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Capitolo 89

Orville Patel venne accusato di omicidio e di esser stato uno dei principali finanziatori della spedizione inglese. Sin dal principio non aveva nascosto le sue simpatie per la principessa Jocelyn e per quello che una volta era un duca e aveva contribuito con il suo denaro a portare a termine i progetti dei traditori. Orville udì le parole che avrebbero sentenziato la sua condanna a vita in un martedì di quiete e fu quella la prima volta in cui lo vidi vacillare. Tentò dapprima di negare, di asserire che si trattasse ovviamente di un'accusa infondata, ma quando gli vennero esposte tutte le ragioni, le prove e le indagini che lo riconducevano all'assassinio di Thomas Forks, si ammutolì.
Quel verdetto mi fece sussultare di gioia.
Finalmente giustizia era stata fatta, finalmente il povero Forks avrebbe riposato in pace e allo stesso modo anche mia sorella avrebbe ottenuto ciò che meritava.
Udire la sentenza lo fece esplodere nella collera più nera.
Maledì Godwin e Jocelyn e per l'essersi fatto convincere da loro, poi passò a prendersela con altri nomi sconosciuti e infine maledì me, il giorno in cui mi conobbe e ogni altro istante in cui avevo incrociato il suo cammino, come se poi di fatto fossi stata io la causa dei suoi mali. Con estrema vigliaccheria non si risparmiò dal lanciare innumerevoli cattivi presagi sulla mia famiglia e sulla mia discendenza.
Quel giorno segnò la fine della famiglia Patel perché il suo ultimo discendente avrebbe passato il resto dei suoi giorni nell'umidità di una cella.
Venne fatto entrare anche suo padre in quella stanza del giudizio e quell'uomo così vecchio e disorientato non comprese subito se l'invito fosse dovuto a qualcosa di buono oppure di negativo. Era la prima volta che lo vedevo così da vicino e l'impressione che ebbi fu che la vecchiaia l'avesse reso di fatto innocuo, molto diverso da quando spavaldo andava a riscuotere di casa in casa i debiti che la povera gente si trovava costretta a contrarre con loro.
Eppure la famiglia Patel era finita e questo fu chiaro anche per quell'uomo, quando scoprì il destino che era stato scritto per suo figlio.
Orville non mi incuteva più paura.
Venne portato via come il più losco dei malviventi, rincorso dal padre che cercava di trovare risposte di fronte a un futuro incerto.
Quella fu l'ultima volta che lo vidi in vita mia.
Il silenzio assordante che ne seguì fu probabilmente l'unica conquista che il principe desiderava da quando tutto era cominciato. Lo vidi distendere le labbra e piegare gli occhi in un'onda sinuosa di calma.
«È finita.»
«È finita. E non attendevo altro.» sospirò nella pace ritrovata.

