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Capitolo 71

Jocelyn assottigliò le palpebre in una fessura. Attendeva quel momento da chissà quanto tempo e prima di parlare, attese; per pregustare quel miscuglio di sgomento e confusione.
Si riconfermò ancora una volta la sua indole sadica, manipolatrice e la sua intelligenza pianificatrice e malvagia.
Carlyle si stava innervosendo e la cosa non mi piaceva.
Avevo imparato a interpretare il linguaggio del suo corpo: quando irrigidiva la mascella e allargava le narici, sarebbe riuscito a mantenere il controllo senza difficoltà, ma se mordeva anche le labbra e stringeva i pugni, il rischio era che le cose gli sarebbero potute sfuggire di mano. Questo accadeva di solito quando veniva toccato nel personale con irruenza e, soprattutto, senza permesso.

La principessa lo guardò fissa negli occhi. Era divertita. Il rimbombante silenzio si fece assordante; si rivolse allora ad Amaranta, le sistemò la cuffietta che le era finita sugli occhi e la cullò sorridente.
«Mio caro» cominciò «abbandonate quello sguardo turbato! Dovreste essere contento invero. Vedete? Vi ho riportato la vostra sgualdrina!» nel dirlo, mi indicò con il palmo della mano e la bambina seguì quel movimento con gli occhi. Non appena mi vide si immobilizzò e solo quando mi riconobbe cominciò a piangere e dimenarsi. Sbiascicò dei suoni strozzati e agitò le braccia verso di me.
Il cuore mi andò in frantumi e mi gettai verso di lei per andarla a prendere. Due mani mi fermarono ancora una volta: erano le guardie della principessa a cui erano state date istruzioni di intervenire se avessi reagito così. Mi accasciai al pavimento e presi a singhiozzare.
Carlyle, al vedere il trattamento che mi era stato riservato, perse definitivamente la pazienza. Il tempo di mentire e nascondere la verità era finito.
«Date la bambina a sua madre!» latrò il principe con un tono che non ammetteva repliche.
Jocelyn tentò in qualsiasi modo di calmare Amaranta, facendola dapprima saltellare sulle ginocchia e poi mettendole una nocca in bocca «Preferite tenerla voi? Vostra figlia avrà piacere a stare con suo padre dopo tutto questo tempo!»
Un sorriso terrificante e demoniaco si delineò sul suo volto.
La porta alle mie spalle si aprì e ne entrò Godwin. Il suono dei suoi passi sul marmo era fragoroso come il rintocco di una campana. Quando mi passò vicino mi osservò divertito, ma anche con un velo di rabbia, per non aver ottenuto ciò che invece suo fratello era riuscito a conquistare.
«Ma che bel quadretto familiare!»
Di tutta risposta a quell'ironia, Carlyle fece una smorfia amara e subì la presenza di suo fratello come se avesse attorno una mosca fastidiosa che più si prova a scacciare e più infastidisce.
Non aveva di certo sofferto la sua mancanza.
«Date la bambina a sua madre! Non ho intenzione di ripeterlo un'altra volta!» intimò con calma apparente, ma con una tensione in corpo che avrebbe incenerito anche le pietre.
Jocelyn divenne di ghiaccio, gli occhi freddi e duri. Avvelenata, strinse un bracciolo con una mano, così forte da poterlo stritolare. Smembrò suo marito con lo sguardo fino a quando, con l'irruenza di una tempesta, tuonò «Pensate di tornare qui e far finta che non sia successo nulla? Addirittura, vi comportate in un modo che lascia intendere che tra i due la squilibrata sia io! Vi siete forse dimenticato che avete fornicato alle mie spalle, nella mia casa, nel mio letto!» gridò paonazza e scattò in piedi «Mi avete fatto credere di amarmi, farcendomi delle vostre finte attenzioni, quando le lenzuola della vostra sguattera erano ancora pregne del vostro odore! Ditemi quando, quando avete cominciato a preferire una stracciona poco più che bambina a vostra moglie e sovrana? Dio, se vi vedeste vostro padre! Mi fate quasi ribrezzo!»
Sentii i suoi occhi colpirmi e strisciarmi addosso indiscreti: pareva chiedersi cosa avessi avuto di così tanto prezioso da far sì che suo marito preferisse me a lei. Non avevo sangue reale, anzi al contrario, ero di umili origini. Non possedevo la sua eleganza e tanto meno la sua discendenza. Non avrei mai avuto il suo portamento e il suo carisma per di più, eppure la scelta di Carlyle era stata chiara.
«Di questo ne parleremo io e voi da soli. Ora, consegnatele la bambina!»
Sembrava solida e irremovibilmente di pietra.
«Sarò io d'ora in poi a prendermi cura di lei. La ragazza verrà cacciata.»
Non avendo intenzione a ripetersi ancora una volta, Carlyle fece cenno alle guardie e queste si guardarono tra di loro esitanti, non sapendo più quali ordini eseguire. Jocelyn sobbalzò incredula e impreparata.
«Voi fate questo a me? Mi riservate il trattamento destinato a un fuorilegge? Dentro casa mia? Come osate! Guardie! Tornate al vostro posto e non azzardate ad avanzare di un solo passo!»
I due uomini si bloccarono a metà via e indietreggiarono tremolanti.
Un rumore di spada sguainata rimbombò sulla giubba metallica di uno dei due.
«Fate come vi ho detto se non volete perdere la testa! Il vostro sovrano ve lo ordina!»
Uno dei due uomini - il più coraggioso - eseguì gli ordini e, sotto lo sguardo incredulo della principessa, strappò la bambina dalle sue mani, lasciandola a chiedersi quando fosse retrocessa a una posizione che giustificasse tale umiliazione oltre a quelle che aveva già subito.
La donna rimase di sasso a lungo, allibita dalla consapevolezza di non contare più di una domestica e meno di un insulto. Una rabbia folle, disperata, accompagnata da una minaccia profetica, contorse la sua bocca in un sibilo demoniaco destinato a trasformarsi in un boato «Voi, non sapete in che situazione vi siete messo! L'ira di Re Giorgio si scaglierà presto su di voi e sul vostro principato!»
Godwin, che fino ad allora era stato solo uno spettatore, sostenne platealmente la posizione di sua cognata «Fratello, vi siete dichiarato guerra da solo!» sancì con pazzo e tetro godimento.

