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Capitolo 8 - seconda parte

«Non so quanto ancora ti manca ma, io sono pronta!» scherzai, come se qualcuno fosse lì ad aspettarmi.
«Tu inizia ad andare, io ti raggiungo appena posso.» Marfa era stata fino a quel momento immobile, con gli occhi che ogni tanto erano fissi su di me e che successivamente si perdevano nel vuoto. La guardai un po' sospettosa e al contempo preoccupata. Non era la stessa Marfa che mi aveva accolta con umorismo e che mi aveva accompagnato con premura per le vie di Livingstone la mattina stessa.
«Marfa, stai bene?»
Girò lentamente la testa verso di me e con un cenno di sorriso rispose «Certo non ti preoccupare! E ora vai buon Dio, non vedi che io sembro ancora una sguattera delle peggiori bettole di Sommerseth?»
La sua risposta mi tranquillizzò un minimo, era tornata la Marfa spiritosa. Almeno quello era ciò che pensavo sebbene non ne ero del tutto sicura.
Uscita dalla stanza mi precipitai per l'ennesima volta in lavanderia.
Jocelyn, come potete pensare che possa lavare, asciugare e stirare un indumento nel giro di neanche due ore?
Fortunatamente la camicia era quasi asciutta così mi adoperai a stirarla come potevo. Presi il ferro e lo riempii con i carboni ardenti del camino, prestando attenzione a non bruciarmi. Il lavoro non fu dei migliori ma era il massimo che potessi fare.
Terminata l'operazione mi diressi verso la porta come una furia per andare a cercare Sir Jacques. Neanche a pensarlo era già sull'uscio.
«Voi, ancora qui a gironzolare?» sicuramente il suo intento era quello di rimproverarmi, ma la sua espressione era quella di chi invece cercava di fare il serio, ma invano.
«Ecco a voi la refurtiva.» gli consegnai la camicia e lo deliziai con un sorriso, abbassando gli occhi al pavimento per evitare di distruggere delle distanze che magari, per questioni di lavoro o di rispetto, dovevano essere mantenute.
E invece fu Théodore a spezzarle. Mi sorrise e mi fece addirittura l'occhiolino. Théodore come direbbe mia madre era il can che abbaia ma non morde. Il tempo avrebbe rivelato la sua natura e i primi segnali assicuravano che non doveva essere così male. Anzi, magari un giorno saremmo diventati anche amici.
E come avrei fatto io a tradire un amico?
«Venite, vi faccio vedere dove si trova la Sala del Consiglio. Immagino che neanche questo sapete.»
«Ebbene sì, Sir Jacques, neanche questo so.» scoppiammo in una timida risata, che ci ravvedemmo a smorzare subito.
In poco meno di qualche minuto mi ritrovai di fronte a una grande porta alta forse tre metri e più e larga altrettanto. Come poteva essere evidente non ero l'unica. Riconobbi la signorina Grenn e la signorina Jones. Oltre a loro c'era circa una decina di altri domestici le cui facce mi erano ancora sconosciute.
Che giornata che si stava rivelando.
«Prestatemi un attimo di attenzione.» Sir Jacques iniziò a schioccare le mani in aria con il fine di attirare il nostro interesse.
«Questa è una riunione estremamente importante, mi aspetto da voi la massima professionalità come spesso avete dimostrato di avere. Questa riunione potrebbe decretare la sorte di Sommerseth e fare la storia, ragazze mie.» Sir Jacques non si tratteneva per l'emozione, sembrava un bambino al quale avevano regalato un giocattolo nuovo. Doveva avere davvero a cuore il Principato per essere così eccitato per una riunione in cui lui non sarebbe stato neanche una figura di contorno. «E adesso su, mie care, entrate!»
Il maggiordomo aprì la porta come se stesse aprendo le tende di un palcoscenico. E se quella sala non era stata costruita ispirandosi a un teatro, non sapevo a cosa potesse esser stata ispirata.
