesso dentro ci stava un'altra donna e lei, una voltascacciata, aveva preso un materasso e si era fatta spazio tra i letti del dormitorioscostandoli con i piedi, come avevo fatto io. 

Si grattava furiosamente le caviglie mentre parlava delle sue traversie. Il suo ex la faceva andare a letto con tutti e poi si teneva i soldi. Quando aveva bisogno di qualcosa doveva sempre andare a battere cassa e se lui era ubriaco la picchiava. 

"L'ultima volta era così", mi spiegò appoggiando tutta la mano aperta all'occhio. Poi la allontanò di diversi centimetri per simulare il gonfiore.

In verità, e questo potei ricostruirlo nel corso della nostra frequentazione, finiva quasi sempre a botte. Aveva trovato un nuovo protettore, un senegalese che le lasciava fare quello che le pareva e la proteggeva in cambio della metà dei proventi: "E poi gli lascio anche qualcosa per la casa."

Si era preso l'incarico di costruire la loro nuova baracca: "In tutto mi è già costata 400 euro di mattoni e 450 di affitto del terreno", diceva Sunday con orgoglio malcelato mentre era intenta a truccarsi gli occhi che era neri e densi. 

Sunday parlava veloce mentre espletava le sue attività quotidiane: ad esempio, mentre si dava lo smalto sulle unghie o schiacciava le pulci che continuavano, senza sosta, a morsicarle i piedi durante il sonno. In genere la ascoltavo senza troppo interesse, mi limitavo ad annuire o a sorvolare sui passaggi incomprensibili della sua lingua o della sua filosofia tuttavia, di tanto in tanto, riusciva a risvegliare la mia attenzione.

"Affitto?", mi ritrovai a chiedere stupita.

"I nigeriani rivendicano il villaggio", mi spiegò. L'affitto andava pagato altrimenti ti buttavano giù la casa.I materiali da costruzione, invece, li aveva comprati regolarmente e arrivavano dalla città: c'erano degli italiani che li consegnavano fin dentro alla baraccopoli con un camioncino bianco. "Mattoni, calce, tegole", enumera con le dita: "Ti portano tutto quello che vuoi se paghi in contanti." Mi confessò che lei era riuscita ad ottenere un piccolo sconto dal titolare dell'azienda fornitrice, un italiano che veniva a scopare alla Discoteca. 

I nigeriani avevano costruito una baracca un po' più grande delle altre e ne avevano fatto un vero e proprio locale notturno con tanto di alcol, droga e minorenni. Anche Sunday lavorava lì e aveva la sua clientela.

Allah è il più grande: la voce arrivava dall'esterno e la notte bianca dei riflettori mi impediva di prendere sonno. Il tramestio proveniente dall'angolo della cucina significava che qualcuna si stava preparando la colazione.

La questione era semplice. Mariama me l'aveva spiegatala sera prima nel suo francese chiaro e netto, sollevando un polverone all'internodella camerata: le nigeriane erano puttane, le altre no e andavano a lavorare.Mariama era senegalese ed era una donna grande, nera e cattolica. Avevaespresso la sua verità piantando le mani sui fianchi alti. Si batteva il petto egridava mostrando una lingua tenera e rosa. Una rivelazione di delicatezza secomparata a quel suo sguardo duro oltre gli zigomi alti, segnati da piccolecicatrici: "Io no puttana", gridava. Lei andava a lavorare. Per questo sisvegliava prima dell'alba.

La stagione delle fragole era cominciata e le donne erano particolarmente ricercate in questo tipo di raccolta perché, con le loro dita delicate, riuscivano a staccare il frutto senza schiacciarlo. 

Il problema erano gli italiani, Mariama diceva "i padroni" stringendo gli occhi: ti facevano lavorare quindici ore sotto il sole e poi poteva capitare che non pagavano. Mariama allora mimava il segno di sputare per terra, trattenendosi per non sporcare il letto di qualche compagna: "Merda", diceva,"gli italiani sono merda."

Allah è il più grande.

Mariama si era alzata. La vedevo muoversi lenta, schiacciata dal mal di schiena, mentre si portava la tazza alla bocca.

Una volta Sunday mi chiese se avevo dei soldi.

"No", mentii.

"Allora devi trovarti al più presto un lavoro o un protettore", mi redarguì. Per una ragazza sola i soldi erano indispensabili. Ci compravi tutto quello di cui avevi bisogno. Si offrì di presentarmi qualche protettore e magari qualche italiano. Alla discoteca c'era sempre richiesta anche se, e mi squadrò storcendo la bocca: "Sei un po' vecchia e troppo secca per i gusti dei clienti."

 "Ma", interloquì battendo le dita sul mio ginocchio per confortarmi, "puoi sempre provare."

Sorrisi al suo tocco: "Grazie, ma non starò qui per molto. Ho già fatto domanda d'asilo."

Lei sollevò le sopracciglia belle e scoppiò in una breve risata: "L'abbiamo fatta tutti. Io sono qui da due anni."

Mariama si strinse nello scialle assicurandosi di proteggere bene la gola e il petto, l'aria del primo mattino poteva essere ancora fredda. Osservai il suo profilo sfilare nel corridoio, seguito da altre donne infagottate.

Allah è il più grande.

Sunday sbatté stizzita i piedi e si rigirò sul materasso portandosi le dita sulle palpebre ancora truccate.

"Perché non te ne vai?", le avevo chiesto poco prima di addormentarmi, quando il silenzio della camerata si era fatto spesso. 

