Capitolo 74
Sir Jacques ripiombò nell'agitazione che a stento era riuscito a tenere sotto controllo. Aveva parlato di una domestica ma non le aveva dato un nome. Era troppo sconvolto per attribuire un'identità a quel nefasto evento; né fu Carlyle a pretenderlo.
Il principe era diventato di sasso, immobile come un animale che non voleva farsi scorgere dal suo predatore. L'ultima morte a cui aveva assistito era stata quella di suo padre, ma era stata una morte naturale, non un omicidio, né un suicidio.
Aveva a corte solo domestici giovani - se si escludevano Sir Jacques e qualche altro membro delle cucine - e sentiva dentro di sé che si trattava di uno di loro.
Quella notizia mi scosse come un terremoto. Sobbalzavo a ripetizione, tanto che temevo che prima o poi sarei caduta a terra.
Una vampata nera e malaugurante si impossessò di me. Mi sentii devastata da un fiume oscuro di presagi e cattivi pensieri.
Avevo un brutto presentimento e più provavo a mandarlo via più questo urlava con prepotenza.
«Dov'è adesso?»
«Alla fine della v... vostra tenuta, Vos... tra Maestà!»
«Fate preparare il mio cavallo! Voi!» rivolgendosi alle guardie presenti nella Sala «seguitemi!»
Nel giro di poco il principe, Sir Jacques e il resto del gruppo partirono alla volta del luogo dell'accaduto.
Io ero rimasta mera spettatrice degli eventi. Ero paralizzata.
Improvvisamente una vocina sconosciuta mi risvegliò dalla catarsi e mi sussurrò Vai!
«Cosa?» domandai ad alta voce senza rendermene conto.
«Vai!»
Tante piccole scintille cominciarono a punzecchiarmi le gambe e a pretendere che queste si muovessero.
Corsi lungo il corridoio, sulle scale, senza sapere bene dove stessi andando, fino a quando non mi ritrovai di fronte la scuderia.
«Foedus!»
Il cavallo alzò il muso dal fieno e nitrì forte. Corsi verso di lui e lo sellai malamente. Non avevo tempo per fare le cose come dovevano essere fatte. Alzai la gonna, montai l'animale e diedi una forte strattonata alle briglie.
Scattò come un fulmine. Durante il galoppo, la forza del vento mi scaraventava indietro e io dovevo fare forza con la schiena per evitare di essere ribaltata in basso.
Arrivai quasi alla fine della proprietà e da quel momento decisi di proseguire da sola.
Mettere i piedi per terra fu come camminare sulla lava. Una forza opprimente mi spingeva indietro man mano che mi avvicinavo. Qualcosa voleva impedirmi di recarmi sul luogo dell'accaduto.
Il petto cominciò a fremere e a farsi pesante. Feci forza sulle ginocchia per sorreggerlo e per permettermi di proseguire.
Camminai a fatica ma a un certo punto dovetti fermarmi e poggiarmi al tronco di un albero. Il fiato era spezzato, affannato come le pale di un vecchio mulino non più in grado di muovere acqua.
Decisi di proseguire, senza mai perdere di vista in lontananza l'andatura veloce del principe e del manipolo.
Carlyle e Sir Jacques si fermarono vicino a una quercia, lasciarono i cavalli a una delle guardie e scomparvero dietro la curva della collina. Un peso intollerabile mi impedì di raggiungerli tanto da costringermi a sedermi per riprendere forza. Mi sentivo estremamente stanca ma senza motivo.
Mi obbligai a fissare l'orizzonte, con la speranza di rivederli presto tornare.
Ricomparvero dopo una manciata di minuti.
«Cosa ci fate voi qui?»
Il principe mi guardò angosciato. Non voleva che fossi lì ad assistere e temeva che avrei avuto qualche ripercussione, dopo il discorso che avevamo avuto qualche giorno prima.
Dalla mia bocca non uscì una parola perché bastò parlargli con gli occhi: volevo essere presente.
L'espressione che mi rivolse Sir Jacques fu ciò che mi convinse a restare. Mi guardò con gli occhi spioventi, sembravano voler dire «Mi dispiace tanto» e il modo in cui arricciò le labbra deturpò il suo volto e il mio stato d'animo.
Sfiorai quasi un attacco di panico. Mi gettai a capofitto verso la quercia, scivolando dalle braccia di Carlyle che cercarono inutilmente di fermarmi.
«Anthea, non andare!»
L'uomo sembrava volermi proteggere da una visione dolorosa. Sir Jacques, affranto, gli poggiò una mano sulla spalla e scrollò la testa, come le lancette di un metronomo.
La corsa frenetica lentamente si trasformò in un'alternarsi di passi di incredulità, lenti, funesti.
