Capitolo 79
La rete era più fitta di quanto potesse sembrare. Maglie strette, intorbidite dall'infrangersi di un'acqua impetuosa, livide dall'eccesso di sforzo.
Danimarca. Un'immagine lontana, impensabile.
Quasi meravigliata, e un po' dispiaciuta per non averlo saputo prima, mi accodai alla folla claudicante, febbricitante per un'attesa ignota. Il respiro ancora mozzo, il polso che sopperiva pulsante e una nausea indefinita.
Gli ormoni della gravidanza erano strani. Mi sentivo bestia e umana allo stesso tempo.
Ero colta dagli sbalzi d'umore più improvvisi: ridevo e poi scoppiavo a piangere e infine, quando mi guardavo dentro, piangevo, proprio per non sapere il motivo per cui lo facevo.
Nervosa e determinata, soffrivo per non cedere agli istinti più primitivi: dal non mangiare qualsiasi cosa mi capitasse sotto lo sguardo, al non commuovermi per il solo sopraggiungere del nuovo giorno.
Talvolta annegavo nell'asfissia pur di non assecondare gli impulsi che pretendevano di tiranneggiare il mio corpo.
Una notte fu peggiore delle altre.
Ardente, un tormento lento non mi fece prender sonno. Mi giravo nel letto come un vascello al vento e mai raggiungevo la riva.
«Quietati!» gridavo al formicolio sulle gambe, al fuoco rovente delle viscere «Dammi pace!»
quando anche la pressione sul petto si aggiunse all'orchestra.
Mi sentivo molto stanca. Anche lì lo stadio avanzato della gravidanza cominciava a farsi sentire. Le mie membra chiedevano riposo, erano più pesanti di un macigno. L'insonnia di Amaranta non mi aveva poi aiutato.
Aveva bisogno di ricevere le attenzioni che una bambina rimasta con la balia dalla mattina chiedeva a sua madre. Volle giocare con me, poi essere dondolata e stretta tra le mie braccia. Anche quella volta, queste ultime furono costrette a soccombere alla richiesta di ristoro.
Alla fine c'ero riuscita. L'avevo trasportata in un mondo di gnomi e farfalle e infine l'avevo convinta che abbandonarsi al sonno non l'avrebbe privata della mia mano.
La presenza di quel bambino che aveva fatto di me la sua casa esasperava le sensazioni all'estremo.
Mi sentivo tornata bambina, quando si devasta il seno della madre mentre trasuda latte.
Quella notte avevo bisogno di carnalità. Avevo una fame voraginosa di pelle liscia e di muscoli tesi e avvinghiati.
Al che mi rigirai dall'altra parte del letto, fiduciosa che la vista calma del cielo buio avrebbe calmato me di riflesso. Eppure niente. Tutti i miei sforzi furono vani. Più provavo a spazzare via quei pensieri dalla mente più quelli urlavano con insistenza.
Nell'ora più tarda della notte, quando le stesse civette avrebbero avuto paura a oltrepassare la loro ala, mi sedetti fulminea, terrorizzata dall'annegare. Annaspai per riemergere.
Graffiai il materasso e respirai rumorosamente dalla bocca per contrastare il macigno che avevo sul petto. La testa mi vorticò e per un frangente ebbi paura a stare in piedi.
Amaranta dormiva serena, il suo corpicino si alzava e abbassava come l'acqua di un fiume in una giornata di primavera. Ringraziai per l'ennesima volta la fortuna di averla nella mia vita.
Purtroppo non riuscii a fare mia la sua pacatezza e questo mi fece piombare in una sensazione di pericolo, allora camminai in avanti e indietro in ogni angolo della stanza, ma quando sopraggiunse l'ennesimo tentativo andato a vuoto e con esso lo sfinimento mentale, decisi di cedere e dargliela vinta.
Sapevo di cosa avevo bisogno.
