Capitolo 70
I tre mesi successivi al mio ritorno a Livingstone furono i peggiori della mia vita. Fu quello il periodo in cui mi resi conto di cosa fosse il dolore vero, quello che ti recide l'anima, che non fa dormire, che fa perdere la cognizione del tempo.
Le mie grida, le mie lacrime, i miei sospiri, si scaraventavano incontenibili al di fuori di me ma non oltrepassavano mai la porta della mia prigione e puntualmente mi tornavano indietro, con la prepotenza di una raffica di lame gelate.
Durante quel periodo provai lo strazio che soffre una persona alla quale tagliano la carne con le forbici o le recidono un dito con una lama arruginita... o magari no, magari non era così: la debilitazione mentale in cui stavo sprofondando era addirittura più dolorosa di qualsiasi sofferenza fisica un corpo potesse sopportare.
Erano stati mesi in cui mi ero trascinata, in cui ero stata pervasa dall'assenza. La solitudine del mondo era soltanto un tassello di quella tortura che ero costretta a subire senza diritto di parola. Era una lunga notte che non aveva più visto il giorno, senza neanche la luce delle stelle a darle conforto. Inglobata da un buio impenetrabile e asfissiante, lasciavo che il tempo mi scivolasse addosso, in attesa di una fine che sapevo non sarebbe arrivata.
Ero una donna avvinta dal dolore per l'amore di una figlia di cui non le concedevano neanche la presenza. Perché sì, con il passare dei giorni, di Amaranta cresceva solo il ricordo.
Mi convinsi che la vera punizione non fosse quella dell'avermi confinato in una stanza di qualche metro quadro ma quella di pensare al peggio quando mi svegliavo di notte in seguito alle urla di mia figlia che si rivelavano essere poi solo frutto di una mente sopraffatta e che genera sogni disperati.
L'episodio in cui mostrai di iniziare a dare segni di instabilità mentale fu quando Sir Jacques si scaraventò nella mia stanza dopo avermi udito parlare concitatamente. La faccia meravigliata che fece quando appurò che fossi sola non aveva precedenti.
Mi disse che stavo perdendo il lume della ragione e che dovevo avere cura di me. Non gli diedi ascolto e continuai il mio soliloquio carico di astio che un giorno avrei rivolto alla principessa. L'assenza di Amaranta mi massacrava, mi consumava dal di dentro.
Ogni tanto, quando credevo di non far più parte del mondo reale, mi pizzicavo un braccio per ricordarmi che non ero ancora del tutto scomparsa.
C'erano occasioni invece in cui mi rendevo conto che, all'altezza del seno, erano comparse delle aureole umide. Scattava allora il campanello d'allarme che dovessi nutrire mia figlia. Mi sbottonavo l'abito e scoprivo una mammella, mi precipitavo sulla culla alla velocità della luce, per poi rendermi conto che mia figlia non c'era. Era l'ennesima spada conficcata che lasciava il mio cuore sanguinante.
Tutto era cominciato gradualmente. All'inizio la principessa reclamava la bambina un'ora al giorno, di solito la mattina. Quell'ora si trasformò in due nell'arco di poco, poi in tre e infine in tutta la mattinata. Di fronte a quell'usurpazione mi sentivo impotente. Era come rivivere lo stesso trauma ogni giorno tutte le volte che veniva il domestico di turno a strappare ingiustamente mia figlia dalle mie braccia.
All'inizio Amaranta piangeva, si dimenava, mi reclamava. Con il passare del tempo integrò quel rito come un'abitudine.
La situazione peggiorò quando la principessa decise che la bambina sarebbe stata con lei tutto il giorno. Fui colta dagli attacchi di panico quando assodai che Jocelyn non sarebbe mai stata in grado di interpretare i suoi bisogni, i suoi pianti; che non era mai stata a contatto con un neonato.
Svenni quasi a terra quando immaginai la scena di Amaranta cadere dalle sue braccia inesperte.
Cercai allora di impedire lo sfacelo con tutte le forze, ma nessuno sembrò volermi dare ascolto. L'impressione che ebbi fu che fossi percepita come un rumore di sottofondo; la realtà era che Jocelyn stessa aveva dato istruzioni affinché fossi trattata come tale.
Mi ero spersonificata, ero invisibile. Il mio ruolo aveva perso autorevolezza.
Capii che l'obiettivo della principessa fosse quello di farmi dimenticare da Amaranta quando mi privò di lei anche durante la notte.
Voleva che non mi riconoscesse più come sua madre. Voleva sostituirsi a me.
Fu quello il momento in cui toccai l'apice della pazzia vera. Si insinuò nella mia mente l'idea che la principessa si sarebbe presto sbarazzata di me e che era solo questione di tempo.
