27 - Winter Overture
Quando la BMW si fermò di fronte la curva tra Norwood Park e Norwood Gardens, Gabriel spostò lo sguardo verso le luci accese del piano terra della villetta e deglutì a vuoto.
Sentiva l'ansia scorrergli in abbondanti fiotti nelle vene, mentre i polmoni, allargandosi, non facevano che battere contro la cassa toracica fino a fargli male. Così, con gli occhi fissi sulla porta d'ingresso, inspirò ed espirò velocemente.
Spalancò lo sportello e, non appena mise piede a terra, corse nella direzione del cancello, dove vide una chiazza di sangue ancora fresca.
«Cosa posso fare?» si chiese. I denti che battevano gli uni sugli altri e le palpebre fisse, immobili, che stentavano a muoversi. Serrò la presa sul cancello, poi si guardò attorno e, dopo essersi assicurato di non essere osservato, fece l'unica cosa che mai si sarebbe aspettato di fare: scavalcò; a fatica, ovviamente, ma ci riuscì.
Barcollò sul posto, strusciando le suole delle Dior tra i ciottoli del viale, e si morse la lingua, mugolò di dolore. Recuperò l'equilibrio in un batter d'occhio, si portò una mano alla bocca e avanzò con passo spedito verso la porta d'ingresso. Salì i tre gradini del portico, poi entrò come se nulla fosse e serrò le labbra, cercando di non emettere alcun suono.
«Chi è?» chiese Abeigeal da lontano.
A quel s'irrigidì e, immobile nell'ingresso, attese di essere raggiunto.
«Gabriel» mormorò lei, battendo le palpebre e cercando di addolcire lo sguardo. «Non ti aspettavamo.» Accennò un sorriso e posò la schiena contro lo stipite della porta del salone. «Anzi, mi chiedo perché tu sia entrato senza suonare; non è da te...» Mosse appena il capo nella sua direzione, poi lo inclinò di lato e incrociò le braccia al petto, volendo impedirgli di andare oltre la soglia. «Come mai sei qui?»
Sentendo quell'inutile tergiversare, lui s'infiammò e, per un attimo, allargò le narici. Provò a sorridere, a dire: «Vorrei parlare con Simon, se possibile». Ma non riuscì a mantenere la propria espressione per più di qualche istante, cosa di cui si accorse da solo, guardando negli occhi di Abeigeal.
«Ah, davvero?» indagò, con un sopracciglio sollevato. Spostò un palmo contro il lato opposto del montante e sollevò un angolo delle labbra, scuotendo la testa. «Avresti potuto chiamare, lo fai spesso.»
«Ciò che devo dirgli è molto importante» insistette, divagando con lo sguardo. «E personale.» Iniziò a percepire il nervosismo scivolargli lungo la schiena. «Non posso vederlo?» incalzò, alludendo nella sua direzione con le sopracciglia aggrottate.
«Non ti negherei mai di vedere mio marito» ridacchiò. Allontanò la mano dallo stipite e si spostò da quest'ultimo, muovendo un paio di passi nel salone. «Prego, accomodati» lo invitò.
Gabriel si sentì sulle spine e non poté fare a meno di chiedersi fin dove la sua trappola potesse essere tessuta, perciò, con i muscoli tesi, serrò i denti e la seguì. Gli occhi fissi sulla sua schiena, sulle mani libere che gesticolavano appena. Si umettò le labbra, poi disse: «Grazie».
Allora sollevò lo sguardo e lo vide: era piegato sul tavolo, riverso su un fianco, con gli occhi chiusi e la fronte sudata, proprio come Randy. Impallidì e raggelò a un paio di metri di distanza, mentre Abeigeal prendeva posizione a capotavola.
«Credo che abbia bevuto troppo» soffiò divertita, guardandolo e afferrando il bicchiere di vino che aveva di fronte. Lo mosse, poi se lo portò alle labbra e sollevò le sopracciglia. «Succede spesso, in realtà.»
«E Randy?» Le vide indurire l'espressione, perciò ripeté: «Anche Randy ha bevuto troppo questa sera?».