Infilai una mantella di raso scuro. Mi sincerai, per un'ultima volta in quella notte senza fine, che mia figlia stesse dormendo. La bambina era a pancia in giù, una posizione che le conciliava il sonno da quando era ancora in fasce. I pugnetti stretti, i folti capelli neri che le uscivano dalla cuffietta e la pelle porcellana che avrebbe fatto invidia allo splendore della luna.
Le feci arrivare un sorriso silenzioso, nascosi il mio volto nel cappuccio e uscii senza far rumore.
Ero certa che se le fosse successo qualcosa il mio istinto di madre lo avrebbe saputo.
Raramente mi era capitato di immettermi a quell'ora nei corridoi di palazzo. L'ombra proiettata mi avrebbe protetta ma i protagonisti degli affreschi e i giovani in marmo davano l'impressione che non avrebbero fatto altrettanto. Corsi da una parte all'altra appiattendomi al muro al minimo rumore, anche quando a provocarlo era qualche animale dell'oscurità. Divorai le scale a una velocità che non mi era permessa e quasi svenni per l'affanno, mi appoggiai dunque ansimante alla balaustra e terminai la mia fuga solo dopo aver ripreso fiato.
Non sapevo cosa mi mettesse più fretta, se il timore di esser vista o quella brama dolorosa.
Una volta di fronte quella porta mi spaventai come mai prima di allora. La mano si ritrasse al tocco freddo della maniglia e l'equilibrio vacillò quando mi chiesi se stessi facendo la cosa giusta.
Da ultimo, un desiderio indomabile di appartenere eliminò tutti gli indugi. Entrai e un rumore di cardini riecheggiò alle mie spalle.
Carlyle dormiva nel suo letto a baldacchino, coperto da un lenzuolo leggero e accarezzato dalla luce di un'alba ancora spenta. Mi concentrai per guardarlo meglio.
Dentro di lui e attraverso di lui avevo trovato tutta la mia spiritualità e profondità più materiale; andando dunque più a fondo, avevo scovato il tempo trascorso assieme e quello che ci mancava ancora da vivere. Avrei respirato sempre al suo fianco, nascosta dalla sua luce e umiliata dalla sua prontezza. Il desiderio di svegliarlo fu forte, di rivelargli tutta l'adorazione che provavo nei suoi confronti e anche la rabbia per avermi ridotta schiava della sua visione. Lo avrei voluto svegliare per chiedergli di farmi sua per sempre, per rivelargli lo sconforto che vivevo quando non era con me, per me, in me.
L'idea di deturpare un'immagine così perfetta, priva di macchia, tuttavia, mi fece desistere.
Decisi che lo avrei contemplato, ma senza prelevarlo dalla sua dimensione, e mi persuasi che il solo sfiorargli la guancia mi sarebbe bastato.
La mantella scivolò ai miei piedi e, leggera come una piuma, mi avvicinai al letto. Una volta a due passi da lui, mi lasciai pervadere da un fiume di adrenalina elettrica, tanto che non riuscii a muovermi dall'emozione: mi sentivo piacevolmente esterrefatta.
La delicatezza con cui mi sedetti rese trascurabile il mio peso tanto che non si sarebbe accorto di me neanche se fosse stato un neonato. Un raggio diamante gli percorse il viso e gli illuminò la veste da notte trasparente. Mi massaggiai il pancione per assicurarmi che ci fosse ancora, davvero, insieme alla sensazione che abitasse un po' di divino in me.
Mi accucciai sul suo volto e poi sulla spalla percorrendo il fianco e il torace come una barca che risale il fiume alla foce, dunque declinai il volto nell'incavo del collo e indugiai dal ritrarmi, per fare tesoro del suo profumo. A un tratto si mosse e mi tirai indietro furtivamente; turbato forse da un sogno per niente piacevole rispetto a quello che stavo vivendo io.
La situazione si acquietò e mi concessi il lusso proibito di seguire i miei sentimenti.
Sospirai al suo orecchio nostalgiche parole d'amore, lo baciai e scoppiai di calore.