"Andare via?", aveva risposto alla mia domanda con una domanda, poi aveva distolto gli occhi mormorando: "Juju". Mi spiegò che era stata maledetta quando erapartita dal suo villaggio e che per liberarsi dalla maledizione si era impegnata acorrispondere trentamila euro ai nigeriani del campo. "La magia è forte", mi assicurò. Lei lo sapeva. Aveva visto cosa succedeva a chi non pagava il debito. Le avevano fatto bere i suoi capelli mescolati al suo sangue. Se lei se ne fosse andata senza sciogliere la maledizione sarebbe morta. "Si tratta di un debito importante, me ne rendo conto, ma in due anni ho già ripagato quasi diecimila euro." E in tutto questo le restava qualcosa per sé. 

In fondo non era una brutta vita ma la potevi fare solo se eri giovane. Una volta lasciato il campo sarebbe andata a Roma, dove viveva sua sorella, e avrebbe aperto un negozio di bellezza, così lo chiamava. Non ho mai capito bene cosa intendesse perché nella sua descrizione, la fisionomia del negozio cambiava di volta in volta, a seconda dell'emozione del momento: un giorno boutique, un giorno spa, un giorno centro estetico.

E' possibile affermare che in quella fase problematica della sua vita, Sunday esercitasse tutto il giorno le sue più grandi passioni: scopare e farsi bella. Dopo il lavoro, il tempo libero lo trascorreva con il suo senegalese o nella baracca delle hairdressers, dove le donne si truccavano e si facevano le trecce. L'elettricità non era ancora arrivata, quindi le donne si limitavano a lavare le teste eliminando pidocchi e altri parassiti. Anch'io ci andavo un paio di volte alla settimana. La prima volta Sunday aveva insistito dicendo che con le mani fasciate non avrei potuto lavarmi i capelli e che in ogni caso mi avrebbe tirato su di morale. Il salone era una scatola di lamiera senza porta. Una grande apertura, storta e rettangolare, era stata ritagliata nel metallo. Una finestra dava sulla strada. "È importante che le clienti possano sbirciare dentro", disse Sunday che mi accompagnava. Due sedie spaiate erano state posizionate di fronte ad altrettanti specchi di misure diverse e per terra, proprio in corrispondenza con la traiettoria disegnata dalle teste reclinate delle clienti, c'erano due grandi tinozze d'acqua saponata. Veniva attinta con caraffe di plastica e veniva usata più volte e per più clienti.

Mi fecero accomodare su una delle due sedie e per la prima volta dopo tanto tempo vidi il mio volto allo specchio. Non mi riconobbi benché intuissi la geometria di tratti a me familiari: le sopracciglia di mio padre, la bocca di mia madre con un incisivo appena più sporgente dell'altro. Sembrava la faccia di una lontana parente, familiare e mai incontrata prima. Non io. Sunday parlava forte come suo solito mentre Zainab, la parrucchiera migliore del campo (per sua stessa ammissione) la pettinava con le mani e la preparava al lavaggio.

Giravano voci in città, Sunday disse proprio così: "Sono appena arrivati. Tre pullman. Gente che sta in Europa da tanto e che volveva passare il confine per andare in Germania. Li hanno presi tutti e li hanno portati qui all'inferno. Sono tutti senza soldi e voglio tutti scopare." Rise. Sunday parlava così, a frasi mozze chiudendo col fiato ancora teso. Lanciava una parte del messaggio e poi si bloccava in attesa di formulare un nuovo pensiero per proseguire la sua storia.

Armata di un pettine a denti piccoli, Zainab separava le ciocche nere e infilava il naso a pochi centimetri dalla cute in cerca di parassiti da eliminare. Nonostante fosse miope, il suo controllo era talmente accurato che nulla le sfuggiva.

"E poi c'è un'altra novità", proseguì Sunday riferendo con dovizia di particolari che due pakistani si erano accoltellati quella mattina presto fuori dalla discoteca. Si stavano facendo arroganti. "Ho sentito gli uomini parlare per organizzare un controllo", una sentenza che voleva significar che i nigeriani stavano preparando una spedizione punitiva nel quartiere degli asiatici. Zainab, tacendo, annuì con gravità.

"Gli uomini si devono sfogare", disse una donna che non avevo mai visto e che se ne stava seduta in terra. Era intenta a scegliere la musica dal cellulare.

"Queste canzoni le conosco tutte", sbuffò a voce alta rivolgendosi a Zainab che nel frattempo aveva raccolto una caraffa d'acqua dalla tinozza e stava bagnando la testa di Sunday.

Notai che oltre la finestra, sul lato opposto della strada, un uomo osservava l'interno del salone: la schiena appoggiata alla baracca di fronte. Indossava un paio di occhiali da sole e due jeans tagliati lungo le cosce. Doveva essere un tipo alla mda. 

Mi chiesi se fosse il protettore di Sunday. 

Lei rideva forte. Le lamiere vibravano in corrispondenza delle note più alte.

"Quindi", chiesi "tutte queste persone che tentavano di andare in Germania sono state respinte?" 

"Sembra che su non ci vogliono", commentò Zainab con un sospiro che le sollevò il petto grosso.

"Se arrivi in Italia resti in Italia", tagliò corto Sunday osservandomi da sotto le palpebre.

"E in Italia non c'è lavoro buono se non hai documenti", aggiunse Zainab: "e non hai documenti se non hai lavoro."

Quelle parole rimasero intrappolate nella mia mente fino a sera. Passando il braccio sotto la testa, sentivo la trama di trecce strette e africane che Zainab aveva tessuto. Il canto che attraversava il campo ricordava ancora una volta la grandezza di Allah. Sunday si rigirò sul suo materasso, voltandomi le spalle pronunciò alcune parole incomprensibili nella sua lingua nera.

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