Capitolo 81
A qualsiasi ora del giorno chiunque avrebbe trovato Claire Cullighan con le mani in pasta. Mischiare farina, acqua, miele e pensieri era diventato il suo passatempo preferito da quando mio padre era venuto a mancare.
Inutile persuaderla, niente l'avrebbe distratta. La scusa della mattina era quella di dover preparare la colazione per Daisy, che per colpa sua non avrebbe più perso il gusto di essere vezzeggiata dal profumo di mele cotte; il pomeriggio arrivava l'ora di cimentarsi in qualche nuova ricetta, magari inventata di sana pianta, per avere sempre pronto qualcosa da presentare a chi poteva venire a farle visita. Ospiti che in realtà raramente bussavano alla sua porta, per suo infinito dispiacere.
La sera, dopo che il girasole aveva chinato il suo capo topazio alla madre terra, una tazza di tè nero amaro e qualche parola trascinata la accompagnavano in un discorso soffuso e lamentoso con mio padre. Era quello il suo modo di non accettare la realtà dei fatti e pretendere che il suo spirito fosse ancora lì a impregnare quelle quattro mura e la sua stessa vita.
Ogni giorno Claire ripercorreva nel silenzio i momenti in cui si conobbero, la loro infanzia, quando erano ancora così piccoli da essere attratti più dai fili d'erba che dalla presenza dell'altro, la loro giovinezza, la loro età adulta. Lo faceva per tornare indietro, per rivivere i bei giorni assaporati e per scongiurare che quelle memorie venissero prima o poi dimenticate.
Daisy sapeva che non avrebbe dovuto disturbarla, che avrebbe fatto meglio a rintanarsi in camera sua piuttosto che svegliarla, talvolta a sferruzzare qualche merletto, altre volte solo ad attendere che quell'incontro terminasse, nella più calma accettazione. Erano quasi due anni che non vedevo mia madre, poco meno mia sorella. Ci eravamo lasciate con la promessa di un segreto, di un patto suggellato che lei ci sarebbe stata laddove non ci fossi stata più io. Rivederle dopo così tanto tempo quasi mi terrorizzava.
Posai piede sull'erba dopo un viaggio durato un secolo. I pensieri erano troppi, da un lato quello di casa, dall'altro quello della casa che stavo lasciando.
Amaranta aveva dormito durante tutto il tragitto e, neanche a farlo a posta, si svegliò quando i cavalli puntarono gli zoccoli a terra, a segno che eravamo giunti a destinazione. Stropicciò gli occhietti e si agitò sgambettando dalla curiosità di fare capolino dalla finestra della carrozza. Il cocchiere mi porse le braccia per prendere la bambina e aiutarmi a scendere. Amaranta strillò indemoniata quando finì tra le mani di uno sconosciuto.
Attimi fuggenti seguirono. In lontananza c'era la casa in legno e pietra che mi aveva accolto alla nascita e dove avevo trascorso le mie prime primavere. Salì un singhiozzo, poi un altro e infine un rantolio. Tirai su con il naso in un modo che induceva il pianto. Mia figlia si preoccupò, mi avrebbe porto un fazzoletto se avesse capito.
Con una mano afferrai la valigia che conteneva per lo più le cose della bambina e mi avvicinai silenziosamente, quasi fossi sospesa da terra. Ancora in lontananza vidi i contorni di una figura alla finestra, intenta a spingere la mano in una ciotola.
Mia madre sembrava allegra, per lo meno concentrata. I due anni che ci separavano non erano passati senza lasciare traccia su di lei. La chioma alternava ciocche brune a cascate di fili argentati e solchi scuri le ramificavano il viso. Il vigore delle braccia era sempre lo stesso però così come la forza d'animo. Il tempo e le peripezie le si erano catapultati addosso, rubandole forse dieci anni, ma non l'avevano piegata.
Con la coda dell'occhio si accorse di me ma il fatto che non mi riconobbe subito fu evidente. Quando mi feci troppo vicina da risultare invadente per una sconosciuta, alzò lo sguardo dal suo tavolo di lavoro.
Portò una mano alla fronte per coprirsi dai raggi del sole.
«Vi siete per caso persa? State cercando il villaggio?» domandò.