La mia bocca si squarciò in un grido strozzato.
Mi trovai di fronte a un corpo spento, oscillante da un ramo troppo fragile da reggere ancora per molto quel peso esanime. Sentivo quel cappio marrone che aveva lasciato una striscia viola su quel collo tutto su di me, mentre mi lacerava i polsi, la gola e le parole, tanto da farmele morire in bocca.
Non riuscii a intravedere il suo viso perché il manto di ricci neri le copriva il volto. Erano l'unica cosa che continuava ad attribuirle dignità.
Le gambe divennero molli e cedettero finché non mi ritrovai tra le dita l'umida consistenza della terra.
Le urla non riuscirono a esaurire il mio strazio.
Due braccia mi cinsero per la vita e mi costrinsero a rialzarmi, ma io opposi resistenza. Provai a sciogliermi da quella presa ma Carlyle aveva il doppio, se non il triplo, della mia forza.
Nascose la testa vicino al mio orecchio e mi supplicò di calmarmi.
«Perché? Perché lo hai fatto?» gridavo senza freni.
«Anthea, placati! Torna in te!»
Carlyle continuava a sostenermi in aria, ricevendo sui suoi stinchi tutti i miei calci.
Solo quando smisi di dimenarmi, mi lasciò.
Mi accasciai nuovamente a terra e lo pregai di non cercare di risollevarmi. Guardavo quel suolo, l'ultimo che aveva toccato prima di issarsi in aria e mi chiesi se conservasse ancora le sue impronte.
Le mie lacrime formarono una piccola pozzanghera. Mi sollevai e feci un passo in avanti.
Rimasi a fissarla inerme.
Galleggiavo, ma non andavo a fondo e mi chiesi cosa continuasse a mantenermi in vita dopo quella straziante notizia.
«Toglietela da lì!»
Il principe fece cenno con la testa alle sue guardie e queste obbedirono al mio ordine.
«Con cautela! Con cautela! Ve ne prego!» agitai le mani in avanti. Temevo potesse spezzarsi come vetro.
I soldati dalle vesti troppo sgargianti adagiarono Marfa al suolo. I suoi occhi erano ormai un grido taciuto, una sofferenza arsa. Guardarla era come ascoltare un labbro chiuso che sorride, calmo ma dormiente. La vita era defluita da lei silenziosa, lasciandola con un colorito grigio e viola che la rendeva quasi inumana.
Di fronte a me rimanevano solo pezzi di una donna, madre a brandelli.
Abbracciai quel corpo disincarnato e esangue. Se tempo addietro mi avessero detto che avrei abbracciato il suo mondo e la sua forma di pelle fredda e ossa non ci avrei creduto. Mi accovacciai sul suo volto e lo lavai con le mie lacrime. Per un frangente di secondo sperai di sentire la sua voce squillante rimproverarmi per averle bagnato le gote ma la consapevolezza che ciò non sarebbe successo non fece che peggiorare ancora di più il mio senso di abbandono.
Provai l'urgente necessità di avere una pelle più spessa perché con quella che avevo sentivo tutto, e anche di più.
Sir Jacques mi porse una mano.
«Venite, mia cara. È ora di andare.»
Diedi l'ultimo saluto alla donna che dormiva. Chiesi il permesso di carezzarla un'altra volta e poi le sussurrai parole che non avrebbe udito nessuno.
Marfa venne avvolta in un lenzuolo sporco e anonimo, che non dava giustizia alla sua bellezza. Venne poi trasportata altrove per preparare il corpo al funerale.
Salii su Baston e poggiai il capo alla schiena di Carlyle. Questi non lasciò la mia mano per tutta la durata del tragitto.
La pioggia accompagnò il mio rientro a palazzo. Ero sicura che non mi sarei più recata a quella quercia. Fosse dipeso da me, l'avrei fatta abbattere quel giorno stesso.
Mi diressi verso la mia vecchia sistemazione, alla disperata ricerca di qualche segno che desse una spiegazione a una tragedia a cui ancora non riuscivo a credere.
Quando misi piede nuovamente in quella stanza, dopo tanto tempo che non lo facevo, percepii un forte brivido percorrermi la schiena e i singhiozzi esplodere incontrollati. Erano le sue risate a trasudare ancora dalle pareti e il suo spirito a riempire gli angoli nascosti di quella stanza.
Quanti ricordi avevamo vissuto tra quelle quattro mura e quanto tutto era rimasto invariato!
La mente ritornò al primo giorno. Era lì lei, la prima persona che avevo conosciuto. Ripensai alle nostre chiacchierate, alle nostre parole sospese e alla nostra ultima discussione.
Oh Marfa, se avessi saputo!