Stavo allattando Elhia da un tempo inquantificabile. Quel bambino si era abituato a prendere sonno solo in quel modo. Dovevo allattarlo allo sfinimento, fino a quando non mi fossi trovata costretta a scegliere tra il sopportare il dolore ai seni oppure sentirlo piangere perché lo avevo staccato dal mio petto. Erano trascorsi mesi da quando avevo visto per l'ultima volta la principessa e il duca e quasi stentavo a credere che di loro non avevo avuto più notizie. Ogni tanto però il pensiero andava verso i ricordi, verso la paura che avrebbero potuto minacciarci con un'altra armata, ma poi mi consolavo con la probabilità che forse non ne avremmo avute per un po'.
«Vostra Maestà, ne è arrivata una da Lord Boulanville.»
«Poggiatela sul tavolo insieme alle altre, più tardi la esaminerò.»
«Credo... Vostra Maestà... che lord Boulanville non sia dello stesso parere. Mi è parso di capire che abbia fretta... intendo dire che temo voglia avere una risposta quanto prima.»
«Lord Boulanville attenderà il tempo che c'è da attendere a meno che non voglia ricevere la risposta più scontata di fronte alla fretta di averne una.»
Sir Jacques fece l'inchino e si dileguò «Riferirò, Vostra Maestà.»
All'udire quella conversazione percepii l'ennesima spada infilarsi nel fianco, scalare il torace, insinuarsi nel mio cuore e tagliarlo a metà. Una lacrima precipitò dall'occhio destro proprio sulla fronte di Elhia che nel frattempo si era abbandonato a un sonno profondo. La montagna di lettere che aveva ricevuto Carlyle in quel periodo era stata veramente esorbitante. Erano tutte accatastate su quel tavolo, alcune in bilico per non aver trovato posto tra le altre, altre cadute in terra e nessuno da quel momento le aveva più raccolte. Il principe aveva cominciato ad ispezionarle da quel giorno, quando gli affari di stato gli avevano concesso la tregua che meritava.
La notizia che il principe era scapolo si era diffusa nel continente a macchia d'olio e gli effetti della scoperta non si fecero attendere.
Accorsero pretendenti da ogni dove, figlie di marchesi, cugine di duchi, sorelle di conti. Alcune sconosciute, con cognomi improbabili che mai avevano toccato suolo familiare, altre talmente surreali che dovevano essere frutto della mente di qualcuno che desiderava solo fare un qualche scherzo. Rimasi sbalordita quando ne arrivò una in cui la pretendente si rivelò essere una bambina di tredici anni, che suo padre offriva come la più devota delle mogli e la più fruttuosa delle madri. Erano tante e alcune addirittura folli, eppure erano da ispezionare tutte, da valutare come possibili candidate, e non appena il principe si accingeva ad aprirne una nella calma ritrovata ecco che ne arrivavano altre dieci o venti a complicare le cose.
Il principe aveva bisogno di una consorte, così mi aveva detto Sir Jacques in uno di quei momenti bui. Del resto per più di dieci anni aveva avuto Jocelyn al suo fianco e nonostante il suo carattere spigoloso e criptico era sempre stata sua buona consigliera.
Nei mesi a seguire giunsero diverse visite a palazzo. Vennero padri di famiglia di un certo rango a offrire doti inquantificabili alla Corona e solo pochi di loro li rividi per un secondo incontro, quasi nessuno per un terzo. Talvolta, quando il matrimonio avrebbe giovato più allo stato che al benessere della Corona, era il principe stesso a recarsi presso la famiglia della futura pretendente. Si trattava puntualmente di nomi importanti, da far sgranare le orbite, ma quando poi il principe era di ritorno dopo qualche settimana si intuiva che quella trattativa non fosse andata a buon fine.

Quando Elhia aveva quasi raggiunto il primo anno di età si sparse la voce che il principe avesse finalmente trovato la pretendente da sposare. Era diventato oramai un affare di stato da ingenerare scompiglio a tal punto che quando si diffuse la notizia l'intero popolo tirò un sospiro di sollievo.
Alcuni la descrivevano come la donna dal tipico fascino europeo, altri dalla carnagione bruna delle indie, altri ancora come una donna ultraterrena, discesa appositamente per prendere in marito uno degli uomini più desiderati del continente.
Da quanto ebbi modo di intuire quella donna era attesa a corte nell'immediato futuro, lei o qualcuno del suo stuolo. Ogni volta il solo pensiero mi dava la nausea.

