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Capitolo 75

Scoprii di quella gravidanza quasi per caso e in una situazione che mi riportò molto alla prima.
Non avevo avuto preavviso, indizi o manifestazioni eclatanti che il mio corpo si stesse trasformando lentamente per accogliere il brivido di un nuovo respiro.
I malesseri che mi avevano accompagnata con Amaranta non erano che un ricordo appartenente al passato e, se il mio intelletto non aveva preso a burlarsi di me, avrei giurato di aver avuto anche le mestruazioni nell'ultimo mese. Ciò di cui mi meravigliai fu che non ero pronta allora e avevo una piccina che era ancora maldestra nei movimenti, a malapena camminava e puntualmente pretendeva che la tenessi per mano quando doveva percorrere più di qualche metro. Era trascorso appena un anno da quando quella bambina aveva per la prima volta fatto un saluto alla vita e presto si sarebbe aggiunto un nuovo vagito, un nuovo giglio luminoso da annusare.

In vista dell'imminente arrivo del sovrano inglese, il principe aveva deciso di convocare a corte tutti i maggiori esponenti della nobiltà del regno poiché aveva bisogno, da una parte, di veder riconfermato il loro appoggio nei confronti della Corona e anche, a ben dire, di raccogliere le loro opinioni in merito alla regale visita.
Per quel giorno la sala Afrodite era stata imbandita alla perfezione, confezionata come una bomboniera. Carlyle aveva finalmente capito che darsi di tanto in tanto alla mondanità non avrebbe deturpato la sua autorevolezza e tantomeno lo avrebbe distolto dalle questioni importanti. Il suo intento non era quello di mostrarsi un sovrano eccessivamente inglobato dalla politica e dagli affari di stato - tutt'altro - ma anche colui che amava dilettarsi, che coccolava la nobiltà per farla sentire degna del titolo che rivestiva.
La motivazione più insita e nascosta in quell'invito fu anche il bisogno di esercitare una forma di controllo sull'aristocrazia. I nobiluomini erano infatti i suoi vicini più prossimi e, a parte qualche fidato che poteva considerare amico - se non suo diretto consigliere - sapeva bene che la maggior parte amava tutelare i suoi affari. Da quando palazzo Livingstone aveva infatti assistito allo scisma tra i coniugi Kynaston e al sempre più insistente e malaugurante interessamento dell'Inghilterra ai confini del regno, il principe Carlyle sapeva di dover racimolare sostenitori in ogni dove e che prima ancora di chiedere sostegno a sovrani europei che non avrebbero elargito neanche uno scellino senza nulla in cambio, avrebbe dovuto garantirsi il benvolere dei suoi concittadini.
«Re Luigi non ha sbagliato a costringere i nobili francesi a trasferirsi a Versailles! Il principe Kynaston dovrebbe prenderlo da esempio secondo il mio modesto parere... non emulare, sia ben chiaro ma, che so io, magari non disprezzare del tutto un'idea simile!» asserì Sir Jacques con il suo indistinguibile e convintissimo accento oltremanica qualche ora prima dell'arrivo dei DeBour.
Il maggiordomo amava trastullarsi tra le sue convinzioni filofrancesi ma sapeva perfettamente che il principe non avrebbe mai costretto i suoi nobili a vivere nella sua dimora, per una serie di ragioni: non era un despota e tantomeno un manipolatore, il palazzo sarebbe stato un po' stretto a chiunque e, soprattutto, non avrebbe rinunciato mai alla sua intimità!

