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Capitolo 78

Erano passati due mesi da quell'incontro e le occasioni che avevo avuto per riprendere il discorso furono rare come la neve d'agosto. Quasi impossibile fu di fatti incontrare lo stesso Carlyle.
C'erano stati giorni di forte agitazione a palazzo. Il clima era teso e incerto e a volte così surreale da far sembrare di esser nel bel mezzo di un'allucinazione. Lo stesso Parlamento, dalle solite adunate mensili, passò a riunirsi quasi tutti i giorni e talvolta a ritmi sfiancanti: si entrava quando il sole era a est e si usciva quando era migrato a ovest e solo in poche fortunate occasioni la sala dai dipinti bucolici si svuotava quando era ancora alto in cielo.
Il timore dell'invasione era palpabile e gli stessi membri delle due fazioni non solo temevano di veder scomparire la nazione sotto i loro occhi, ma anche di perdere tutti i privilegi che spettavano alla carica che ricoprivano.
Se Sommerseth fosse stato annesso quale sarebbe stato infatti il destino dei suoi cittadini? La plebe non ne avrebbe sofferto, questo era chiaro, ma lo stesso non poteva dirsi per coloro che costituivano una minaccia per l'Inghilterra e, in particolare, chi possedeva il cognome Kynaston e tutti coloro che ne erano stati i più diretti sostenitori.
Secondo quanto si diceva, la volontà di cedere il ducato di Beaufort non fu accolta con acclamazioni di gioia o, per lo meno, non si raggiunse subito la maggioranza. A dire di una minoranza, che poi trascinò i consensi di una buona fetta dell'assemblea, quella cessione sarebbe stata una scelta azzardata che lo stesso principato avrebbe rimpianto nei decenni a venire. Secondo questo coro il principato, piuttosto che privarsi di un possedimento di tale portata, avrebbe dovuto schierarsi a favore della Francia nel conflitto in corso. Alcuni si illusero che questa mossa avrebbe compiaciuto Re Luigi XV tanto quanto la cessione di una terra che anelava da ancor prima di perderne il controllo, ma poi si resero conto che il contributo di Sommerseth a una guerra dalla portata mondiale sarebbe stato quasi invisibile e, al contempo, molto costoso. Di fatti, una scelta improponibile.
Al pari della minaccia imminente, anche la sottoscritta divenne bersaglio di attenzioni, per lo più indesiderate, quasi fossi qualcuno di importante.
La rivelazione aveva dato i suoi frutti: dopo aver strisciato come un serpente nelle orecchie degli assetati si era insinuata nelle loro bocche e le aveva caricate di discordia, soddisfacendo così la gola secca di chi cercava disperatamente un capo espiatorio a cui attribuire la colpa di tanto sfacelo.
Non tutti ne furono bersaglio tuttavia.
La diceria secondo la quale il principe aveva avuto, molto probabilmente, una relazione extra coniugale con una cameriera era segreto da tener ben custodito, simile a un piano di attacco segretissimo cui ci si doveva guardare dal rivelarlo al nemico. Esserne a conoscenza era quasi un vantaggio che si possedeva rispetto agli altri e pertanto lo si custodiva con avidità.
I più cinici sorvolarono sul fatto, senza dargli alcuna importanza. Asserirono che si trattasse del solito chiacchiericcio, che il principe sarebbe stato un folle a tradire un'Hannover, che la principessa Jocelyn era una delle donne più belle d'Europa e che erano frivole storie inventate a tavolino per avere qualcosa di cui parlare tra piatti di porcellana e servizi da tè.
Le malelingue invece non si risparmiarono dall'infierire. Qualcuna mi diede della prostituta, una debole di carne, ma cercai sempre di non darci peso: meglio essere considerata prostituta che causa del disfacimento di un regno.
I miei momenti di pace, al riparo di una comoda tranquillità, erano quando non ero impegnata nelle faccende dell'ultimo minuto. Capitava infatti che trascorressi molto tempo da sola con mia figlia.
Amaranta aveva quasi un anno e mezzo, era una bambina sveglia, curiosa e riflessiva. I folti capelli neri con cui era nata le coprivano le orecchie e le accarezzavano la fronte, mentre due fanali verdi chiaro brillavano timidi su una trapunta di lentiggini.
Una delle poche cose che aveva ripreso da me.
Mi rattristava il pensiero che mia madre non sapesse nulla di lei, che mia sorella sapeva ma che non aveva mai sfiorato la dolcezza della sua mano e che mio padre non l'avrebbe mai conosciuta.
Dopo tutta la pratica che avevo fatto potevo definirmi esperta a lavorare a maglia e ricamare. Intere notti trascorse a osservarla e a bearmi del suo respiro morbido e cadenzato nel mentre un filo si legava a un altro. Sferruzzavo copertine decorate con i più disparati motivi, a volte fiori, altre cardellini variopinti. Si aggiunsero successivamente berretti, maglioncini e altri capi per la stagione fredda. Quando ne terminavo uno, lo mettevo da parte, immaginando come le sarebbe caduto addosso.
In definitiva io e mia figlia avemmo molto tempo da condividere assieme. Ne approfittai in realtà.
Il pensiero del bambino che stava per arrivare ingigantiva le mie insicurezze a tal punto da farmi domandare se sarei stata in grado di amarlo allo stesso modo della mia primogenita. Il pensiero mi turbava, talvolta mi faceva piangere al buio.
Carlyle, dal canto suo, non perdeva occasione per far recapitare doni a Amaranta. Era Sir Jacques a portarmeli di persona. Si trattava talvolta di giocattoli, di peluche, altre volte di abiti dalle stoffe pregiate.
Solo una preziosa volta si presentò a quella porta.