«Vieni! Vieni! No, non avere paura! Sì! Sì! Proprio così!»
Alla fine Elhia, dopo qualche passetto privo di convinzione, perse l'equilibrio e cadde a terra con il sederino. Indignato, storse la bocca in una smorfia di sconfitta e batté i pugnetti sulle ginocchia. Quello scricciolo era piccolo, ma testardo.
«Bravo! Bravo, Elhia! Sei stato bravissimo!» gridò sua sorella mentre era troppo concentrata a sistemare i capelli di una bambola che definiva sua figlia.
Mi alzai da terra e stampai un bacio sulla guanciotta carnosa di mio figlio, allora lo sistemai di nuovo a un metro da me e facemmo un altro tentativo. Il bambino si fece forza con le manine sul pavimento per trovare l'equilibrio sulla gambe e quando aveva spinto la testa in basso e il sedere all'insù, cadde a terra dallo spavento all'udire qualcuno bussare alla porta.
Entrò Sir Jacques «Anthea, Sua Maestà il principe vi richiede nella sala del trono. Chiede di portare con voi anche i bambini.»
Quella richiesta mi gettò nella confusione, tuttavia non feci domande. Presi mio figlio in braccio e Amaranta nella mano.
Camminai lungo il corridoio e notai tanti occhi fissarmi. Sembravano animali notturni. Tutta la servitù era addossata alle pareti su entrambe i lati e mi faceva spazio verso la sala come nella navata di una chiesa. Mi guardavo attorno confusa. Non sapevo cosa aspettarmi. Cosa stava facendo tutta quella gente? 
Amaranta si accostò a me intimorita e anche Elhia cercò rifugio tra le pieghe del mio collo. Sir Jacques procedeva di fronte a me ma non si girò neanche una volta per spiegarmi che cosa stesse succedendo. Sembrava una cosa tra il solenne e il surreale. In prossimità della sala del trono venni distratta dal suono di un pianoforte. Era una melodia malinconica ma che preannunziava un tono sognante. Il cuore prese a battermi all'impazzata e rallentai il passo. Solo in quel momento Théodore si voltò, quando l'unico rumore che udì furono i suoi passi.
«Perché indugiate?»
La sensazione che provai nell'entrare in quella stanza fu difficile da raccontare. Mi resi conto solo in quel momento di quanta gente lavorasse a palazzo: c'era il personale delle cucine, la cuoca, la servitù che si occupava delle stanze, addirittura il guardiacaccia! Solo le guardie che presidiavano l'ingresso mancavano all'appello. Sembrava che tutti erano lì per attendere il mio arrivo.
Scossi la testa a destra e sinistra per rendermi conto che ero al centro di tutti e che ogni persona lì presente era forse altrettanto confusa quanto me. Lanciai un'occhiata piena di ansia verso Sir Jacques ma questi non ricambiò.
Carlyle non interruppe l'esibizione. Suonò fino a terminare la melodia, fino a quando anche l'ultimo tasto venne premuto. Allora si alzò dallo sgabello e solo in quel momento mi guardò per la prima volta.
Amaranta gli corse incontro tutta di fretta, con l'innocenza che poteva appartenere solo a una bambina così piccola. Suo padre si abbassò e la accolse amorevole tra le sue braccia, poi si diresse verso di me.
«Non capisco...» fu l'unica cosa che riuscii a proferire.
Egli non rispose e l'unica cosa che mostrò fu un sorriso ampio che rivelava una fila di denti dritti e bianchi come perle. Afferrò la mia mano tremante e con l'altra fece scendere Amaranta che rimase attaccata al lembo della sua giacca per tutto il tempo.
Solo in quel momento un barlume di agitazione parve sorpassarlo tra anima e corpo, allora prese un profondo respiro per trovare nuovamente il suo centro e con il cuore aperto esternò una confessione che forse lo aveva mantenuto sveglio le notti precedenti.
«Sei venuta...» sospirò, come se per un instante avesse temuto che ciò non sarebbe successo «non preoccuparti.»
«Carlyle, non capisco, perché tutta questa gente? Cosa sta succedendo?» sussurrai debolmente in modo che nessuno potesse sentirmi.
Si schiarì la voce e fece in modo che chiunque potesse udirlo «Per qualche motivo che ancora mi é sconosciuto ti amo. E non che sia una colpa o qualcosa di cui vergognarsi ma mi ero ripromesso che mai sarei stato così vulnerabile. Ti amo talmente tanto che nel cuore della notte mi sveglio e per averti vicino mi impegno a sognarti. Ti amo da un passato lontano. Dal giorno in cui ti ho vista la prima volta, in quel negozio quando provasti vergogna al solo vedermi o quando ti sentisti quasi in colpa a trovarti nel mio stesso posto. Oppure ti amo dal giorno stesso in cui sono venuto al mondo, come dicevano i filosofi greci, secondo i quali prima di mettere piede in questo angolo terreno siamo un tutt'uno con la nostra persona e una volta nati diventiamo destinati a cercarci per il resto dei nostri giorni. Non ho passato un istante senza pensare a te, anche quando sono stato l'uomo più distante e detestabile che potessi sembrare ai tuoi occhi. Ogni cosa era al suo posto se ti sapevo vicina. E ti ho cercata in ogni dove perché tutto ha il tuo sapore Anthea. Tremenda é l'agonia di non averti vicino, straziante l'impossibilità di urlarti mia al resto del mondo. Non esiste felicità più grande di quella di stare con te, con i miei figli, tutto il tempo. Perché sì, ora posso gridarlo al mondo! Quelli sono i miei figli e tu la donna che voglio celebrare in eterno! Poche sono state le scelte che ho preso senza consultarmi con nessuno, senza chiedere il parere di un altro e nessuna richiedeva alcun tipo di approvazione. Questa è l'unica che sto facendo con la più profonda delle convinzioni. E io so già che potresti dirmi di no, che potresti aver paura, ma di fronte a ogni tuo no io non potrei fare a meno di chiedertelo un'altra volta, con la speranza che quella sia la volta giusta.»
La testa mi girava tutta attorno ma non ebbi il tempo di rendermene conto che fece scivolare le sue mani dietro la schiena e si inginocchiò dinanzi a me. Comparve una scatoletta in velluto verde con una chiusura dorata. Alzò le due parti e rivelò un anello con un brillante incastonato.
«Anthea, vuoi diventare mia moglie?»

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