Ero finalmente con Amaranta. La guardavo accovacciata e con la testa poggiata sulle mie braccia, commossa e esterrefatta allo stesso tempo. Dio, come poteva provenire da me!
Era seduta in terra, con ancora indosso quella cuffietta che presto le avrei tolto, e la guardavo passarsi un fazzoletto ricamato tra le mani che di tanto in tanto sventolava in aria al suono di qualche versetto infantile.
Emise un dolce gridolino quando gettò il fazzoletto a terra. Me lo indicò. Voleva che glielo raccogliessi. Glielo porsi e prese nuovamente a sventolarlo. Le promisi sottovoce che un giorno le avrei insegnato a ricamare.
Solo quando la vidi crollare a terra per il sonno capii che era arrivato il momento di metterla a letto. La adagiai nella sua culla e le carezzai prima le rosee guance e poi la fronte liscia, assaporando quanto la sua presenza mi bastasse.

Il campanile della cappella suonò nove rintocchi quando la porta della stanza si aprì.
Sussultai. Non mi aspettavo visite, tantomeno a quell'ora tarda della sera.
Caddi vittima di un subbuglio atroce quando mi resi conto che era Carlyle ad aver varcato il confine di quel piccolo mondo.
Rimanemmo a fissarci agli antipodi della stanza, chiedendoci se si trattasse di un'illusione o se fossimo veramente l'uno di fronte all'altra.
A forse secoli o millenni erano paragonabili i mesi che ci avevano mantenuti divisi.
Carlyle chiuse la porta dietro di sé e avanzò a passi taciti, quasi avesse paura a infrangere l'incantesimo in cui eravamo piacevolmente caduti.
«Ti ho scritto infinite lettere e altrettante infinite sono state le volte in cui ho atteso una tua risposta.»
Il suono di quella voce fendere l'aria fu dolce quanto il canto dell'usignolo che preannuncia la primavera.
«Non ne ho ricevuta alcuna. Abito questa stanza da poco dopo la tua partenza dal Kent e qualsiasi contatto con il mondo mi è stato proibito...» risposi con un groppo alla gola.
Avevo avuto timore a rivedere l'ombra dei suoi occhi, che del giorno avevano il colore; a rifocillarmi tra le sue braccia, che del sole sprigionavano il calore, eppure, quella era la dimostrazione che mi aveva pensata costantemente; come avevo fatto io con lui.
La distanza che ci separava divenne intangibile quando i nostri corpi si rincorsero e si unirono in un abbraccio sofferto, frondoso e affamato. Lo avevo cercato negli spazi tra le dita di nostra figlia, negli angoli più remoti del letto.
Affossai il capo nell'incavo del suo collo e feci scorta del suo inconfondibile profumo. Mi era mancato e glielo stavo dicendo con tutto il silenzio di cui ero capace.
Mi strinse la schiena con forza nostalgica e incontenibile e poi mi ammirò con i suoi profondi zaffiri.
«Ragazzina, mi hai fatto visita quasi tutte le notti. Non sei così diversa dai miei sogni.»
Nell'insieme delle cose che mi erano mancate, sentirmi appellare così era una di quelle.
Lo fissai con il cuore molle, allora poggiai la testa al suo petto e chiusi gli occhi.
«E io sono stata in pensiero per te nel campo di battaglia. Santo Cielo, potevi almeno avvisarmi prima di partire.»
In momenti come quello, mi sarebbero bastate le sue dita tra i capelli e il sussurro della sua voce a cullarmi.
Tastai le sue braccia e feci scivolare le dita sul rigonfiamento delle sue vene. Non potevo credere che fosse veramente lui! Come mi ero sentita sola e in pericolo e ora invece era tornato, e mi aveva difesa e fatta sentire al sicuro!
