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Capitolo 80

Da quando ero nata, l'ira vera era sempre stata un sentimento sconosciuto - ovvero - non mi aveva mai colta quella rabbia mista a delusione e impreparatezza che esaspera la mente e indebolisce il temperamento. Ne riconobbi tutti i meriti a mio padre; costui infatti, tra i primi insegnamenti che aveva impartito a me e mia sorella, aveva annoverato quello di far sì che mantenessimo sempre un certo autocontrollo, in qualsiasi situazione. Era fermamente convinto infatti che la felicità, come la rabbia più atroce, sebbene emozioni transitorie, rammollissero lo spirito e spegnessero il raziocinio e che, per tale ragione, impedissero all'occhio umano di vedere le cose per ciò che erano veramente.
Il suo insegnamento tuttavia, per quanto ne riconoscessi la fondatezza e la priorità di fronte a qualsiasi evento che avrebbe potuto scalfirlo, non resse quando mi sincerai di ciò che avevo udito.
Non avevo provato tale rabbia davanti alle provocazioni di Jocelyn, neanche di fronte la prepotenza di Godwin. Avevo toccato la follia, quello sì, quando la principessa aveva strappato via mia figlia, decimando la mia voglia di vivere: per quello mio padre non mi aveva preparata, aveva ritenuto che non fosse necessario istruirmi per tutte le circostanze della vita, magari perché aveva nutrito troppa fiducia nell'essere umano.
A posteriori, mi ero persuasa anche del fatto che un'azione del genere fosse stata dettata dall'ignoranza, dalla gelosia e da una sorta di malvagità pura e solo questo mi fece trovare il coraggio - non di dimenticare, sia ben chiaro, un dolore tale sarebbe stato difficile cancellarlo - ma di metterlo in secondo piano, una volta riavuto il calore di mia figlia.
Ciò che mi aveva conquistato di Carlyle fu proprio che egli non era ignorante, geloso o malvagio come sua moglie, tutt'altro, era dotato di un'intelligenza e di una sensibilità che avrebbero fatto invidia a chiunque.
Non è da negare che a volte fosse duro, irremovibile e addirittura spietato, ma ogni sua azione aveva una ragione e questa non era giustificata se non da un bene superiore.
Quello che udii dunque fece vacillare le mie convinzioni e mi portò a domandare se non fossi invero ancora nel mio letto a dormire.
Il silenzio picchiettante che seguì mi convinse della serietà di tali parole e che una smentita, di fatti, non sarebbe mai arrivata.
Ogni parola che si catapultava precipitosa nella mia mente venne strozzata in gola «Dimmi che non è davvero ciò che ho udito, non puoi dire sul serio!» esclamai, quando anche l'ennesima speranza spirò nel vuoto.
Dapprima c'era stata uno sghignazzo, seguito da un tossire e poi da un altro sghignazzo che era finito per morire su se stesso quando mi resi conto che tale atmosfera giocosa era solo frutto della mia mente.
La sua vista si incupì e la linea delle sue labbra si piegò aspramente. Si alzò dal letto privo di sonno. Il contrasto che sarebbe avvenuto di lì a poco gli aveva infatti fatto perdere tutta la voglia di riposare. Cercò sulla poltrona la veste per coprire le sue nudità e, quando la trovò, se la gettò addosso.
In quel momento mi scoprii nuda anche io, come Eva nel giardino dell'Eden. Ebbi l'istinto di coprire i miei seni, il mio inguine e di accovacciarmi su me stessa.
Non mi ero mai sentita così nuda in vita mia, neanche appena nata.
«Così è deciso, Anthea.»
Si sistemò i capelli con pacatezza, pareva volesse avere un bell'aspetto anche durante l'imperversare della tempesta, prese posto allo scrittoio e cominciò a scrivere fiumi e fiumi di parole sopra una pergamena che sembrava essersi materializzata all'improvviso.
Una foschia nera intorpidì le mie ossa per poi incendiare i muscoli «Sono sua madre! Quella bambina viene da me e tu non hai il diritto di non interpellarmi in qualsiasi cosa la riguardi! Tu non hai il diritto» ruggii «di negarle una delle decisioni più importanti della sua vita e pretendere che il tuo giudizio sia più saggio del suo!» sbattei così violentemente le mani sullo scrittoio che bruciarono. Carlyle sembrò dapprima irremovibile, ma sapevo che era solo una facciata e che dentro stava ardendo.