La vista - e l'odore - di tutte le pietanze appositamente sfornate non solleticò minimamente il mio appetito, per quanto non mangiassi dalla mattina. Fu quello un altro segnale che non mi fece intuire nulla.
Il banquet ebbe il suo successo e fu una circostanza a cui né Jocelyn né il duca presero parte, ragione per cui molti nobili sembrarono quasi sollevati, se non addirittura contenti.
L'invito a quell'evento fu una boccata d'aria fresca per molti: alcuni di loro erano caduti in disgrazia e si batterono il petto nel sapere che il principe non li aveva dimenticati, a testimonianza del loro prestigioso lignaggio; altri manifestarono solo il bisogno di un po' di frivolezza.
Ero contenta nel sapere di aver ripreso a prestare servizio quando credevo che non avrei mai più avuto un mio posto nel mondo. La serata cominciò con i migliori propositi e non fece che assecondare questa convinzione. Tutti gli invitati per la celebrazione si erano tirati a nuovo, il vino scorreva a volontà e le risate e gli schiamazzi saltellavano da parete a parete come ranocchie.
«Vostra Maestà, io proporrei una ricorrenza del genere tutti i venerdì e i sabato del mese!»
«Lord Harper, sapete benissimo che il venerdì per me e mio figlio è giorno di caccia. Io suggerirei piuttosto tutti i sabato e le domeniche del mese! Signorina, versatemi dell'altro vino!»
«Bazzecole, lord Merton! Il lunedì è giorno di chiusura dei conti! Volete per caso che io contabilizzi una somma al posto di un'altra? Non sia mai! Ho bisogno di riposare il giorno prima! Piuttosto voi, rinunciate al vostro giorno di caccia e saremo tutti più felici e meno stanchi!»
All'udire quello scambio di battute strozzai una risata tra i denti e nascosi la faccia tra il colletto della camicia per non far vedere il rossore che mi esplose sulle guance per il divertimento. Riempii il calice come mi aveva richiesto.
Carlyle mi aveva vista e ricambiò il diporto facendo capolino con gli occhi vispi dalla forma del bicchiere che apprestava a portarsi alla bocca. Mi guardò arricciando l'angolo della bocca in un'onda, sembrava volermi dire «Ho fatto l'abitudine a bisticci di questo tipo.».
Mi morsi il labbro inferiore e gli risposi inclinando la testa da un lato «Io invece sto ancora imparando a conoscerli!».
Il suo sguardo si distese nella tranquillità di un fiume calmo e trasparente e i suoi occhi si addolcirono in un misto di miele e vaniglia. Come lui, avrei desiderato, bearmi del canto dei suoi respiri e delle stagioni delle sue mani. Amavo quell'uomo e il modo in cui mi faceva sentire costantemente al centro dei suoi pensieri anche quando il massimo della nostra intimità si riduceva a qualche occhiata di sfuggita, timida, al riparo della luce del sole.
Lord Merton e lord Harper proseguirono la baruffa senza raggiungere alcun accordo tra di loro ma decidendo di rimettere alla volontà del principe la decisione circa l'appuntamento settimanale a corte.
Il banchetto proseguì per ore e ore ancora, tanto che gli invitati diedero l'impressione di non voler abbandonare la festa.
«Non ho intenzione di privarmi del sonno questa notte!» sentenziò acido Sir Jacques nell'orecchio di una domestica, non controllando a sufficienza il tono della sua voce.

La situazione parve calmarsi quando tutti i presenti riempirono abbastanza i loro stomaci da smettere di ronzare attorno al buffet come api in cerca di nettare.
Mi accostai al vetro della finestra fino a quando scomparve la mia immagine riflessa. Non stetti in me dalla gioia quando vidi mia figlia camminare per il prato della tenuta accompagnata dalla balia a cui la affidavo quando non potevo essere io a prendermi cura di lei. Era una donna timida, amorevole e discreta.
Amaranta la stringeva per mano e alternava una gamba dietro l'altra goffamente. Si abbassò per strappare un filo d'erba e porgerlo alla balia. La sala Afrodite non era ai primi piani del palazzo eppure, non appena si voltò, con gli occhietti aggrinziti e il volto incorniciato dalla cuffietta di pizzo, si accorse di me e mi riconobbe.
Mi sorrise e batté le manine tra di loro, allora non perse ulteriore tempo, attirò l'attenzione della balia tirandola per la gonna e mi indicò con il suo dito paffuto, alzandosi sulle punte dei piedi.
«Dici che mi somiglia ma poi, quando la guardo, vedo solo te e la tua bellezza.»
Sussultai per lo spavento e, quando mi ritrovai il principe così vicino da poterne distinguere i fremiti del petto, un brivido caldo mi incendiò le gote. La nausea per l'emozione di averlo affianco, l'incontenibile frenesia di voler sentire ancora una volta il palpito del suo cuore navigare i solchi della mia anima, aumentarono il ritmo dello sterno e annichilirono la mia lingua come la notte che assalta il lupo ululante alla luna.
«Ti stai vergognando per caso?» esordì.
L'espressione timida che gli rivolsi lasciò trapelare tutto l'odore di impacciatezza.
«Posso provare imbarazzo di fronte al complimento del mio sovrano, Vostra Maestà
«Assolutamente! È lo stesso che provo io ogni volta che ti ho vicino.»
«Dovresti essere più discreto invero. Potremmo non passare come indifferenti agli occhi di qualche presente!»
«Anthea, siamo gli unici in questa sala a mantenere ancora un po' di decenza. Il tuo imbarazzo ne è a testimonianza.»
Soffocai in gola un verso e metà via tra il compiacimento e l'esaltazione. Ero emozionantissima e sentii l'urgente bisogno di vino in quel momento, ne avrei trangugiati boccali a volontà pur di anestetizzare l'esaltazione in cui ero versata.
«Carlyle, ti piace mettermi in difficoltà in pubblico!» lo punzecchiai.
Scosse il capo divertito e riprese «Datti uno sguardo attorno. Sono tutti sbronzi e domattina non ricorderanno un fico secco di quello che è successo» infine aggiunse «di quanta apparenza ha bisogno l'uomo per sentirsi appagato... » portò il bicchiere alla bocca con gesto sciolto e bevve.
Scostai il capo all'indietro e lo scrutai ammonente «Sei troppo rigido!»
«Sì, lo ammetto.» sospirò.

