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Capitolo 73

L'arrivo di Re Giorgio II a Sommerseth, quando era ancora vivo Re Friederich I, sarebbe stato considerato un evento di poco conto, da trattare alla stregua di una piacevole visita al proprio vicino per il primo e alla pari di un uccellaccio venuto a portare sciagura per il secondo, dopo il patto a cui lo aveva costretto.
Sebbene i rapporti tra i sovrani all'inizio fossero tesi come una corda di violino, con il passare del tempo, dopo che l'inglese ebbe dato tutto il tempo necessario a Re Friederich per metabolizzare l'accordo su cui era apposta anche la sua firma; i due divennero buoni amici tanto che ci fu anche chi giurò di averli visti andare a caccia insieme nella tenuta della famiglia Kynaston, come avrebbero fatto due veri vicini di casa.
Il principe, che non era mai stato grande stimatore di suo padre, lesse in quel legame un'enorme codardia: non solo lo incolpava di avergli fatto perdere sua madre quando i suoi seni trasudavano ancora latte, ma anche di averlo privato di un titolo di gran lunga superiore a quello che vantava.
Il fatto che i due re divennero simpatizzanti l'uno dell'altro non doveva essere considerato impensabile, per quanto senza dubbio non rientrasse nella normalità.
La maggior parte delle volte, quando più regnanti si sedevano allo stesso tavolo, era per negoziare su questioni politiche o per contrastare il medesimo nemico e solo raramente si ricavavano del tempo per dilettarsi con argomenti più leggeri e piacevoli.
Non poteva dirsi lo stesso per le rispettive consorti.
Alle mogli, che raramente ricoprivano un ruolo da protagoniste nei viaggi diplomatici, era affidato il compito di fare salotto.
C'era per forza bisogno di intrattenersi e di intrattenere in qualche modo, pertanto non era inusuale imbandire banchetti, acquistare mobilio nuovo e rinnovare il guardaroba - magari con stoffe veneziane e provenzali - per l'arrivo dei così tanto illustri ospiti.
Se questo comportamento serviva ad apparire come i perfetti padroni di casa, c'era anche chi spendeva una quantità smisurata di scudi per vantarsi dell'agiatezza in cui viveva.
I discorsi intavolati seguivano un iter standard: all'inizio, come normale che fosse, si rompeva il ghiaccio con qualche apprezzamento di cortesia o domanda di circostanza, successivamente si chiedeva come fosse andato il viaggio e come fosse la vita nel proprio reame per infine terminare, quando si era raggiunto un alto livello di confidenza, con discorsi informali, quasi intimi.
Se dunque il giorno della ripartenza era il momento più agognato dagli uomini, dopo essersi farciti le teste con tattiche di invasione o di difesa dei confini, non poteva dirsi lo stesso per le loro consorti che, al momento dei saluti, agitavano i loro fazzoletti e anche i loro animi.

L'imminente visita di Re Giorgio III, inaspettata come un fulmine a ciel sereno, non sarebbe stata accolta seguendo queste normali consuetudini. Non si era trattato di un invito ma di un'anonima lettera ricevuta gli ultimi giorni di novembre in cui si annunciava l'arrivo dell'illustrissimo monarca inglese senza troppi giri di parole.
Sapevo che Carlyle non aveva preso bene quella notizia, ma non perché nutrisse qualche immatura antipatia verso quell'uomo, ma perché prendeva sempre più vigore il timore che entrambi condividevamo. Re Giorgio III non aveva mai messo piede a Sommerseth dalla sua incoronazione e tantomeno aveva mai invitato il principe a Londra.
Era un monarca, a prima impressione, molto diverso dal suo predecessore.
Ero sicura che avrebbe continuato a occupare il suo trono e a rivolgere al principato solo occhiate da lontano se non ci fosse stato un buon motivo per giustificare tale viaggio. Non c'erano questioni politiche pendenti, se non la guerra, ma per quella il principe si era confrontato sempre con il primo ministro, rivolgendo solo poche missive a chi invece della guerra ne portava lo stendardo.
Un'ipotetica amicizia con Giorgio III non sarebbe stata codardia, forse furbizia, eppure sarebbe risuonata molto strana. Non sarebbe mai avvenuta.
Quell'intrusione era spinosa, rigida e nodosa. Se Carlyle attendeva l'inglese a giorni era perché qualcuno lo aveva invitato. Un brutto presagio aleggiava nell'aria.