Il sapore misto di lavanda e cognac mi fece tornare indietro con il pensiero a quel pomeriggio piovoso nel bosco quando la sua bocca incontrò per la prima volta la mia e, ancor prima, mi catapultò al giorno in cui lo vidi dentro palazzo accompagnato da sua moglie per la selezione, quando mi guardava di nascosto senza sapere se lo facesse per curiosità o disprezzo.
Fu troppo tutto insieme. Avevo bisogno di riposare. Mi sentivo così esausta e viva allo stesso tempo.
Distesi le mie quattro ossa accanto a lui, al riparo di una sensazione antica, rannicchiata sotto di lui, senza guardarlo o toccarlo, senza pretendere nulla. Il riposo fu travagliato. Carlyle cominciò a parlarmi, mi carezzava, aggiungeva qualche risata e poi sospiri. Capire cosa stesse dicendo risultò impossibile, mi limitai dunque a annuire quando lo vedevo convinto e a corrucciare le palpebre quando si dipingeva il turbamento sul suo volto.
C'era ancora l'oscurità quando i miei occhi si riaprirono. Il principe dormiva ancora beatamente e anche io, per un frangente che non seppi quantificare, mi ero lasciata andare.
Contrariamente a quanto mi sarei mai immaginata, osservai la mia gamba scavalcare il suo bacino e adagiarmi all'altezza della sua vita. Le mani percorsero le dune del costato e raggiunsero le colline del petto, allora anche il capo ebbe voglia di nutrirsi nuovamente di quell'odore e, di conseguenza, fece.
Quando risollevai la chioma vidi la sua dentatura riflettere la luce della luna.
«A cosa debbo questa visita?»
Trasalii per esser stata scoperta «Santo cielo! Perdonami, non era mia intenzione...»
Il suo indice sulla bocca mi impedì di continuare. Le labbra rosso corallo si abbandonarono a un sorriso di calma e gaiezza «Non giustificarti, per favore. Non ce n'è motivo.»
Poggiò una mano sul ventre e lo sfiorò con malinconia mista a commozione come se un senso di colpa gli urlasse nella testa. Proseguì a percorrerla, a interrogarla come una sfera di cristallo.
Quando la sua mano si fermò in un punto, la afferrai e la strinsi; per finire a guardarci nell'intimità in cui ci eravamo rifugiati diverse volte. Allora non ci sentimmo più soli.
Improvvisamente si alzò con scatto famelico, rovesciò le coperte a terra, mi prese la testa tra le mani e, divorata la mia bocca, passò a baciarmi il collo in ogni angolo. A stento riuscivo a respirare. Mi stracciò la veste e passò a fare razzia del mio petto. Mi strinse da dietro e affossai la sua testa ancora più in profondità nel mio busto. Le dita partirono alla ricerca della sua virilità tra le pieghe del lenzuolo e i gemiti che a stento riuscivo a soffocare. Quando la trovai, questi grugnì profondamente con gli occhi chiusi e la bocca distorta dal piacere. Con una mossa, mi distese sul materasso e mi sovrastò con il suo corpo marmoreo. Fu come venir inondati da una pioggia impetuosa.
Si fece spazio tra le mie gambe alla stregua di un perlustratore delle foreste e, una volta terminata la caccia, passò la mano sulla bocca e infine sul mento.
Sfilò la camicia da notte dal capo, spettinando i capelli ribelli. Strozzai un verso di stupore.
Abbassò i pantaloni e, con grande appagamento, mi fece sua.
La nostra prima volta non fu la prima volta ma qualche giorno prima, quando mi parlò nel bosco, quando udii il rimpianto di ricordi antichi che non sapevo di avere. E fu strano orbene sentire la mancanza di qualcosa che non si era mai vissuto, di un posto che non si era mai esplorato.
Cercai le sue mani e poi le gambe abbracciare le mie, cercai le vene pulsanti del collo per morderle e, non ancora soddisfatta, passai alle natiche e poi alla schiena.