La melodia della cetra fece da sfondo agli intrecci di sguardi di cui divenimmo protagonisti io e Carlyle e, senza il bisogno di riflettere, rimasi impressionata ancora una volta per quanto fosse bello. Mi donò un sorriso a bocca larga e constatai quanto fosse uno dei motivi del suo fascino.
Da lontano due guance paffute e rosse per il troppo vino si avvicinarono barcollanti.
«Vostra Maestà, voglio parlarvi del carico di luppoli che mi é appena arrivato. Che non si diffonda la voce che siete l'unico a interessarsi all'arte della birra! Dunque, vi stavo dicendo...»
Lord Shareton mi privò della compagnia di Carlyle e quest'ultimo lo assecondò con un' espressione annoiata, a testimonianza del fatto che non fosse troppo interessato al discorso che il nobile si cimentava a intavolare.
Quando il sidro terminò, Sir Jacques non ci pensò due volte a indirizzarmi nelle cucine per prenderne dell'altro.
Arrivata al primo piano, ne riempii una caraffa intera, talmente pesante che avrei avuto difficoltà a trasportarla per le scale.
Mi incamminai ma i gradini parvero diventare improvvisamente infiniti e un'ingombrante sensazione di pesantezza mi impossessò dapprima gli arti, poi il petto e infine la testa.
«Buon Dio, sto per svenire!»
Credetti di aver urlato, che presto sarebbe venuto qualcuno in mio aiuto, ma quando nessuno comparve, mi resi conto invece di aver a malapena sussurrato.
La vista divenne sfocata e l'energia defluii da me come un fiume dal suo letto verso il mare.
Un rumore di cocci per terra fu l'ultima cosa che ricordai.

Quando ripresi coscienza ero distesa su di un letto. Davanti a me, un uomo sulla sessantina, con gli occhialetti sul naso e intento a sistemare una parrucca un po' vecchia. Non lo avevo mai visto prima ma intuii che fosse un medico dalla valigetta nella quale era in procinto di rimettere a posto tutti gli attrezzi del mestiere.
Mi aveva appena visitata ma non mi ero accorta di nulla.
Il principe era in piedi di sasso con Amaranta in braccio che sembrava essersi appena svegliata e che mi indicava piagnucolante.
«Bene, vedo che vi siete svegliata!» arricciò il naso «quante altre volte vi è capitato dall'inizio del vostro stato?»
Strabuzzai gli occhi «Quante altre volte? È la prima volta che mi capita! E poi quale stato? Milord, credo di non capirvi!»
Il medico parve perdere la pazienza. Intuii che fosse stato prelevato con urgenza da un altro incarico per venire a soccorrere la domestica del sovrano e che aveva una certa fretta a ritornare al suo lavoro. Decise di arrivare subito al dunque, allora si avvicinò e mi porse una boccetta di vetro dal contenuto pungente.
Aveva un tono perentorio e diretto «Signorina, siete giovane, non credo siate sposata e immagino che quella sia vostra figlia. Prendete tutto il contenuto del medicinale la sera e andate a dormire appena ne avete la possibilità. Starete male, sanguinerete, ma nel giro di una settimana vi sarete rimessa in sesto.»
«Che cosa?» mi alzai di soprassalto.
Sprofondai in un enorme stato di agitazione e Carlyle fece altrettanto.
«Sir Payton, riferite... alla ragazza... qual è la ragione del suo mancamento!»
Il principe lo fulminò con occhi di lupo, profondi, scuri e poi prese a ninnare Amaranta che aveva cominciato a piangere, consapevole anche lei che qualcosa non andava.
L'uomo strinse ancor di più la boccetta tra le mani, come a voler sottolineare la sua posizione.
«Vostra Maestà, la vostra domestica è incinta.»

Un silenzio ovattato, fughe di sguardi, occhi in cui si dispiegò maggio, briciole di tempo che si allungarono come l'orizzonte: questo fu ciò che seguì a quella rivelazione.
Carlyle non fu lo stesso della prima volta, impreparato, sbigottito e senza scampo ma sembrò meravigliosamente felice, come se attendesse quella notizia dal profondo del suo cuore.
Strinse ancora di più Amaranta a sé e poi fece una cosa che mi lasciò senza fiato: allargò la bocca in un sorriso primaverile e una perla lucente scese dall'estremità del suo occhio e gli bagnò le labbra. Non lo fece platealmente però. Si nascose perché voleva che nessuno lo vedesse in quel momento così intimo, tanto che né il medico né nessun altro non si accorse di nulla.
Fu la seconda volta in cui lo vidi commuoversi.
Forse avrebbe pianto una terza in futuro, ma non ce ne sarebbero state altre.
«Ve la lascio sul tavolo. Decidete voi cosa farne, signorina.»
«Assolutamente no! Togliete via quella fiala dalla mia vista!» ruggì Carlyle. Lo avrebbe probabilmente sbranato.
Lord Payton lo guardò basito, con un'espressione di infinita perplessità, poi si rivolse a me e nuovamente al principe.
«È meglio che io lasci questa stanza e non faccia ulteriori domande.»

Rimanemmo noi tre da soli.
Carlyle mi allungò la mano. Mi alzai e venni accolta dalle sue braccia che mi avvinghiarono amorevolmente. L'ultima lacrima che uscì dal suo occhio mi bagnò la punta del naso.
Mi disciolsi in lui e lui in me. Infine ci baciammo con enfasi e commozione.
«È la cosa giusta.» mormorò.
E lo era per davvero.

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