Il ritrovarsi con mia madre fu intenso. Mi fermai a un palmo dal suo naso, così vicina da riuscire a sentire lo scalpitare del suo cuore nello sterno. Claire, la donna tutta di un pezzo, sembrava solo che una bambina spaurita. Le ero mancata tanto, era insindacabile, e sembrò quasi darmi la colpa per essermi presentata dopo così tanto tempo senza neanche dare un minimo di preavviso.
In un frastornato silenzio, spostò l'attenzione sulla bambina che era avvinghiata al mio collo e timorosa che la volessi affidare a quella sconosciuta. La ispezionò attentamente, cercando qualcosa di me in lei, ma vi trovò ben poco se non qualche colore. Sussultò all'indietro. La sua meraviglia si mischiò alla delusione di non sapere più chi avesse davanti.
«Vieni» le presi dolcemente la mano «abbiamo molte cose da dirci.»
Il resto della giornata fu occupato dal raccontare a mia madre cosa mi fosse capitato in quel lasso di tempo così infinito. Non scesi troppo nei particolari, c'erano cose come le peripezie che seguirono il mancato matrimonio con Ethelwulf e le angherie di Godwin che avrei tranquillamente potuto risparmiarle, ma fui precisa su tutto il resto.
Rimasi a casa mia fino al sopraggiungere della mite estate. Amaranta, nonostante le prime difficoltà iniziali, si abituò a quel posto e parve aver trovato il suo habitat naturale, fatto di ciottoli, farfalle e giochi di fantasia; mia madre, dall'altro canto, si era calata perfettamente nel ruolo di nonna e aveva dimostrato di possedere un lato di se così morbido e fanciullesco che talvolta era difficile distinguere la bambina dall'adulta.
Mia sorella invece gustò la presenza della nipote come se avesse trovato un'amica o la più grande e deliziosa distrazione. Erano arrivate al punto che Amaranta preferisse stare più tra le mani della zia che di sua madre e se capitava che trascorresse l'intera giornata senza di me, beh, ero l'unica a rendersene conto. C'erano stati momenti in cui avevo colto Daisy affaticata dai mille pensieri che le facevano visita con più insistenza quando si trovava da sola con sua nipote.
Si accovacciava sulle ginocchia per farsi grande quanto lei, appoggiava il capo su un lato e si abbandonava tra le sue braccia e a un sorriso malinconico. In quei momenti era il pensiero di Thomas a tormentarla. Amaranta era forse per lei un sogno che avrebbe voluto far suo da tanto tempo, una realtà fittizia che lei non aveva.
In una di quelle giornate in cui l'imbrunire scansava di prepotenza le ultime luci, mi rannicchiai su una vecchia poltrona a dondolare Amaranta affinché dormisse. Quella realtà estranea allo sfarzo e al caos di corte le aveva giovato così tanto non solo perché la vedevo perennemente serena ma anche perché il troppo giocare e il ruzzolare nell'erba la stremavano puntualmente prima del calar del sole.
Mi balenò in testa l'immagine di mia figlia tra le grinfie di un matrimonio combinato. Scansai quell'incubo come un cane rognoso e dovetti farmi forza per non ricadere preda della rabbia e dello sgomento.
Daisy rientrò che Amaranta dormiva già da un pezzo. Era uscita nel primo pomeriggio per fare delle commissioni su cui non aveva dato neanche troppi dettagli e quando rincasò portava con sé un grosso cesto di carne essiccata che il solo profumo mi fece venire l'acquolina in bocca.
Prese una pentola ricolma e la posizionò sopra il fuoco, sbucciò patate, carote e qualche cipolla e quando l'acqua divenne sufficientemente calda ce le gettò dentro con cura. Si schiaffeggiò la fronte per essersi dimenticata il sale e quindi vi pose subito rimedio.
Tagliava la carne strisciolina dopo strisciolina e adagiava ciascuna di esse su un vecchio tagliere in legno, facendo attenzione a che ognuna fosse equidistante dall'altra.
Dava l'impressione volesse ingegnarsi in qualche piatto semplice ma di bell'aspetto.
«Sai» mormorò con lo sguardo ancora fisso sul coltello «Orville ha acquistato l'acciaieria di Thomas. Dicono che l'abbiano valutata poco e che fosse caduta in malora.» Daisy soffocò un sussulto in gola.