Il sole era tramontato e aveva lasciato il posto all'imbrunire placido della notte. Qualcuno bussò. Attesi, ma quando nessuno si affacciò, feci cenno di entrare. Se fosse stato Sir Jacques non avrebbe aspettato.
Ne entrò Carlyle, visibilmente stanco per l'adunata parlamentare terminata poc'anzi.
«Ciao...» sussurrò dolcemente, riempiendo la distanza che ci separava.
Quando lo vide, Amaranta rimase di stucco e lo analizzò con i suoi piccoli occhietti smeraldo.
Lo indicò e mi guardò meravigliata. Balbettò un suono sordo fatto di sole consonanti.
«Papà!» bisbigliò emozionata alla fine.
Carlyle si accovacciò alla sua altezza e le porse una margherita.
«È la prima della stagione. Abbine cura.»
Prese il fiore e se lo girò da una parte all'altra, ammaliata. Carlyle sorrise, le prese il viso tra le mani e si avvicinò per darle un bacio sulla guancia.
Si alzò e si diede una sistemata ai pantaloni.
«Come stai?»
«Come mi vedi.» replicai con una punta di ironia «Tu, invece?»
Si abbassò di nuovo, si lasciò afferrare gli indici da Amaranta e questa si mise in piedi.
Emisi un grido, a metà tra lo stupore e la paura.
Le gambine della bambina tremarono su di loro in cerchio. Se le guardò. Si chiese se potesse fidarsi di loro. Alzò lo sguardo e incrociò quello ceruleo di suo padre. Costui sorrise senza necessità di aggiungere altro e lei lanciò un strillo di gioia.
Per mia sfortuna lo avrebbe rifatto e, quasi sicuramente, in mia assenza.
Carlyle la prese infine in braccio e la tenne con sé fino a quando non abbandonò la stanza.
«Ci siamo quasi. A breve firmerò il trattato. Manca ancora da convincere una piccola parte, quella più ostinata. Ma cadrà presto.»
Mi sentii sollevata.
«Re Luigi XV accondiscende?»
«Non vede l'ora. Verrà accolto nel migliore dei modi. Quel giorno sarà il giorno.»
Avrei aggiunto, di non ritorno.
Proprio con l'intenzione di ricevere il monarca francese al pari del più illustre ospite, il principe Carlyle aveva investito una cospicua somma delle casse della Corona per far ampliare un'ala del palazzo e convertirla nell'ambiente più bello che Livingstone avesse mai avuto. I lavori avevano fatto passi da gigante e in poco meno di qualche settimana era quasi tutto pronto. Il principe non l'avrebbe inaugurata prima dell'arrivo di Re Luigi invero e solo pochissimi eletti, tra cui i suoi consiglieri - naturalmente l'architetto e il capomastro - e infine qualche altra figura essenziale per l'avanzare del progetto, avevano avuto accesso al locale blindatissimo.
«Jocelyn sarà presto di ritorno. E con lei anche Godwin.»
Lo disse ad alta voce come se non si fosse reso conto che non lo stava solo pensando.
La principessa e il duca si trovavano a Londra da circa due mesi e si diceva che il principe non ricevesse missive da sua moglie dal giorno in cui gli aveva comunicato che erano arrivati a destinazione.
Due mesi erano la durata di un'estate o del periodo della caccia, ma nulla al confronto dell'idea che urgeva un piano difensivo nel minor tempo possibile.
L'assenza della principessa era stata in questo fondamentale, così come quella di Godwin.
Il Parlamento aveva corso a ritmi frenetici. Carlyle aveva talvolta rinunciato alle sue ore di sonno, spesso ai pasti principali, e se qualcuno fosse passato a notte fonda di fronte le sue stanze o nella biblioteca della Corona lo avrebbe visto passare il calamaio su una pergamena o versare cera lacca sull'ennesima lettera diretta a Versailles.
La cautela e la furbizia erano imprescindibili.
«Tieniti pronta, Anthea. E se fosse necessario, ti chiederò di fuggire con la bambina e di trovare riparo. Quanto a me, mi impegnerò affinché le nostre strade si ricongiungano. Nel peggiore dei casi, tra molti anni e in un luogo ancora sconosciuto.»
Annaspai tra le mie stesse lacrime, pronte a zampillare e gridare la fragilità che a fatica mi faceva stare in piedi.
Le punte delle mie dita fremettero. Provai ad avvicinarmi per intrecciare quel bisogno che avevo di lui con le fibre delle sue mani, ma proprio quando mi convinsi di esser entrata in una dimensione temporale senza fine, comparve Sir Jacques a riportarmi a terra.
Si ritrasse imbarazzato, consapevole di aver interrotto un momento, e chinò il capo.
«Vostra Maestà.»
Carlyle avanzò verso la porta. Il mio cuore esplose e poi ricompose i suoi mille pezzi.
Se ne andò via come una folata di vento, lasciando l'inverno tutto attorno.

