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Capitolo 72

Settembre e ottobre furono mesi di grandi cambiamenti a Livingstone.
La corona si era spaccata a metà come una mela e ciò aveva destabilizzato l'intero principato e instillato nei sudditi un sentore di pericolo.
La principessa fece spostare i suoi appartamenti vicino a quelli del duca tanto da fomentare le voci circa una possibile liaison tra i due.
Nessuno del resto poteva affermare che Jocelyn e Godwin si fossero coalizzati, oltre che negli scopi, anche nel sentimentale, ma non poteva neanche dirsi il contrario: chi passava di fronte quelle stanze, a qualsiasi ora del giorno o della notte, poteva giurare di sentirli confabulare, ridere a volte e raramente anche alzare la voce. La cosa certa era che trascorrevano la maggior parte del tempo insieme e che Godwin, senza alcun dubbio, non avrebbe raggiunto il ducato di Beaufort per chissà quanto tempo ancora.
Se conoscevo almeno un minimo Jocelyn, avrei giurato che la vicinanza a suo cognato non era dettata da chissà quale interesse romantico, invero, era il mezzo da usare per concimare il suo attaccamento ossessivo e malato al principe; tuttavia, per quanto i suoi fini fossero ben altri, non rimase un mistero che le partite di scacchi con il duca o del tabacco colombiano fumato in compagnia si aggiunsero ai passatempi preferiti della principessa.

L'atmosfera che si era creata a corte mi fece tornare alla mente, con una certa insistenza, il ricordo della presenza di un segreto di cui udii parlare una volta i due di nascosto.
Quel giorno li avevo visti confidarsi con tono soffuso e con l'ansia di chi teme di avere le spie attorno. Se io ne ero a conoscenza era perché all'epoca stavo origliando, certo, e di questo ne provai anche vergogna a suo tempo, ma inspiegabilmente in quel momento ero quasi contenta di averlo fatto.
Si insinuò dentro me l'idea che i due avevano molto da nascondere e che la loro intesa non poteva limitarsi a una semplice parentela tra cognati. Il mistero si infittì quando notai che il carteggio della principessa con suo cugino, re Giorgio III, aumentò esponenzialmente: Jocelyn, per quanto sua consanguinea, non era grande amante del nuovo monarca inglese ma non poteva affermarsi neanche che lo odiasse. Mi sembrò alquanto assurdo pertanto che, da una misera lettera spedita in ricorrenza delle sante feste, fosse passata a scriverne una al mese e anche con una certa trepidazione.
Il principe, dal canto suo, non ebbe tempo di dedicare loro troppe attenzioni: in quel periodo era assorbito dalle questioni di Stato e dalla guerra con la Francia che minacciava di voler continuare all'infinito.
Rare erano le volte in cui riusciva a uscire dalle sue stanze prima dell'ora di cena e ancora più rare erano le occasioni in cui trascorreva più di un giorno tra una riunione di Gabinetto e una assembleare.
I pettegolezzi sulla vita privata della principessa e gli aggiornamenti che sopraggiungevano circa l'andamento della guerra, misero a tacere le dicerie che avevano avuto me e mia figlia come protagoniste.
Da quando avevo rimesso piede a palazzo, Jocelyn era stata chiara nel pretendere che non si venisse a sapere nulla circa la paternità di suo marito.
La bâtarde - così si riferiva ad Amaranta da quando era stata strappata dalle sue cure -  era destinata a vivere, secondo la sua concezione, all'ombra di tendaggi in velluto, porcellane e abiti in seta.
Le lingue più maliziose lessero in quell'uso del francese un altro evidente segno di appoggio al duca e di sfida alla corona.
La presenza di un'altra Kynaston non di puro sangue, secondo il suo punto di vista, sarebbe apparsa come scandalo agli occhi dell'Europa, per quanto sapeva che diversi monarchi e signorotti del vecchio continente avevano molti più figli di quelli che volevano far credere. Ricordai, a tal proposito, che in un'occasione non si era addirittura risparmiata dal dubitare circa la purezza di sangue di suo fratello Guglielmo Augusto, troppo rassomigliante, a suo dire, a una delle guardie personali della regina.
Al di là di possibili scandali, il timore più fondato poteva risiedere nella possibilità che un giorno Amaranta avrebbe potuto reclamare qualcosa: non era figlia legittima ma comunque di sangue reale. Questa possibilità non era in effetti così remota se si pensava a Godwin e al ducato di cui era a capo. L'ipotesi se poteva all'inizio sembrare reale finì per essere considerata semplicemente assurda. Amaranta, secondo Jocelyn, non avrebbe dovuto ereditare nulla se non il lontano ricordo di essere figlia di qualcuno.
Avevo imparato, in definitiva, che Jocelyn era una donna tutta d'un pezzo e che teneva all'apparenza e alla credibilità del suo cognome, poco le interessava della sorte dei suoi pari.
L'unica persona ad aver intuito qualcosa sin da subito e che poi diede dimostrazione di aver capito, era stato Sir Jacques.
All'inizio, nel parlare con la principessa, aggiungeva all'appellativo bâtarde anche le parole du prince, ma poi smise, quando gli feci presente che non desideravo che mia figlia venisse chiamata così. Riguardo alla denominazione che usava non confermai mai e tantomeno negai.
Dell'altra persona che invece era al corrente di tutto, sin dal primo momento, non avevo notizie da mesi.
In un'occasione avevo chiesto di Marfa proprio a Théodore e lui di tutta risposta, e anche meravigliandosi un po', affermò di non vederla da diverso tempo, dando la colpa all'infinità dei corridoi di Livingstone.
Alla sera capitava che mi sdraiassi sul letto a pensare a lei. Non l'avevo ancora perdonata ma pensai che non ne avevo neanche avuto il modo: nonna Rosalie diceva sempre che il perdono non solo bisognava sentirlo, per ottenere redenzione da Dio, ma anche dimostrarlo. Io stavo aspettando quell'occasione.