Qualsiasi cosa lui facesse, ne ero pervasa. Fu come abitare lo stesso corpo e dimenticare i confini che ci separavano. Eravamo argilla fusa, lava incandescente e grandine distruttiva in un torrido mezzogiorno estivo.
In un accordo di note musicali, ne uscimmo polvere di corpi e brandelli di vestiti.
La bonaccia era tornata e con esso anche l'accordatura delle nostre membra esauste.
Per l'alba c'era ancora tempo.
Sarei rimasta adagiata ancora a lungo sul suo torace, cullata dal movimento dei suoi polmoni e, per quel che mi venne concesso, ne approfittai quanto più possibile.
Carlyle mi carezzava i capelli, passandosi le ciocche tra le dita e scherzando sull'evidenza di quanto fossero lunghi, forse troppo, ma che lui li adorava così come erano e che non avrebbe mai voluto vederli diversamente.
Quando il primo raggio oltrepassò timido la curvatura dell'orizzonte e si intrufolò indisturbato nel nostro nido di felicità, appurai che fosse giunto il momento di andare.
«Prima che vada, toglimi una curiosità... Danimarca? Perché? È stata una vera sorpresa, qualcosa che non avrei mai immaginato!»
«Siamo in guerra e abbiamo bisogno di alleati. Averne uno ci rende forti, averne due prudenti.»
«Piuttosto, come hai convinto il re? Cosa gli hai offerto in cambio della sua alleanza? Vedi, mi sarei aspettata invece la Spagna, l'Austria, ma non la Danimarca!» rimarcai curiosa.
«La Spagna ha optato per la neutralità dall'inizio del conflitto, non cambierà idea adesso. L'Austria, al contrario, è troppo impegnata sul lato prussiano, non avrebbe appoggiato un altro conflitto per una nazione poi che sin dall'inizio si è mostrata più filo inglese che filo francese. Re Cristiano invece è un sovrano dalle pretese contenute, per nostra fortuna. Desidera l'esclusiva del commercio del sidro al pari di come re Luigi desideri Beaufort. Il nostro sidro è famoso in tutto il continente e Cristiano lo sa bene. D'ora in poi non esporteremo più a nessuno se non a lui. Questo è il patto e sai quanto io sia un uomo d'onore.»
«Esclusiva?» sobbalzai «il punto è che così facendo potresti privarti del traffico con altri stati o con il nuovo continente per giunta. Non temi che la Danimarca commerci il sidro per tuo conto? Che si frapponga a te, ecco!»
«È un rischio che ho già considerato e che sono disposto a correre. Sommerseth non è solo famosa per la bevanda che produce, di cui gli stessi danesi sono ghiotti e della quale, fino a oggi, sono stati i nostri maggiori acquirenti. Spostare quella parte residuale tutta sul loro mercato non mi spaventa, al contrario, mi sono limitato solo a siglare un accordo che lo stesso padre di mio padre già negoziava a suo tempo.»
Ciò che mi spaventò a morte non fu però quel negozio, per il quale ci trovai in fin dei conti razionalità e poco attaccamento, quanto l'immagine delle sue pupille che persero di colore e che divennero improvvisamente vitree.
Ad avallare il mio sospetto ci fu anche il presentimento che la Danimarca non avrebbe chiamato i suoi uomini alle armi solo per del semplice sidro. Ci doveva essere dell'altro.
«Carlyle, non so perché ma qualcosa mi tormenta. È solo uno scambio commerciale quello che hai promesso a re Cristiano?»
Inconsciamente, speravo che mi dicesse di sì ed era ciò che mi aspettavo in fin dei conti, eppure Carlyle non rispose. Ripetei la domanda una seconda volta, ma anche in quel caso ottenni solo silenzio. Allora caddi nel panico, mi ritrassi come una lince perché provai una forte paura nei confronti di quell'uomo che per un attimo mi chiesi se lo conoscessi davvero.
Alla fine la verità giunse e con essa andarono via le parole. Mai avrei immaginato quella risposta.
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