Abeigeal socchiuse le labbra ed emise un suono leggero, di finta innocenza. «Oh, lo hai incontrato?»
«Si può sapere che diamine hai messo in quelle cheesecake?» ringhiò, avvicinandosi con passo deciso per afferrarla. La guardò negli occhi, certo di poterla far tremare, quantomeno inquietare un po', grazie al tono serio e minaccioso che aveva usato; tuttavia lei sembrò inamovibile e, fissandolo, batté le palpebre una sola volta.
Si scrollò la sua mano di dosso, poi sorrise e disse: «Puoi portarlo via, se proprio lo desideri, ma non sono certa che farai in tempo per salvarlo». Vide i suoi occhi sgranarsi, così aggiunse: «Belladonna».
«Belladonna?» echeggiò.
Lei annuì e accavallò le gambe, posando un gomito sul tavolo e adagiando il mento sul pugno chiuso. «La belladonna può essere mortale, ovviamente. Arrivato a questo stadio, Simon finirà presto in coma.» Si strinse nelle spalle e aggiunse: «Mi dispiace solo che sia lui quello che ne ha mangiata di più. Speravo che Randy fosse più goloso, ma hanno litigato e ha abbandonato la tavola...». Fece un sorriso amaro, poi si lasciò scappare un suono divertito. «È duro a morire.»
Gabriel non riuscì a trattenersi: digrignò i denti e fece scattare la propria mano, colpendola in volto con un manrovescio. Allora la sentì ridere e sgranò gli occhi, mentre si avvicinava una mano alle labbra per portare via un rivolo di sangue. «Sei un mostro» scandì. «Non mi stupisce che tu sia figlia di quell'uomo.»
«Allora lo sai» sussurrò, alzandosi dalla sedia. Lo vide allontanarsi per raggiungere Simon e caricarselo sulle spalle a peso morto. «Eppure non mi hai ancora denunciata, non hai chiamato la polizia...» Sollevò il mento con fare sprezzante e si trattenne dal ridere di gusto. «Perché?»
«Non sono affari che ti riguardano» sibilò, superandola e procedendo deciso verso il corridoio.
«È per Randy, non è vero?» chiese all'improvviso. Lo vide immobilizzarsi di fronte alla porta d'ingresso, così scosse la testa e si aggrappò al montante del salone, lasciandosi andare a una risata cinica. «Oh, sei così divertente, Gabriel Graham!» continuò tra gli spasmi. «Preferisci lasciare impunita la persona che ha tentato di uccidere il tuo migliore amico per un ragazzo che conosci appena!»
«Taci» sputò rabbioso. Aprì la porta e non aggiunse altro, certo che Abeigeal avrebbe continuato a ridere se solo lui le avesse dato corda.
«Non vuoi farlo arrestare» continuò lei, andandogli dietro e seguendolo lungo il viale. «Perché sai che lo arresterebbero, giusto? Sai che marcirebbe in prigione!»
Fece stridere i denti gli uni con gli altri, ma non aprì bocca e si fermò di fronte al cancello. Solo allora spostò lo sguardo nella sua direzione e mormorò un: «Fammi uscire». Inspirò a fondo, mentre lei, scuotendo la testa, si lasciò andare a un'ultima risatina.
Disse: «Certo, come vuoi». Alzò le mani, poi si ritrasse all'interno della propria abitazione e tornò da lui con estrema lentezza. Infilò la chiave del cancello nella toppa e, dopo averla girata un paio di volte, lo aprì di fronte ai suoi occhi severi. «Puoi portarlo in ospedale» gli concesse con un'alzata di spalle. «Ammesso che tu sappia giustificare come ben due persone in una sera siano finite in pronto soccorso per avvelenamento da belladonna.»
Sentendo le sue parole, Gabriel chiuse gli occhi e li riaprì rabbioso. Non le rispose, ovviamente, e non pensò neppure per un istante di lasciare Simon lì dov'era. Si mordicchiò l'interno delle guance, raggiungendo l'auto come se avesse il diavolo alle calcagna.