In una mite giornata di inizio maggio, una di quelle che mettevano di buon umore, il principe richiamò tutto il Parlamento, i nobili e la sua servitù nella sala dell'Assemblea.
C'era un miscuglio di esaltazione e paura. I nobili presenti non nascondevano la loro trepidazione e il brusio concitato di sottofondo non faceva altro che dilatare l'attesa per l'arrivo del principe a presiedere l'Assemblea.
Se Carlyle aveva infatti indetto un'adunata di quel tipo, come mai prima di allora, era per questioni serie, forse scomode.
Si udì la porta magna aprirsi. Sir Jacques fece cenno a tutti di alzarsi e annunciò l'ingresso del principe. Questi prese posto al centro dell'Assemblea. Guardò tutti i presenti con sguardo caldo e profondo, come se benedisse la presenza di ognuno di loro non solo in quella stanza, ma nel suo intero regno. Rimase in piedi ancora a lungo e in silenzio, poi fece cenno con il capo e si sedette. Affidò lo scettro e la corona al paggio poi, come da consuetudine, aspettò la lettura del cerimoniale e infine si alzò nuovamente, invitando di fatto l'Assemblea a ripetere il gesto di conseguenza.
Il suo tono solenne vibrò tra le pareti «Oggi, non siamo tanto in guerra con Re Giorgio, quanto con l'idea di pace per la quale i nostri antenati si sono battuti! Oggi, siamo in guerra con chi minaccia la nostra indipendenza, con chi scalfisce l'idea di libertà, considerandola non un diritto, ma un privilegio, e con chiunque soppesi l'avidità con il proprio tornaconto. Ma non temete, sudditi miei, il mio regno, il regno dei miei avi, non cederà al nemico con codardia. Oggi inizia ufficialmente il periodo più buio che la storia di Sommerseth abbia mai conosciuto. A voi dunque chiedo di avere fiducia nell'unica certezza che vale la pena avere nella vita» la sua voce risuonò nel silenzio e gli accoliti attesero che schiudesse l'ultima profezia «che solo uniti ce la faremo!»
Il principe prosegui un discorso che sembrò essersi preparato nelle innumerevoli notti passate sveglio. Mise al corrente il resto della platea del trattato con Luigi XV, scendendo nei particolari e non lasciando nulla al caso. Non tutti accolsero la scelta con acclamazioni, ci fu qualche dissenso, ma restò comunque tacito, nascosto.
L'adunanza proseguì al ritmo di dibattiti, interventi e sospiri. Praticamente nessuno si accorse che era arrivato il pomeriggio se non quando si sentirono i primi stomaci brontolare.

Quando tutto sembrò esser arrivato a una fine si udì la porta aprirsi e un ululato di stupore accompagnare una figura slanciata e snella.
Quell'inconfondibile suono di tacchi sul marmo, assieme a uno sguardo infuocato, fece rabbrividire anche la persona più forte e risoluta che fosse lì presente.
«Dunque marito, ti stai preparando ad affrontarmi!»
Era tornata e con lei una dichiarazione di guerra.
Carlyle sembrò essersi preparato a quell'incontro, come se lo avesse premonito. Non batte ciglio. Quella frecciatina non lo sfiorò neanche.
«Non te, ma chi ti appoggia in questa follia purosangue!»
Jocelyn scoppiò a ridere e si voltò verso Godwin che prese a ridere più forte di lei.
«Mio caro principe, è vicino il tempo in cui ti farai chiamare per nome. Preparati dunque, non passerà molto prima che striscerai ai miei piedi a implorare pietà. E voi qui presenti nella sala» gridò a gran voce per essere sicura che tutti la udissero «riflettete da che parte stare, perché quando soccomberete a Re Giorgio, nessuno avrà misericordia di chi ha voltato le spalle al legittimo Sovrano.»
Jocelyn e il duca se ne andarono fieri, godenti dell'agitazione che avevano disperso.
I presenti sembrarono impazzire. Schiamazzi, rimbombi, cattivi presagi e minacce di rivelare tutto al popolo.
Alcuni mi cercarono tra le pieghe delle persone per addossarmi tutte le colpe, per augurarmi il peggio e per farmi morire con il solo pensiero. Altri neanche si resero conto che fossi lì.
Sir Jacques attese un segno da parte del principe. No, non c'era bisogno di far intervenire le guardie reali a riportare la quiete.
«Come vi ho detto!» Carlyle urlò per la rabbia e finalmente un silenzio strozzato tornò tra quelle mura. Era nervoso, quasi fuori controllo «Non saremo soli a difendere i nostri confini. Ci sarà la Francia con noi!»
Fece una lunga attesa. Le parole gli pizzicarono sulla lingua.
«E anche la Danimarca!»

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