«Oh, cos'è quella faccia, cos'è quello sguardo? Mi fissi come se avessi davanti tua moglie!» il volto era ormai tumefatto dalle lacrime.
«In tutta questa aggressività le rassomigli!» controbatté ribollente di rabbia.
Vacillai.
«Amaranta è figlia di reali e, per sua sfortuna o virtù, c'è qualcuno chiamato a decidere per lei» si alzò di scatto e mi puntò le pupille contro. Sibilò «prima ancora che si regga sulle sue stesse gambe, prima ancora che riesca a distinguere la notte dal giorno, così come mio padre ha fatto con me e il padre di mio padre a sua volta. Amaranta non avrà la libertà di una persona qualsiasi, ma questo non sarà per lei una sciagura, anzi, sarà la sua più grande ancora di salvezza!»
«Immagino che tu possa dire la stessa cosa del tuo matrimonio!»
Desiderai il frangente immediatamente successivo di aver taciuto. Rincorsi quelle parole nell'aria, le cercai, ma si erano già dissolte.
Quella freccia lo trapassò e lo fece sanguinare «Se il mio matrimonio fosse stato benedetto da un minimo di felicità, tanto da farlo fiorire, voi non sareste qui e non ci troveremmo a discutere sul futuro di una bambina che ora non esisterebbe. Considerati fortunata dunque, che il mio matrimonio sia nato per essere infelice.»
Gridai dal dolore.
«Il patto è siglato, tutto ora è deciso. Amaranta, raggiunti i suoi sedici anni di età, sposerà l'uomo di corte che il re di Danimarca riterrà più opportuno. In cambio di ciò potrà continuare a vivere in quella che ancora chiama casa.»
«Vengo a conoscenza solo ora della tua spietatezza!» digrignai i denti da farli sanguinare. La mia voce era un lamento di rimpianto. Carlyle sbottò per l'aria esausto «Spietatezza? Osi davvero attribuirmi questa etichetta?»
«Questa e altre se ne avessi!»
«Sei crudele e giudicante!» ruggì.
Strabuzzai gli occhi.
Scoppiai in un pianto a dirotto. Mi sentii impotente e responsabile del destino di mia figlia. Un matrimonio combinato era tutto ciò per il quale fermamente mi battevo sin da quando avevo memoria: lo avevo fatto con mia sorella, per poi cedere quando mi ero resa conto che c'era davvero dell'amore innocente nei suoi occhi; lo avevano ripudiato i miei genitori, che si erano sposati per essersi scelti; lo avrei ripudiato io, a costo di morire zitella. Mia figlia non avrebbe avuto lo stesso destino.
Carlyle non ammise repliche. Quello era il prezzo da pagare per difendere il suo Regno, per avere la Danimarca dalla sua parte. La nostra casa, la casa dei miei figli e del mio popolo, avrebbe detto lui. In fin dei conti non aveva tutti i torti: un sovrano avrebbe dovuto perseguire il bene comune, quello che avrebbe accontentato la maggioranza anche a costo di far soffrire altri. Ma io non ero una sovrana, non conoscevo le regole dell'etichetta e tantomeno le usanze della Corona: ero solo una madre in pena per una figlia che si trovava vedersi addossate responsabilità prima ancora di saper articolare una frase di senso compiuto.
Lanciai il mio ultimo avvertimento «Sei al corrente che un giorno questa scelta ti si potrebbe ritorcere contro?»
Carlyle, che era astuto e arguto, colse subito «È un rischio che ho già preso in considerazione, è per lo stesso motivo che il Parlamento inglese si oppose al matrimonio tra Maria la sanguinaria e Filippo di Spagna. La Danimarca potrebbe rivendicare influenze sul mio regno un giorno, o per lo meno pretenderle. Uno scenario plausibile ma non certo. È un rischio che molti prima di me hanno corso, talvolta anche con buon esito.»
Avevo giocato l'ultima carta, comunque quella che non gli avrebbe fatto cambiare idea.
Gli rinfacciai per l'ennesima volta che non mi aveva consultata, che avevo scoperto tutto solo a cose fatte ma Carlyle non batté ciglio. Tutto ormai era fatto.
Quello era il lato oscuro di appartenere alla Corona.