Poi lo lasciò cadere sul sedile del passeggero e gli mise la cintura di sicurezza. Deglutì a vuoto, consapevole del fatto che, con la debolezza del suo battito e del suo respiro, avessero ben poco tempo da perdere.
«Non ti lascio morire» disse a mezza bocca, guardandolo.
Chiuse lo sportello, lanciò un'occhiata gelida verso Abeigeal e poi corse dall'altro lato della BMW. Prese posto di fronte al volante, mise in moto senza dire una parola e quasi non si accorse di aver sgommato sulla curva per Sydenham Avenue.
Gli occhi fissi sulla strada e l'ansia che continuava a salire attimo dopo attimo, mentre il cellulare vibrava nella tasca sinistra dei pantaloni. Avrebbe voluto rispondere, ma sapeva che, se solo lo avesse fatto, non sarebbe più riuscito a contenersi.
«Dio, non ci riesco!» sbottò, stringendo il volante quasi come se avesse voluto stritolarlo. Spostò la mano sull'altoparlante dell'auricolare e lasciò che i polpastrelli tremassero, indecisi, contro di esso. «Non ci riesco...» grugnì.
Si passò le dita tra i capelli e prese a respirare più pesantemente, quasi con affanno, perché si sentiva in bilico, lontano da Darrell e Randy, e tutto gli sembrava una maledetta corsa contro il tempo. Allora affondò sull'acceleratore.
Spostò lo sguardo dalla strada a Simon, imprecò e, fermo nel traffico della B505, su Holywood Road, sputò un sonoro: «Cazzo, muovetevi!» Diede un colpo di clacson e spalancò gli occhi, mentre il cuore cominciava a battere veloce nelle sue orecchie.
Alla fine, raggiungendo il Lagan Bridge, si arrese all'ennesima chiamata di Darrell e premette sull'auricolare.
«Dove cazzo sei?» esordì questi. Sembrava arrabbiato, perlomeno a detta di Gabriel, il quale, deglutendo, impiegò un po' a rispondere e mormorò:
«Sto tornando al Royal Victoria Hospital».
«Dove cazzo sei adesso?» riformulò, cercando di essere più incisivo. «Lo hanno portato via su una barella. Non so dove si trovi, né in che condizioni sia adesso. Voglio vederlo, Gabriel.»
Lui serrò i denti, per poco non spostò le mani dal volante per passarsele in faccia in un moto di esasperazione. Darrell sembrava un ragazzino, così si disse, e avrebbe tanto voluto scuoterlo, prenderlo a schiaffi, per risvegliarlo dal suo stato di shock.
«Cosa pensi che possa fare io?» domandò piano, quasi lo scandì. «Credi che non voglia vederlo? Credi che sia per questo che me ne sono andato?» Non ottenne risposta, così si umettò le labbra e continuò: «So che sei sconvolto, Darrell, ma cerca di calmarti, di ragionare lucidamente. Se non lo fai, non andrai da nessuna parte».
«Facile a dirsi» schioccò Darrell. Abbassò lo sguardo verso il suolo e lo puntò sulla punta delle proprie scarpe. «Io non sono come te, io non riesco a restare calmo di fronte a queste situazioni.»
«Lui non è Lucia» sbottò. Sentì il proprio cuore andare in pezzi nello stesso istante in cui disse quelle parole, tuttavia, con gli occhi lucidi, continuò a osservare dinanzi a sé e disse: «Lui non ti sta lasciando, non vuole farlo. Sta male per colpa di un avvelenamento da belladonna».
Darrell non rispose, rimase senza parole e, con il cellulare attaccato all'orecchio, sgranò gli occhi. «Sei andato da Simon?» balbettò. «Non volevi lasciarmi qui, non mi stavi abbandonando, volevi solo salvarlo...» Corrugò appena la fronte in un misto di confusione e apprensione, dopodiché gelò sul posto. «Come fai a sapere della belladonna?»