Accompagnai le dita sulla linea della lettiera per terminare sul comodino. Una forma di polvere si depositò sul mio polpastrello.
La mia attenzione fu catturata da un biglietto ripiegato su quello che una volta era il suo letto. Lo afferrai tremolante con gli occhi offuscati dalle lacrime. C'era scritto il mio nome.
Mia cara Anthea,
Se stai leggendo questa lettera è perché di me non è rimasta che qualche parola scritta su questo pezzo di carta.
Avrei dovuto darti ascolto quando cercavi di farmi ragionare, ma ero troppo accecata dalla finta benevolenza di chi millantava di avere a cuore la mia felicità.
Avrei dovuto, in realtà, trovare un'altra soluzione quando conobbi Oliver per la prima volta. Anthea, sappi che c'è sempre una soluzione. Eppure a me questa opportunità non è stata data. Le mie membra, troppo stanche di combattere una battaglia senza fine, hanno deciso di rifiutarsi di non sentire più il calore del frutto che avevano generato.
Ma ora è inutile discutere dei se e dei ma, se poi il corso degli eventi non è possibile cambiarlo.
Potrai mai perdonarmi? Questo pensiero mi devasta.
Colei che mi aveva promesso protezione ha ceduto mio figlio a una famiglia oltreoceano.
Pensi che potranno mai davvero amarlo?
Se un giorno, per caso o per volontà del destino, ti capitasse di incontrare Oliver per le vie del mondo, parlagli di me e di quanto io l'abbia amato in vita.
Ti dico addio, amica mia, con una promessa che esigo da parte tua: non restare a piangere sulla mia tomba. Non sono lì.
Cercami nella trapunta del cielo, nel canto di un usignolo, nel profumo di un giglio, nella spuma del mare e nella brina del giorno che si schiude.
Perché piangi se ora nessuna cosa più mi lega?
Non restare a piangere sulla mia tomba, sono già andata via.
Per sempre, Marfa.
Mi catapultai alla finestra e la aprii per rifocillarmi di ossigeno. Quella lettera mi aveva sconvolto e ancor di più le rivelazioni che ivi erano racchiuse. Ero in apnea, stavo annegando nel mare della disperazione. Boccheggiai rumorosamente e per poco non vomitai per la sofferenza che si era aggiunta a colmare il vuoto lasciato da quegli occhi di ninfea ormai appassiti.
Mi chiesi quanta cattiveria abitasse il mondo e cosa avrei potuto fare io nel mio piccolo. Ripercorsi a ritroso il periodo in cui venni separata con la forza da Amaranta e pensai a qanto dovesse essere insignificante quel momento rispetto alla consapevolezza di non poter rivedere più il proprio figlio.
Facendomi forza sul pensiero di Marfa e Amaranta, mi diressi all'ultimo piano con la furia di un toro.
Arrivai di fronte una porta alta e pericolosamente barocca. Bussai bruscamente.
Sentii uno scatto e poi i piedi di una sedia strisciare sul pavimento.
«Chi osa disturbarmi con tale maleducazione?»
Assassina.
Entrai come una raffica di vento e notai un velo di meraviglia e impreparazione quando mi vide, ma poi si irrigidì e il suo volto divenne scuro.
Erano mesi che non incrociavo il suo sguardo e in quell'occasione sembrava pungermi come le spine di un agrifoglio.
«Le vostre mani sono macchiate di sangue!»
Rise «Prima che chiami le guardie, andate via. Ho da fare. Misera puttana.»
Non obbedii.
Incalzai «Siete stata voi la causa della morte di Marfa e altrettanto della sofferenza per avermi separato da mia figlia!»
Roteò gli occhi, non aveva alcun interesse ad ascoltarmi; allora perse la pazienza, si alzò di scatto e puntò le mani sulla scrivania, facendo tremare tutto ciò che vi era poggiato.
«Avete sentito o no? Vi ho detto di andare via! La vostra vista mi disgusta e il vostro fetore mi fa venire il voltastomaco!»
«Avete la possibilità di dare ordini soltanto perché siete la moglie di un principe!»
«E voi, lurida meretrice, avrete ascendenza su di lui fino a quando non si renderà conto conto che siete solo un suo passatempo. E adesso sparite dalla mia vista. L'aria si sta facendo viziata. Guardie!»
La sua espressione si trasformò di repente non appena udì la frase con la quale mi congedai, prima che arrivassero a prelevarmi le sue guardie.
Non era più annoiata e infastidita ma strozzata, infantile e propria di chi rifiutava di credere a ciò che aveva appena udito.
La frase fu «Vostra Maestà, prima di andare via e onde evitare che sia qualcun altro a dirvelo: aspetto un altro bambino!»
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