L'indomani presi la decisione che avrei abbandonato Livingstone per un tempo indefinito per raggiungere mia madre e mia sorella in campagna. Fu una decisione presa di pancia, poi razionalizzata. Avevo bisogno di staccare, troppe cose erano successe insieme sin dal mio trasferimento a villa Afrodite e ancora non avevo avuto il tempo di metabolizzarle. La discussione con Carlyle fu solo la goccia che materializzò quel bisogno che non avevo ancora avvertito.
Racimolai le mie quattro cose in un baule insieme a tutti i vestitini di Amaranta, le cuffiette, le lenzuola e ogni oggetto che le appartenesse. Concepii quel viaggio anche come l'occasione per presentare per la prima volta mia figlia a sua nonna e, di conseguenza, a sua zia. Una cosa che avrei dovuto fare da molto tempo.
Quando Carlyle scoprì le mie intenzioni si oppose fermamente.

Io e la bambina eravamo pronte, mancava solo la carrozza che ci avrebbe dovuto portare a destinazione. Questione di secondi e avrebbe varcato l'angolo, pensai.
Eravamo nei giardini, coccolate dal fresco vento mattutino. Amaranta immergeva il suo ditino nell'acqua e poi, nel tentativo di nascondersi da me, provava a metterlo in bocca.
Per lei era diventato quasi un gioco «Signorina, non si fa!» la ammonivo io, ma di tutta risposta strizzava gli occhietti e rideva.
A un tratto, un nitrito a me molto familiare fendette l'aria, accompagnato da un galoppo via via più vicino.
«Anthea!» le grida rimbombarono. Sembravano saette lanciate da Zeus.
«Lydia!» grugnii con la mente. Avevo confidato della mia partenza solo a lei e a qualche altro collega che non avrebbe riferito nulla, per puro disinteresse a farlo. Come avrei potuto immaginare, si era opposta. Aveva provato a persuadermi e anche con insistenza, ma non avevo ceduto. Anche io avevo preso la mia decisione.
Il cuore si fece tamburo sotto le costole. Mi girai ancora una volta. La carrozza era in ritardo.
Baston schizzava alla velocità della luce e nel giro di poco avevo il suo muso a una spanna da me. Amaranta gridò dallo spavento.
«Te ne stavi andando! Di nascosto!» la voce era tremolante, esterrefatta ma carica di rabbia.
Presi mia figlia in braccio. Per quanto non fosse la prima volta che vedeva Baston, le sembrava ancora troppo grande.
Non replicai. Incalzò «Dove siete dirette? Tornate subito a palazzo! Te lo ordino!» scosse le briglie. Baston sbatté gli zoccoli a terra e soffiò dalle grandi narici.
Feci cenno di no «Torno a casa mia. Starò lì per un po'.»
«Come osi andartene via, con mia figlia per giunta, e senza mettermi al corrente!»
Storsi il sopracciglio con aria di sfida. Ero agitata, ma non lo diedi a vedere.
«Torna immediatamente indietro! Non accaparrarti la libertà di disobbedire al tuo sovrano! Potresti pentirtene amaramente!» urlò in preda alla follia.
Il cavallo si erse sulle zampe posteriori nitrendo. Amaranta scoppiò a piangere per la paura. Carlyle si rinsavì. Si era dimenticato che sua figlia fosse lì.
Presi la testa della bambina e la nascosi nell'incavo del collo. La coccolai e le sussurrai parole dolci per calmarla.
Non risposi subito, ma quando lo feci scandii bene le parole e le caricai di sicurezza «Vostra Maestà, non tornerò a palazzo.»
Il suo sguardo perse il tono di sfida, la sua voce, il tono tagliente. Ciò che lo catturò fu una profonda tristezza unita a un'intensa nostalgia di quella bambina. Si era arreso.
Scese da cavallo, mi fissò a lungo sperando per un'ultima volta che tornassi sui miei passi ma quando capì che non sarebbe accaduto gli porsi Amaranta e questa lo ricevette a braccia aperte. Voleva salutarla.
Suo padre la vezzeggiò, la coccolò e accolse le carezze che gli vennero offerte.
«Manca poco alla nascita e stai andando via proprio adesso. Mi priverai della gioia di veder venire al mondo mio figlio? Perché mi stai facendo questo?» Carlyle non piangeva, non avrebbe più pianto, ma quella possibilità lo scosse a tal punto da fargli tremare le pupille.
Mi si strinse lo stomaco. Era una cosa che non avrei voluto.
«Quando vi rivedrò?» mi chiese.
La carrozza da ultimo comparve all'orizzonte.

L'ultima immagine che scorsi dal cocchio in movimento fu la debole figura di Carlyle in controluce, nascosto dalle ombre del vetro della finestra. Poco dopo un'altra ombra si materializzò a fianco a lui. Sembrava vestire una giacca elegante, sui toni del blu. Aveva capelli lisci e scuri, raccolti in un codino, e un sorriso stampato sul volto.
Sembrava gli stesse sussurrando «Sei rimasto solo, fratello!»

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