«Te lo dirò dopo.» Cercò d'ingoiare il groppo che aveva in gola, di mantenere lo sguardo fisso sulla strada. «Avvisa qualcuno: un medico, un paramedico, qualsiasi persona che è nei paraggi.» Deglutì, stringendo le mani attorno al volante con maggior vigore. «Almeno potrai vederlo.»
E lui, con gli occhi pieni di lacrime e il respiro spezzato, inspirò a fondo. Abbassò il telefono, riuscendo a stento a chiudere la comunicazione. Tra sé e sé, disse: «Non è Lucia».
Dal canto suo, Gabriel si morse il labbro inferiore e s'impose il silenzio. Un nodo in gola e l'incredibile voglia di gridare. Si diede mentalmente dell'idiota e restrinse lo sguardo, illuminato dai fanali dell'auto che aveva di fronte.
Allora grugnì, serrò i denti e deglutì a vuoto. Superò l'incrocio con Nelson Street e accelerò lungo l'A12, suonando il clacson un paio di volte per mettere fretta alle altre auto.
Poi, alla svolta con Albert Street, iniziò a percepire una certa ansia e tornò a guardare Simon. Allungò una mano nella sua direzione, cercando di tastargli il collo alla ricerca del battito cardiaco. Quasi non riuscì a sentirlo, perciò contrasse la fronte e biascicò un: «Resisti...».
E non riuscì a capacitarsi di come, su Servia Street, all'incrocio della B38, un'auto scura potesse aver acceso gli anabbaglianti. «Cazzo!» grugnì. Distolse inconsciamente gli occhi, ferito dalla luce, che arrivava di traverso, e cercò di mantenere il volante il più dritto possibile.
Eppure quell'auto scura non si fermò. Procedette spedita, forse anche troppo velocemente, lungo la B38 di Grosvenor Road. Gli anabbaglianti accesi, poi spenti. Dritta verso la fiancata della BMW di Gabriel, intenzionata allo schianto. Quando la colpì, la carrozzeria sembrò accartocciarsi su se stessa, spaccandosi in più punti come una scatoletta di tonno.
Gabriel spalancò gli occhi e allungò istintivamente un braccio verso Simon, nonostante fosse consapevole che la cintura di sicurezza lo tenesse ben fermo.
Si voltò nella sua direzione e, in un attimo, lo vide scattare in avanti, verso il cruscotto, e poi all'indietro, addosso al sedile.
Mancò un battito e trattenne il fiato, urtando con la testa contro il parabrezza che s'incrinò e macchiò di sangue. Poi gemette e là, di fronte al volante intonso, non poté fare a meno di pensare a quanto fosse buffo il destino; si chiese quanto fosse sfortunato, perché l'airbag non si fosse aperto, perché quell'auto si fosse schiantata proprio addosso alla sua e perché non fosse riuscito a raggiungere il Royal Victoria Hospital.
Infine si lasciò sfuggire un leggero suono divertito e, mentre la testa prendeva a vorticargli, spostò lo sguardo al di là dei vapori che riempivano l'aria. Osservò l'angolo della strada, lo stesso in cui avrebbe dovuto svoltare prima di raggiungere la stecca rossa e bianca del pronto soccorso.
«Assurdo» biascicò. Spostò una mano sul volante, poi la sentì scivolare via e batté le palpebre un paio di volte, cercando di rimanere sveglio.
Solo allora, con la coda dell'occhio, vide una figura indefinita avvicinarsi e si rese conto di non riuscire a muovere il collo.
Deglutì, inspirando piano, e tossì, provando un forte dolore all'altezza dello sterno; le costole, così si disse.
«Ma certo, dovevo immaginarlo» borbottò in un sospiro. Chiuse gli occhi, poi allungò le dita verso l'auricolare, che, per puro caso, era ancora appeso al suo orecchio destro, e premette nervosamente il tasto della chiamata. «Rispondi, Darrell...» Non riuscì a dire altro, perché subito perse i sensi e si accasciò contro il poggiatesta.
In lontananza, prima ancora che il proprietario dell'auto scura potesse raggiungere la portiera di Gabriel, si udì il suono dell'ambulanza; allora questi gelò sul posto e si lanciò in Roden Street, sulla sinistra, sparendo dalla circolazione.