Jocelyn, da quando aveva scoperto del tradimento del marito, aveva smesso di preoccuparsi degli affari di stato, di comportarsi da principessa consorte, si era spogliata di tutte le sue responsabilità e dei suoi doveri. Dalla parte opposta la sua minacciosità era aumentata e tutti quelli che la circondavano lo facevano più per timore che per devozione.
Aveva cominciato a comportarsi in maniera molto distaccata, come se all'interno di Sommerseth ci fosse un altro reame svincolato da qualsiasi ingerenza, di cui era lei il capo.
Da quando era stata concepita Amaranta, la guerra non si combatteva più solo al fronte e oltreoceano ma anche dentro Livingstone.
Alla donna dalla pelle ceramica era stata violentata la fiducia e il suo titolo da reale, figlia di monarchi.
Aveva appreso la realtà delle cose e lo aveva fatto bruscamente e non avrebbe desiderato riconquistare un uomo che aveva preferito una donna che non aveva neanche una briciola del suo lignaggio.
Sebbene disprezzasse il marito, non voleva dire che avrebbe sorvolato sugli accaduti. La sua vendetta incombeva sulla corona come un corvo del malaugurio che aspetta di divorare la carcassa della sua preda.
Per chi viveva a palazzo l'impressione era ormai quella di dover decidere da che parte stare, se a favore della casata Kynaston o dalla parte della coalizione anglo-francese, che per ironia della sorte vedeva dentro Livingstone le uniche mura in cui scorrevano acque tranquille.

Era questione di minuti. Lo stuolo di carrozze di Re Giorgio era arrivato. Avevo sentito i loro cavalli battere il brecciolino. Anche il loro nitrito era diverso, stridulo e foriero di guai.
Carlyle era stranamente calmo. Per l'occasione aveva optato per uno dei suoi migliori abiti, che metteva ancora più in risalto le sue gambe tornite e il suo torace ampio. Aveva accuratamente rasato la barba e indossato l'anello d'oro che la generazione Kynaston tramandava di padre in figlio.
Attendeva sul trono con la corona indossata e uno strano sorriso sul volto.
La porta della Sala Grande si aprì.
Il principe si alzò e tutti noi domestici presenti ci girammo. Un mormorio si disperse incalzante.
«Sua Maestà Re Giorgio! Re d'Inghilterra e d'Irlanda!» intonò il maggiordomo quando le ante si accostarono bene al muro da permettere all'ospite di fare il suo magistrale ingresso.
Apparve un uomo dalla pelle cipria e con un completo dai toni bianchi e dorati. Il monarca inglese era un ragazzo sulla ventina, alto e dal fisico slanciato. Aveva occhi grandi e tondi, naso dritto e pronunciato, labbra carnose e una parrucca bianca a coprirgli la capigliatura.
Carlyle scese un gradino, sfoggiò un sorriso spontaneo e accogliente e si diresse verso il suo ospite.
Si incontrarono in mezzo alla stanza e si strinsero la mano. A primo impatto non vidi in lui una figura minacciosa.
Cambiai idea quando udii la sua voce.
Rabbrividii. Non avevo mai sentito una voce così amara e povera di cortesia.
Carlyle e Giorgio III si sedettero ognuno ai due lati opposti del tavolo. A separarli, una distanza immensa.
«Vostra Altezza, è per me un onore ricevervi nel mio regno. Dio solo sa da quanto tempo aspetto questo momento!»
Stava mentendo, ma quelle adulazioni parvero compiacere il suo ospite.
«Vostra Maestà, ho rimandato troppo a lungo questa visita che sarebbe, invero, dovuta esser stata già consumata. Spero possiate perdonare il mio infinito ritardo.» Re Giorgio si sfregò le mani, poi fece cenno a un cameriere per farsi versare del sidro.
Alle spalle dell'inglese entrò Jocelyn, scortata dalla sua andatura magnetica.
«Cugino! Riesco finalmente a incontrarvi!» la principessa lo abbracciò e lo tastò, compiaciuta di conoscere dal vivo il suo principale confidente.
La bocca di Re Giorgio cominciò a cacciare fuori un torrente di parole. Nel suo parlare era sempre lui il protagonista e raramente concedeva all'altro l'opportunità di controbattere o di infilarsi nel discorso. Jocelyn lo ascoltava ammaliata, annuiva quando lui respirava tra una frase e l'altra e arricciava gli occhi in due foglie autunnali quando lo sentiva parlare dell'Inghilterra. George raccontava e lo faceva per il solo gusto di essere ascoltato.
Quello spazio divenne lentamente troppo piccolo per una personalità ingombrante come la sua.
Improvvisamente il tono del discorso prese una piega strana e obliqua.
«Principe Carlyle, ditemi» Re Giorgio diede un rapito sguardo intorno, come se fosse appena entrato in quel luogo «mi sono giunte alcune voci circa il crescente malcontento dei vostri sudditi sull'aumento delle tasse che avete imposto e, in particolare, mi sembra di capire che lamentino il tributo di residenza; pratica alquanto vecchia che tuttavia vi ostinate a mantenere. Ho ragione nel credere che siano solo menzogne?»
Carlyle stralunò gli occhi, sia per via della provocazione sia perché non riusciva a credere che gli avesse concesso del tempo per parlare.
«Le tasse di cui parlate servono a finanziare la guerra di cui io nel mio piccolo posso considerarmi vostro più diretto sostenitore; nonostante i miei piani iniziali fossero ben altri... ma questo, Vostra Maestà, lo sapete già. Mi lusinga sapere che questioni di così poco conto arrivino alle vostre orecchie e che prendiate a cuore i miei sudditi come se fossero i vostri.»
George scoppiò a ridere.
«Non sono in errore se dico che, alla fine, non c'è affatto differenza tra il mio popolo e il vostro. Sbaglio o un tempo eravamo un territorio unico? Sapete, mantengo sempre un occhio di riguardo nei confronti del mio vicino di casa!»
George non staccava lo sguardo dall'anello che Carlyle portava al dito, simbolo dell'esistenza di Sommerseth. Lo desiderava, eccome se lo desiderava!
«Vostra Maestà, che il malcontento del mio popolo non vi stia più a cuore di quello dei sudditi inglesi!»
«Il mio popolo mi sta sempre a cuore!»
Detto ciò, alzò il calice in segno di brindisi. Quella frase così criptica non lasciava intendere a quale popolo alludesse, ma qualcosa mi diceva che non si riferiva solo a quello britannico.
Il gelo cadde nella stanza. Carlyle guardava il Re con un'aria cupa, mentre quest'ultimo si leccava i baffi, pronto a sferrare la prossima mossa.
«Sapete, a volte mi sembra di dimenticare il momento e il motivo che ha portato i vostri antenati a dividervi dalla corona. Adesso, mio caro Kynaston, sareste potuto essere un arciduca al cospetto degli Hannover!»
Vidi Carlyle irrigidirsi e la sua carotide gonfiarsi e pompare sangue con la furia di un branco di cavalli a galoppo.
«Con tutto il rispetto, Vostra Altezza, ma essere sovrano del mio regno non è paragonabile a nessun titolo che avrei potuto vantare al vostro cospetto.»
Carlyle era visibilmente urtato dall'insolenza di quel giovanotto che non vantava neanche la metà della sua esperienza sul trono.
Il tutto sembrava invece appagare Jocelyn, che durante tutta quella conversazione non aveva fatto altro che mantenere gli occhi socchiusi in due feritoie e le labbra accostate e leggermente tirate da una parte.
Di punto in bianco l'espressione di Re Giorgio cambiò. Vi lessi una scarica di rabbia che sembrava trattenere a fatica.
«Non vi nascondo che mi rammarica tanto che abbiate impedito ai miei cittadini di trasferirsi qui e a chi è riuscito lo avete permesso a caro prezzo! Non credevo che tra di noi potesse esserci tale ostracismo! E ingiustificato per giunta!» incalzò concitatamente.
Carlyle lo guardò come se avesse di fronte un pazzo «Il principato non possiede risorse per chiunque e per quanto ogni nuovo inglese è sempre il benvenuto è anche vero che ognuno deve contribuire al sostentamento della casa che lo accoglie! Aggiungo anche che, come immagino sappiate già, il tributo è stato esteso a chiunque in modo tale da troncare sul nascere possibili supposizioni su eventuali discriminazioni basate sulla provenienza dei miei sudditi.» replicò di getto. Sembrava attendesse quella constatazione da un momento all'altro.
«Per tale ragione, non pensate che la vostra scissione sia stata una mossa alquanto azzardata?»
«Il corso della storia non ha dimostrato questo.» i denti digrignati risplendevano di un bianco brillante.
Seguirono attimi di tensione.
«Pensate mai al futuro del vostro regno?»
«Tutto il tempo e lo rincorro veloce come una gazzella perché non può che essere migliore del passato!»
Giorgio si strofinò le mani e curvò la bocca in un ghigno grottesco.
«La gazzella corre, corre! Ma badate bene, perché prima o poi il leone la divora!»