Cominciai a provare una combinazione di allucinazioni e paranoia. Il minimo rumore durante la notte mi svegliava, temevo si trattasse di qualche sicario venuto a posta per far perdere le mie tracce.
Nei brevi momenti in cui tornavo lucida, e solo in quei casi, elaboravo i sentimenti più opportuni a quella situazione: rabbia e ingiustizia.
Con quale pretesa Jocelyn si arrogava il diritto di sostituirsi a me?
Lessi nella sua condizione non solo malvagità ma anche miseria: in tutta la sua vita coniugale non era riuscita a dare un erede a suo marito e quando lui, anche senza il suo intervento, era riuscito a mettere al mondo una creatura, lei aveva dovuto appropriarsene per sentirsi completa e non del tutto inutile. Aveva dovuto farlo per sincerarsi di avere ancora un posto nell'universo. L'odio che aveva sviluppato pertanto riguardava solo me, non la bambina. Sebbene la creatura fosse per metà di Carlyle, aveva comunque l'altra parte ancora grigia, da rimodellare, ma confidava che se ne sarebbe presto appropriata.
La sua condizione era degna di commiserazione, ma ciò non era sufficiente per giustificarla.
Non solo la mia mente dava segni di cedimento, presto anche il mio corpo imboccò la stessa strada quando, un giorno, decisi che di lì in avanti mi sarei rifiutata di mangiare.
A cosa serviva infatti nutrirmi se non avevo ossigeno?
Rimandai indietro l'ennesimo pasticcio di carne quando Sir Jacques venne a servirmelo.
In altre occasioni lo avrei divorato. Era il piatto forte di Violet.
«L'unica cosa che noto di voi sono gli zigomi sporgenti e appuntiti. Scomparirete di questo passo.»
«Non è forse quello che sto già facendo?» ribattei.
Sir Jacques scrollò la testa e incurvò le spalle. Sapeva che non avrei ceduto ma era veramente preoccupato per me.
Se ne andò, ma all'atto di uscire mi fissò.
Sembrava volermi dire non fatemi pentire di quello che sto per fare.
«Vostra figlia è nelle stanze della principessa.» dopodiché scomparve dalla mia visuale e, nel farlo, lasciò la porta aperta.
Sentii l'elettricità pervadermi il corpo e una gioia esplodermi le ossa. Sir Jacques era veramente dalla mia parte e mi avrebbe permesso di incontrare mia figlia dopo settimane e settimane che non la vedevo. Mille domande mi assalirono: era cambiata nel frattempo? Mi avrebbe riconosciuta? Avrei retto l'emozione?
Come se stessi per mettere in atto una spedizione segreta, uscii dalla stanza con passo felpato. Mi sentii subito spaesata. Non vedevo quei corridoi da mesi, quando una volta ero abituata a percorrerli più e più volte al giorno. Mi guardai intorno, tremando al minimo rumore.
A un tratto udii dei passi dirigersi verso di me. Si fecero sempre più vicini e ritmati fino a quando non coprirono il mio batticuore tumultuoso.
Annaspai per trovare un nascondiglio. Voltai le spalle al suono delle scarpe e perlustrai il corridoio spoglio. Trovai rifugio dietro una cassettiera poco più alta delle mie spalle.
Due domestiche voltarono l'angolo. Avevo fatto appena in tempo.
Quando mi piegai, mi scrocchiarono le ginocchia. Un rumore secco e sonoro.
La domestica più giovane si fermò e alzò una mano «Avete sentito?»
Caddi in un'agitazione violenta e silenziosa.
L'altra annuì ma non sembrò affatto preoccupata come la prima.
«Andiamo a controllare!»
Entrambe si scaraventarono nella prima stanza che si trovarono di fronte, alla ricerca dell'origine del suono che le aveva messe così tanto in allarme.
Sgattaiolai da quel nascondiglio e mi diressi verso le stanze della principessa. Incredibilmente trovai le porte aperte.
Tra tutti i suoni circostanti, colsi quello che mi interessava unicamente. Mi appoggiai al muro e chiusi gli occhi, senza smettere mai di camminare. Concentrai ogni briciola del mio essere sulla voce di mia figlia. L'avrei saputa distinguere tra mille.
Da quel che mi sembrava di sentire era tranquilla. Non piangeva.
Afferrai i cardini e mi affacciai. Provai una fibrillazione che mi impedì di agire.
Amaranta era lì, a pochi passi da me. Piansi per l'emozione e per la voglia di correre da lei e abbracciarla e infine risi perché era lì, di fronte a me. Quella visione era un supplizio e un godimento allo stesso tempo.