Ricordo che mia nonna Beth, quando era ancora viva, si lamentava spesso di soffrire nel trovarsi rinchiusa in piccoli spazi, ad esempio aveva molto difficoltà a viaggiare in carrozza. In quel momento mi chiesi se invece potesse provarsi malessere nello stare in spazi troppo grandi.
La Sala del Consiglio era una delle costruzioni più grandi che avessi mai visto, sia in altezza che in profondità. La mia casa sarebbe entrata forse due volte in larghezza e almeno una volta e mezza in altezza. Dopo essere entrate ci accalcammo tutte su di un pianerottolo, dal quale partivano due rampe di scale, una a destra e una a sinistra. Ogni gradino era coperto da un tappeto rosso, fissato con degli ancoraggi dorati a ogni estremità. La Sala aveva forma rettangolare, su entrambi i lati corti erano state poste due finestre che occupavano un terzo della parete. Sul lato lungo opposto al mio invece c'era una fila orizzontale di finestrelle in prossimità del soffitto, sovrastante una serie di quadri raffiguranti quelli che dovevano essere gli antenati del principe. Sul soffitto in particolare, era stato dipinto un quadretto centrale che custodiva al suo interno lo stemma della casata Kynaston, circondato da una cornice di foglie d'alloro dorate. Intorno a questo erano stati dipinte quattro figure umane, una addobbata con fiori primaverili, un'altra con la pelle bluastra e vestita di bianco, la successiva con un cesto di frutta in mano e infine l'ultima con una corona di foglie gialle e arancioni. Tutte erano in procinto di soffiare all'interno di un lungo corno.
«Sono le quattro stagioni.» disse una vocina di fianco a me, che evidentemente mi aveva scorta a osservare in su.
Mi girai e vedendo che era Marfa le feci l'occhiolino.
Al centro della stanza vi erano quattro file di cadreghe in legno, divise a gruppi di due da un corridoio centrale. Le file si piegavano come ali attorno a un tavolo, antistante il quale c'era una sedia più ricca e decorata delle altre, che sarebbe dovuta essere quella in cui si sarebbe seduto il principe. Dinanzi al tavolo c'era un banchetto più piccolo e di fianco a questo un leggio in legno con fusto tornito. Sir Jaques diede precise indicazioni su come posizionarci all'interno della sala.
Io mi ritrovai esattamente di fronte alla postazione del principe. Il cenno di Théodore ci fece capire che era tutto pronto e che da quel momento saremmo diventati decorativi come delle statue marmoree che avrebbero preso vita solo se interpellate. A partire da quell'istante restava solo che aspettare.
Finalmente la porta si aprì.
Senza fare troppo rumore entrò una vasta schiera di nobili, tutti vestiti perfettamente per l'occasione che presero posto uno a uno sulle file di cadreghe. Un uomo alto e dal volto autorevole si sedette al banchetto vicino al leggio.
«È il Cancelliere!» bisbigliò la signorina Jonas alla sua vicina.
Infine, quasi a volersi far attendere, scese il principe. Non potendo vederlo con i miei occhi -essendo in quel momento alle sue spalle - non potevo essere certa si trattasse veramente di lui, ma a chi si sarebbe alzata in piedi una folta schiera di nobili, se non al Sovrano in persona?
E avevo ragione. Con la sua corporatura prestante e il suo passo lento si avvicinò al tavolo e prese posto. Vestiva un completo bianco con decori dorati che conferiva il giusto prestigio alla sua figura e, senza dubbio, indossava anche la camicia che gli avevo lavato il pomeriggio.
Rivenne alla mia mente la schiena ampia e muscolosa che avevo avuto il privilegio immotivato di osservare quando ero in camera da sola con lui.
A quel pensiero il mio corpo rispose con un liquido caldo tra le gambe.
Dannazione, un'altra volta!

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