Quello scontro si interruppe quando il Re rivendicò il riposo per le sue membra.
La stanza era ripiombata nel silenzio. A movimentarla solo le battute di caccia e le scene bucoliche raffigurate nei dipinti alle pareti.
A uno a uno ci defilammo, cercando di mantenere un doveroso rispetto. Quello accaduto era stato uno scontro diplomatico, circoscritto a fatica nei toni della prudenza.
Per quanto il principe se la fosse cavata bene, aveva ricevuto dei colpi ben assestati.
Improvvisamente la porta principale si aprì di getto. La maniglia rimbombò sulle pareti come un tuono metallico e rimbalzò sulla superficie dura, per la violenza con cui era stata scaraventata.
Ne entrò Sir Jacques. Era trafelato, pallido, tremolante come una foglia, con gli occhi di un bambino che aveva appena visto l'uomo nero.
Il principe capì che era successo qualcosa di molto grave. Sir Jacques non si sarebbe mai fatto ricevere con quella irruenza.
«Vostra Maestà!» grido con la voce strozzata.
«Cosa succede?»
Il maggiordomo sembrò annegare tra le sue stesse parole. La sua bocca non si mosse di un centimetro ma è come se intorno a lui ci fosse un trambusto invisibile che lo scuoteva con la forza di un uragano.
Mi dovetti poggiare a una sedia per non crollare sotto il mio stesso peso, non avevo mai visto Théodore così. La sua agitazione bruciava sulla mia pelle.
«Parlate, buon Dio!»
Balbettò parole incomprensibili, ma cercò di prendere fiato per non svenire.
«È stata ritrovata una vostra domestica senza vita!»

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