La fine di ottobre era giunta ma la temperatura mite e estiva sembrava non volersene ancora andare. Gli anni passati erano state le piogge a caratterizzare maggiormente quel periodo ma l'eco di una inusuale estate trasformò quel mese in un anacronistico maggio e mi spinse ad approfittarne per godere di qualche ora all'aria aperta.
Da quando avevo rimesso piede a palazzo, sia nel periodo del mio confinamento che al di fuori di esso, non avevo più svolto alcuna mansione di domestica.
Trascorrevo a volte le giornate annoiandomi, altre nel disagio per la situazione in cui versavo e altre ancora nella contentezza di sfruttare quel tempo libero a mio piacimento. Ero arrivata però al momento in cui avevo cominciato a sentire l'urgenza di tornare presto al mio vecchio lavoro. Di questo ne avevo parlato con Sir Jacques e lui mi aveva rassicurata dicendomi che avrebbe trovato qualcosa da farmi fare, nei limiti del possibile.
Quel giorno, dopo la consueta messa domenicale, presi Amaranta e uscii alla volta del ruscello non molto distante da palazzo.
Avevo da poco varcato la porta d'ingresso quando sentii due occhi puntati sul collo.
Mi girai a destra e sinistra poiché quella sensazione accennava a non voler sparire. Finalmente, quando alzai gli occhi in alto, vidi che era Carlyle a osservarmi con insistenza.
Lo guardai con una certa malinconia e lui di rimando. Il tempo che ci concedevamo assieme era andato via via scemando, limitandosi a qualche occhiata di sfuggita, a rari e casuali incontri lungo i corridoi, e riducendosi appena a qualche ombra proiettata dal sole, vuoi per gli impegni che lo riguardavano, vuoi per non alimentare voci insistenti.
Eppure soffrivo tremendamente la sua mancanza.
Arrivai al ruscello e adagiai Amaranta sul prato. In un primo momento si guardò attorno spaesata poi cominciò a prendere confidenza con i fili d'erba e a strapparne ciuffi con le sue piccole manine.
Nell'osservarla mi sentii tremendamente in colpa. Che futuro stavo garantendo a mia figlia e a quale vita la stavo destinando? C'erano momenti in cui avrei desiderato fuggire per offrire a quella bambina la tranquillità che non aveva ancora conosciuto.
In lontananza udii dei passi selciare l'erba.
«Non dovresti essere qui!»
Chiusi gli occhi e sorrisi quando riconobbi quella voce «Neanche voi.»
L'uomo dagli occhi mare si sedette vicino a me e colse un fiore di malva per porgerlo alla bambina. Questa lo afferrò, lo osservò perplessa e provò a infilarlo in bocca. Glielo impedii con un rapido gesto della mano, muovendo l'indice come una lancetta dell'orologio per farle capire che non erano cose da fare. Amaranta scosse il capo sbuffando con il naso e agitando le mani in aria. Un assaggio di ciò che mi aspettava una volta diventata adolescente.
«È incredibile quanto ti somigli.» sussurrai stringendo le ginocchia al petto.