«Lo sapevo! Lo sapevo! Mi era arrivata questa voce. Vigliacco! Ingordo!» stritolai tra i denti «È sempre e solo stato interessato al denaro! Da quando è vicino alle simpatie della principessa ne ha anche ancor più motivo! Te l'ho detto? Orville finanzia le pretese assurde di onnipotenza della principessa e data la sua influenza ha stretto attorno a Jocelyn altri usurai come lui. Sono convinti che Carlyle capitolerà e così anche il principato.»
«Sì, me l'hai detto e con questo anche che siamo sull'orlo della guerra civile.» nel dire ciò tremo di paura. L'acqua bolliva prepotentemente e alcuni schizzi finirono a terra «hai idea di quando tornerai a palazzo?»
Ne avevo idea? No, affatto. Sfiorai il grembo e il bambino che lo abitava lanciò un buffetto.
«L'acciaieria è solo un pretesto, Anthea, per fare uno sfregio alla nostra famiglia» proseguì con il capo chino «aggiungiamoci anche che nessuno si è reso disponibile ad acquistarla e il gioco è fatto. I fratelli di Thomas l'hanno ceduta a cuor leggero: sono tutti impegnati in altro e un'occupazione del genere sarebbe stata solo una spesa.»
Daisy soffriva ancora molto per la morte di Thomas, per il suo matrimonio di sangue. Avevo davanti davvero la bambina che non si sarebbe sposata se non per amore?
«Immagini? Quell'acciaieria sarebbe potuta essere anche mia, vi avrei messo piede come padrona e un giorno sarebbero stati i miei figli a portarne il nome!» si batteva le mani al petto con le lacrime pronte a bagnarle le guance «invece tra non molto ci sarà il nome Patel sopra!»
La grossa stretta al petto fu in un lampo scaraventata via da un dubbio enorme, quasi una verità spaventosa che per un attimo sperai non si fosse mai catapultata nella mia mente.
«Che intendi con tra non molto?»
«Quello che hai sentito, Anthea. No so di preciso quando sarà definitivamente sua, so che ci sono le solite scartoffie da sbrigare, ma di questo non mi interessa. È questione di tempo e quello che un tempo era Forks, sarà Patel!»
Daisy scoppiò a piangere a dirotto ma il suo sconforto quasi non mi tangette, era come se fossi rinchiusa in una campana di vetro, i contorni di mia sorella erano sfumati, il suo dispiacere quasi impercettibile. Non poteva essere! No, mi stavo per forza sbagliando!
«Daisy, per favore!» che affanno che avevo! «Orville... quando ha acquistato l'acciaieria?» tremavo dalla paura della sua risposta eppure in cuor mio speravo che mi dicesse quello che le mie orecchie desideravano udire.
Daisy si asciugò le lacrime con il grembiule, un po' dispiaciuta per la mia indifferenza ma abbastanza preoccupata al tempo stesso «Da circa un mese, qualche giorno in più, qualche giorno in meno, adesso non so dirti con precisione.»
Lanciai un urlo per l'aria e mi coprii la bocca dallo spavento. Amaranta si svegliò di soprassalto e scoppiò in un pianto a dirotto.
«Non capisco, cosa ti succede?»
«Daisy! È stato Orville a uccidere Thomas! Orville è l'assassino!»
Mia sorella pensò per un attimo che stessi vaneggiando. Orville era un folle, sì, e anche la persona meno raccomandabile e affidabile della Terra se volevamo dirla tutta (senza dimenticarci di Jocelyn e Godwin) ma non avrebbe potuto mai macchiarsi di sangue innocente, non senza intaccare il suo giro di affari. Eppure, dopo averle spiegato, convenne con me che non poteva essere diversamente.
Le indagini erano andate avanti dopo quel fatidico giorno, mancavano da essere interrogati solo i bambini e forse gli animali se potevano rientrare nei sospettati, ma lo sceriffo e i suoi non avevano trovato nessuno che potesse essere accusato di un gesto così efferato.
Perché i sospetti non erano caduti su Orville? Semplice. Nessuno avrebbe mai dubitato di lui, un po' per paura un po' per insindacabilità.
Il mio cuore era più pesante delle valigie che il cocchiere accatastava sulla carrozza.
Carrozza era la parola che avevo tracciato su un biglietto destinato a Livingstone per annunciare il mio ritorno.
Con un gesto di commiato, non dissimile a un addio, salutai mia madre e mia sorella con la speranza di rivederle presto.
Chiusi la portiera e partii alla volta del palazzo, lasciando alle mie spalle le briciole di quella famiglia.
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