La principessa la teneva in braccio e la guardava come se fosse veramente sua madre. Mi sembrò che nel mentre la vezzeggiava, Amaranta ridesse. Improvvisamente i suoi occhi verdi, luminosi e magici, incontrarono i miei.
Quel germoglio primaverile si fermò a guardarmi. Il mio cuore si sgretolò per la paura che non mi riconoscesse.
Aprì la sua boccuccia a cuore e poi emise un verso e in seguito un altro. Tremai.
Sapeva chi ero e mi stava chiamando!
Maledii il fato e piansi disperata «Non posso! Non posso!» sussurrai rumorosamente. La peggior sensazione che provai fu averla vicino e sentire la sua mancanza.
Speravo avesse capito in che situazione mi trovavo ma mi chiamò un'altra volta.
Il suo richiamo fu un'altra lama infilzata nella carne.
Dovetti respirare forte per contrastare la voglia di correre da lei.
«Guarda cosa ti fa vedere la mamma!»
Jocelyn scoprì il polso e fece muovere un braccialetto dorato che riflesse il bagliore del sole sulle pareti, creando un bellissimo gioco di luce. Amaranta lo fissò stupita.
Quella parola mi scosse come un terremoto. Sentii le gambe cedere sotto il mio peso, le vene tapparsi; poi non ricordai più niente.
Qualche minuto dopo ero dentro la stanza, con Jocelyn che reclamava le guardie a gran voce e mi offendeva e umiliava con le peggiori parole che esistessero al mondo. Solo dopo aver preso nuovamente contatto con la realtà mi resi conto che stavo urlando a perdifiato.
«Voi non siete sua madre! Voi non siete sua madre! Siete un'usurpatrice! Una malvagia!»
Lo ripetei infinite volte e avrei continuato ancora e ancora se non fosse stato per due mani possenti che mi afferrarono per le braccia e mi trascinarono via con la forza.
Il mio isolamento venne inasprito nel mese che seguì. La principessa ordinò che una guardia sorvegliasse giorno e notte la porta, per evitare che un episodio come quello si ripetesse. Mi sentivo una prigioniera di guerra.
Una mattina di agosto venni svegliata prepotentemente all'alba dalla guardia di turno.
«Alzatevi! La principessa vi vuole vedere!»
Ancora assonnata e confusa mi preparai e nel giro di poco ero in cammino trascinando il mio scheletro appuntito, sempre scortata dal gendarme di turno.
Mi attendeva nella Sala Grande. Quando entrai la vidi seduta sul trono con Amaranta. Ebbi un mancamento. La bambina era cresciuta nel mentre e piansi al pensiero che per tutto quel tempo non c'ero stata. Quell'immagine ricordava vagamente la Madonna con il bambinello, ma di celestiale e santo aveva ben poco.
Improvvisamente si aprì anche la porta che avevo di fronte. Sentii le budella contorcersi.
Dopo mesi in cui non avevo avuto più sue notizie, apparve Carlyle.
Fu stupito quanto me quando gli comparvi davanti. Arrestò subito la sua andatura sciolta e reale e mi ispezionò da cima a fondo per appurarsi che fossi veramente io in quel corpo martoriato. Una volta certo, mi accolse con una lieve apertura della bocca, a segno di stupore, ma con il sorriso limpido negli occhi.
Persi di nuovo la consapevolezza del tempo e dell'ora. Se solo avesse indovinato i miei pensieri e se avesse potuto udire il mio sguardo e se questo avesse parlato, avrebbe capito quanto ardentemente mi era mancato e quanto più lo avevo desiderato e tanto più mi era fuggito, tanto più lo avevo amato. Quanto tempo ancora saresti stato lontano da me? Era stata la domanda che mi aveva fatto visita quando il pensiero di nostra figlia mi dava sollievo. E la sua assenza mi aveva consumata, come la spiaggia bigia faceva con la marea.
Rimasi pietrificata dall'emozione. Tre vertici di un triangolo che si riunivano dopo tanto tempo.
Feci una bramosa razzia della sua figura. La guerra la aveva provato e affaticato, ma sembrava avergli accentuato il fascino magnetico e l'indole divina. Mi concentrai sui suoi quadricipiti gonfi, sui pettorali possenti e larghi, contenuti a malapena dalla giacca che aveva indosso, sulla linea sensuale del suo pomo d'Adamo e sul ricordo del suo corpo muscoloso e longilineo perfettamente combaciare con il mio.
Il principe passò lo sguardo incredulo dal collo al mio viso e infine, visibilmente emozionato, cercò Amaranta.
Ignaro di ciò che stesse accadendo si rivolse alla principessa.
«Jocelyn» il suo tono era grave e perentorio «cosa significa tutto questo?»
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