Ci lasciammo cullare in religioso silenzio dall'eco ritmato dello scorrere dell'acqua.
«Non sono un padre molto presente per lei. Rassomiglio al mio.» esordì all'improvviso.
Mi rattristii.
Chissà da quanto ci pensava. Per la prima volta provai una profonda pena per lui: quell'uomo portava da solo, sulle sue spalle, il destino del principato cui era a capo, quello della corona, le sorti di una guerra in cui era entrato come comparsa e in seguito come uno dei più importanti alleati, l'ombra di un fratello per niente affabile e collaborativo e il pensiero di una figlia di cui a stento ricordava l'odore.
Lo scrutai con gli occhi lucidi «Sei un sovrano.»
Avevo la gola che mi tremava.
Il suo volto divenne pensieroso, ossessivo ed esitò un poco prima di parlare.
«Jocelyn e Godwin stanno tramando qualcosa alle mie spalle, il mio sesto senso me lo urla.»
Poggiai una mano sul suo ginocchio, affranta. Ne ero convinta anche io.
«È solo colpa mia.»
Negò con la testa convinto «Tu ne sei priva, Anthea. La colpa semmai è la mia e della gente da cui sono circondato.»
Apprezzai quel tentativo per quanto mi fosse possibile, ma quella sensazione non accennò a voler andare via.
«Alcuni dei miei uomini più fidati mi hanno parlato di un incontro privato che hanno avuto mio fratello e Sir Orville Patel. Godwin non ha mai intrattenuto neanche una conversazione con i Patel, mi domando quale sia il suo scopo.»
L'udire quel nome mi fece rabbrividire. Quando si trattava di Orville non bisognava aspettarsi nulla di buono.
«Quando si parla dei Patel c'è sempre di mezzo il denaro.»
Corrugò la fronte «Sì, ma a che fine... »
«Immagino stiano cercando di finanziare qualche loro attività, direi illecita.»
«I Patel sostengono la corona da generazioni. Non si inimicherebbero mai i Kynaston.»
«Anche tuo fratello è un Kynaston e deve aver avanzato un'offerta davvero irrinunciabile per accettare un incontro privato con lui. Sai bene che quando possono guadagnare dai loro prestiti non guardano in faccia
nessuno, neanche il principe in persona.»
Nascose la testa tra le mani, poi la rialzò, trascorse del tempo a fissare l'orizzonte prima di proseguire «Qualcosa mi dice che le cose non faranno altro che peggiorare e che questo è solo l'inizio!»
«Carlyle, temo tu debba capire chi sono davvero i tuoi alleati.»
Si accigliò e mi guardò bonariamente «E tu, sei mia alleata?»
Lo accolsi con un sorriso. Non c'era bisogno di rispondere a quella domanda.
«Ho grandi responsabilità, Anthea. Vorrei capissi questo.»
«Hai il popolo dalla tua parte e quando si ha questa sicurezza non bisogna temere neanche il peggiore dei nemici!»
Annuì con la testa fiero ma ancora titubante.
«L'importante per me è avere sempre vicino chi sa rifocillare un cuore affaticato con la sua sola e unica presenza.»
Mi intenerii e il tempo magicamente sembrò rallentare. Afferrai la sua mano e la strinsi per poi imprimere un lungo bacio sulla sua bocca.
Ogni volta era come la prima.
Poggiò la sua fronte sulla mia e serrò le palpebre «Desidererei trascorrere più tempo con te. Lo desidero veramente...»
Sospirai.
Amaranta ci vide. Gattonò verso di me e mi diede un debole schiaffetto sulla caviglia.
Rimasi sbalordita e scoppiammo a ridere.
«Signorina, sei per caso gelosa di Sua Maestà?»
Decisi di baciarlo ancora e lei ripeté quel gesto. Ridemmo un'altra volta e con più gusto.
Presi Amaranta e la girai di spalle «È ora di giocare con la signora coccinella e con il signor bruco!»
Carlyle rispose al mio bacio con più impeto e trasporto. La sua mano partì alla scoperta della mia gamba fino a raggiungere un punto che mi fece sobbalzare.
Mi prese per il bacino e mi fece girare a pancia in giù. Il sangue defluì così rapido tra le gambe che sentii ronzare le orecchie.
Avvertii il movimento delle sue mani correre sulla fibbia dei suoi pantaloni e poi un rumore di indumenti gettati a terra. Si distese su di me, facendo combaciare ogni angolo del suo corpo con il mio e quando la sua voluttà si fuse con la mia, ci fondemmo a nostra volta con madre natura.
I nostri corpi si accordarono all'unisono e presero a suonare la medesima melodia, seguendo il volteggiare della terra su se stessa e il cadenzare delle foglie che, cadendo, si ricongiungevano alla loro madre.
Amaranta non ci guardò per fortuna e, anche se lo avesse fatto, non ci avrebbe riconosciuto.

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