Lo spinsi sul petto addosso al muro. Lo afferrai per le spalle e lo baciai in punta di piedi. Mi stupii io stessa di quanto lo volessi. Con quel gesto lo colsi alla sprovvista ma si dimostrò essere anche lui in attesa di quel momento. Mi baciò a lungo e la sua passione si mescolò alla furia, alla paura e al bisogno di avermi nuovamente tra le sue braccia. Lo desiderai al pari della più modesta necessità. Ci stringemmo con un impeto che non avevamo mai conosciuto, come se i nostri corpi si mescolassero l'uno con l'altro senza mai infrangersi.
La passione arrivò al culmine quando le sue mani partirono alla ricerca dei bottoni della divisa da strattonare disperatamente. Quando li trovò li martoriò e passò ai lacci della mia gonna.
Non volendo essere da meno, aprii con vigore le madreperle del suo colletto e poi mi diressi ai pantaloni che slacciai con furia famelica fino a quando non scesero alle sue caviglie.
Arrivato il suo turno, mi privò della gonna e del corpetto e infine anche della sottoveste, rimanendo per qualche istante in beata contemplazione dei miei seni ignudi.
Ci adagiammo a terra ad ascoltare con rigoroso rispetto i palpiti convulsi dei nostri petti.
Non vedevo l'ora che le sue forme combaciassero con le mie.
Presi i lembi della sua camicia di seta e la feci passare per il collo, lasciando i suoi capelli a svolazzare ribelli.
Il calore del suo sesso sfiorarmi il monte di Venere fu un tormento. Allungai lo sguardo verso il suo pube ma fu questione di attimi perché subito scomparve.
Quando ci unimmo in un ossimoro criptico e beneaugurale ebbi la sensazione di dissolvermi in lui, come se in realtà non fossimo stati due anime divise ma un corpo unico.
Le nostre labbra si inseguirono con voracità, impossibili da saziare, i nostri corpi suonarono una musica fatta di gemiti e sospiri.
La bellezza di quel momento annichilì qualsiasi altro desiderio.
Più aumentava la frequenza e la profondità dell'affanno più mi sentivo esplodere in cielo. Gli strinsi una natica e lui un seno. Grugnì forte e a stento riuscì a placare la voglia di gridare.
Il fervore che ci aveva reso schiavi svegliò Amaranta che cominciò a piangere.
Alzammo la testa al richiamo della bambina ma quando provai a sgattaiolare dalla sua presa mi fece ricadere a terra.
«Tra poco smetterà di piangere!» mormorò tribolante nel mio orecchio.
Successe ciò che aveva detto: Amaranta ritornò a bearsi del suo sonno e noi al nostro intreccio di anime.
Spinse la schiena all'indietro, mi afferrò per il bacino e quando raggiunse l'apice dell'erotrascendimento esalò un respiro e tirò la testa all'insù per il sollievo.

Concedemmo il tempo ai nostri corpi di riposare e al cuore di riprendere a battere a un ritmo normale dopo lo sforzo a cui era stato sottoposto.
Carlyle prese con cura Amaranta dalla culla. La bambina stropicciò le manine sugli occhi e sgambettò un pochino, ma non si svegliò. Si adagiò sul letto e la accolse tra le sue braccia, le baciò il palmo della mano e se lo lasciò scivolare sulla guancia. Nel riflesso della pupilla, all'oscurità della notte, vedevo che sorrideva mentre la guardava. Le carezzò le guance e la bocca con un leggero movimento del polpastrello.
Aprì le coperte e accovacciò Amaranta al centro, si distese vicino a lei e io feci altrettanto. Ci fissò a lungo e mi domandai a cosa stesse pensando. Era sereno.
Lentamente mi addormentai e abbandonai gli affanni e i piaceri della giornata all'alba che giungeva.
Quando mi svegliai la mattina seguente era andato via.

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