Poi, dopo qualche istante, al settimo squillo, Darrell rispose con un debole: «Pronto?».
Non udì alcuna risposta e aggrottò subito le sopracciglia, guardandosi attorno e spostando gli occhi lungo le pareti bianche del Royal Victoria Hospital. Sentì l'eco dell'ambulanza, e subito trasalì.
«Gabriel?» lo chiamò. La voce sommessa e le sopracciglia contratte dalla preoccupazione. Serrò le dita attorno al cellulare e allargò le narici, mentre l'aria faticava a entrare e a gonfiargli i polmoni. «Cosa sta succedendo?» esalò.
Mosse appena le labbra, poi le serrò e si voltò verso la porta d'uscita del reparto. Perciò, non appena vide un paio di medici camminare in quella direzione, la raggiunse a grandi falcate e iniziò a dire:
«Sono al telefono con mio fratello e lui non risponde».
Li guardò con gli occhi sbarrati, ansimando e mostrandosi il più agitato possibile.
«Sento il suono dell'ambulanza che si avvicina.» Spostò il cellulare dall'orecchio e lo mosse verso di loro. «Lo sentite anche voi? Non sono pazzo, dico davvero! Stava correndo da un'amico, doveva portarlo qui in ospedale...» La vista gli si appannò a causa delle lacrime, e lui si trattenne dall'imprecare sotto lo sguardo confuso dei due medici che aveva dinanzi. «Ditemi cosa sta succedendo» li pregò. «Gli è successo qualcosa? C'è un'emergenza? Un'incidente?»
Uno di questi scosse il capo e disse: «Noi non sappiamo nulla delle chiamate che arrivano al 999».
Darrell si portò una mano alle labbra e trattenne un singhiozzo, avvicinando di nuovo il cellulare all'orecchio nella speranza che Gabriel dicesse qualcosa. Vide i medici superare la porta di metallo e serrò i denti, consapevole del fatto che, se solo l'avesse varcata a sua volta, non avrebbe più potuto avere notizie di Randy.
«Sono ancora vivi!» gridò una voce dall'altro lato della comunicazione. «Tiriamoli fuori!»
Il cuore di Darrell accelerò di colpo, e lui non riuscì a trattenere le lacrime, passandosi una mano sul viso. Si nascose dalla vista della gente che passava lungo il corridoio e posò le spalle contro il muro, serrando i denti e inspirando a fondo. Poi, poco dopo, iniziò a sentire degli strani rumori: stoffa, probabilmente, e ruote, sportelli di metallo.
«È vivo» balbettò. Il battito segnato dal cardiofrequenzimetro glielo dimostrò subito, facendolo crollare in terra, in bilico sui calcagni.
Note:
Ciao a tutti!
Questo capitolo mi ha fatto tribolare. E, mentre lo scrivevo, l'ho reso ancora più difficile, perché sono una cretina. Perché, mi chiedo, ho dovuto causare questo incidente? Viva me, insomma!
Beh, che dire, il mio cruccio più grande era cosa potessi fare per Simon, perché volevo proprio tornare a prenderlo, perché non volevo abbandonarlo, ma ero davvero dispiaciuta di dover mollare Randy in quello stato pietoso. Per fortuna con lui c'era Darrell.
Ecco, sì, mi sono persa parecchio del suo stato, lo so, ma la trama mi ha portato da tutt'altra parte, e ormai sapete che in questa storia non spezzo nemmeno se. Mi costringete a farlo. Dei flashback non ne parliamo, perciò, al massimo, posso scrivere qualche speciale, prima o poi.
A qualcuno interessano degli speciali? Tipo Gabriel e Simon da giovani? O Randy ai tempi d'oro? (lol, d'oro - chiamiamoli così) O ancora quando Lucia era viva! Seh, l'ho detto davvero. Gli altarini, ragazzi, gli altarini. V'interessano gli altarini?
Cosa ne pensate del capitolo? Se vi è piaciuto, non dimenticate di lasciare un commento e una stellina, che a me fa tanto piacere!
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